Sono passati oramai cinque mesi dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, ed è già possibile tracciare un primo bilancio delle mosse del neopresidente repubblicano. Il settantunenne newyorkese sembra aver deciso di dedicare la prima parte del suo mandato alla distruzione di quanto fatto da Barack Obama nel corso dei precedenti otto anni. Non che la presidenza Obama si esente critiche, anzi, ma quanto meno l’amministrazione democratica aveva ottenuto dei risultati apprezzabili (pochi) in alcuni campi. Di fatto, abbiamo evidenziato tre settori nei quali l’amministrazione Obama aveva fatto dei passi in avanti rispetto alle storiche posizioni degli Stati Uniti, ma per ogni passo in avanti fatto dal primo presidente afroamericano della storia sembra che Donald Trump sia intenzionato a farne due indietro.
AMBIENTE E ACCORDO DI PARIGI
Della prima tematica ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, ed è quella ambientale. Storicamente, gli Stati Uniti si sono sempre mostrati restii a prendere accordi internazionali riguardanti l’ambiente, e la dimostrazione più grande è in quel protocollo di Kyoto firmato ma mai ratificato da Washington, uno dei pochi Paesi nel mondo a rifiutare il primo grande accordo internazionale in materia di riduzione dell’inquinamento.
Da questo punto di vista, l’amministrazione Obama ha certamente compiuto grandi passi in avanti, innanzi tutto ammettendo l’esistenza del surriscaldamento globale e l’influenza che l’uomo ha su di esso (due verità scientifiche, che però negli Stati Uniti sono ancora questione di dibattito), e poi rendendosi addirittura promotore dell’Accordo di Parigi. Il presidente democratico ha dimostrato di essere cosciente del ruolo degli Stati Uniti, quello di più grande inquinatore del mondo (in realtà superato negli ultimi anni dalla Cina in termini assoluti, ma non pro capite), e di avere dunque una responsabilità nel cercare di migliorare il rapporto tra l’essere umano ed il pianeta Terra.
La storia recente la conosciamo. Sin dal suo insediamento, Donald Trump ha dimostrato non solamente di non avere affatto a cuore la questione ambientale, ma addirittura di voler effettuare un netto cambiamento di rotta. Il nuovo inquilino della Casa Bianca si è circondato subito di personaggi negazionisti del riscaldamento climatico, affidando ad uno di questi, il signor Scott Pruitt, addirittura l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e dimostrando di voler fare retromarcia rispetto ai progressi, seppur timidi, fatti dal suo Paese negli ultimi anni. Le prime dichiarazioni di Pruitt, del resto, furono le seguenti: “Le emissioni di anidride carbonica non incidono sul cambiamento climatico“.
Trump è così giunto fino ad annunciare l’uscita degli Stati Uniti dallo stesso Accordo di Parigi promosso da Obama. La versione ufficiale (ovvero la scusa) sarebbe quella di difendere i posti di lavoro dei cittadini statunitensi impegnati in settori altamente inquinanti quali quello industriale e quello minerario, ma in realtà sappiamo bene che ciò che interessa a Donald Trump è piuttosto proteggere il profitto dei grandi industriali che lo hanno sostenuto in campagna elettorale: “Al fine di compiere il mio dovere solenne di protezione dell’America e dei suoi cittadini, gli Stati Uniti si ritireranno dall’accordo di Parigi sul clima”, ha dichiarato il presidente. “Non posso, coscientemente, sostenere un accordo che punisce gli Stati Uniti”.
Per il resto, abbiamo già evidenziato come l’uscita dall’Accordo non sarà effettiva prima del 4 novembre 2020, visto che il trattato prevede che, per denunciare il trattato dopo averlo già ratificato, le parti contraenti debbano aspettare almeno tre anni dalla sua entrata in vigore, avvenuta il 4 novembre 2016, più un altro anno di preavviso prima che avvenga l’uscita. Detto questo, Trump potrebbe benissimo decidere di iniziare a violare l’Accordo sin da domani, e questo – inutile dirlo – potrebbe avere conseguenze disastrose per tutto il pianeta.
TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA
L’altro successo dell’amministrazione Obama era stato quello di rivalutare la sanità pubblica di fronte alle compagnie private imperanti negli Stati Uniti. Ciò era avvenuto attraverso l’implementazione di due programmi già esistenti: Medicaid, che fornisce aiuti agli individui e alle famiglie con basso reddito salariale, e Medicare, riguardante principalmente gli anziani oltre i sessantacinque anni di età ed i disabili. I due programmi furono promossi negli anni ‘60 dal presidente Lyndon B. Johnson, ma hanno subito forti variazioni a seconda delle amministrazioni (generalmente tagli sotto i presidenti repubblicani e rifinanziamenti con quelli democratici).
I dati ci dicono che, durante la presidenza Obama, diversi milioni di persone hanno potuto usufruire per la prima volta di un’assicurazione sanitaria. Un diritto che dovrebbe appartenere a chiunque, ma che negli Stati Uniti è tutt’altro che certo, tant’è che ora Trump ha deciso di far abbattere la mannaia dei tagli proprio su Medicaid e Medicare.
A denunciare la situazione è stata Elizabeth Warren, sessantottenne senatrice democratica del Massachusetts, che ha pubblicato un video sulla propria pagina Facebook dove spiega le conseguenze dei tagli voluti da Donald Trump: “La legge che i repubblicani hanno negoziato in segreto per settimane ci fa capire per chi lavorano veramente”, ha esordito. Innanzi tutto, le tasse: saranno previsti forti tagli per i possessori di alti redditi, per coloro che hanno denaro investito in borsa, che effettuano grandi transazioni o che posseggono una grande compagnia assicurativa del settore sanitario. Vantaggi, dunque, tutti per il settore privato, ma questo è solo l’inizio.
“Il problema di questi tagli”, spiega la senatrice Warren, “è che si sommano tra loro”. Dopo aver già passato una prima legge che tagliava diversi miliardi di dollari dai programmi sanitari nazionali, è arrivata anche la seconda razione: “Quella legge non era abbastanza crudele, ed allora hanno pensato ulteriori tagli su Medicaid. Ciò significa che un americano su cinque che ottiene la propria assistenza medica attraverso Medicaid subirà le conseguenze di questi tagli, così come i trenta milioni di bambini che hanno assistenza medica grazie a Medicaid, o ancora i due terzi degli anziani che risiedono in case di riposo”.
Ma la legge riguarda anche “i fortunati” che si sono affidati al settore delle assicurazioni private, visto che queste ultime non saranno più obbligate a fornire una serie di servizi, divenuti ormai opzionali. Tra questi, l’aiuto alla maternità, l’assistenza alla salute mentale, i trattamenti per la dipendenza da sostanze stupefacenti. Non ci saranno neppure più fondi per la cosiddetta “genitorialità pianificata” (Planned Parenthood), ovvero per quelle associazioni che si battono per il rispetto del diritto all’aborto, ma che si occupano anche di altri problemi di salute riguardanti le donne, dai servizi sanitari di base alla prevenzione per i tumori.
“Questa è una legge davvero terribile”, ha concluso la senatrice Warren, “Questa legge è fatta per diminuire le tasse per i ricchi ed i repubblicani ci stanno dicendo che queste solo le loro priorità. Ci prendiamo cura delle persone delle quali siamo interessati, ed a pagarne il prezzo saranno tutti gli altri. Questa legge non rappresenta i nostri valori, noi crediamo che l’assistenza sanitaria sia un diritto umano di base e lotteremo per questo”.
LE RELAZIONI CON CUBA
Arriviamo al terzo ed ultimo punto dell’azione di Donald Trump per demolire tutto quanto costruito da Obama, divenuto il primo inquilino della Casa Bianca a visitare Cuba dalla rivoluzione del 1959 e dalla caduta del dittatore-fantoccio Fulgencio Batista. La riapertura del dialogo tra i due Paesi ed il ristabilirsi delle relazioni diplomatiche ha rappresentato un enorme passo in avanti, sebbene non abbia segnato la fine delle politiche discriminatorie attuate dagli Stati Uniti nei confronti dell’isola caraibica sin dal 1960. Le principali novità attuate da Obama hanno riguardato l’eliminazione di Cuba dalla lista – redatta da Washington ai tempi di George W. Bush – dei Paesi che finanzierebbero il terrorismo, la possibilità per i cittadini statunitensi di recarsi a Cuba, la possibilità di effettuare transazioni bancarie con l’isola ed alcune concessioni riguardanti il blocco economico (embargo), che però resta tuttora in vigore. Il fallimento più grande è stata invece la mancata chiusura della base militare di Guantánamo, una parte del territorio cubano illegalmente occupata da Washington, promessa in campagna elettorale ma mai realizzata.
Detto questo, avevamo già sottolineato allora come per entrambe le parti sarebbe stato fondamentale progredire nelle relazioni e negli accordi per arrivare ad un punto di non ritorno prima dell’insediamento del nuovo presidente, prevedendo la possibilità dell’elezione di un capo di stato federale meno propenso di Obama alle politiche di apertura nei confronti di Cuba. I progressi che ci sono stati, invece, nono sono stati abbastanza importanti da evitare il regresso voluto da Trump.
Il nuovo presidente ha subito deciso di fare marcia indietro nei confronti de L’Avana, seppur non totalmente (le relazioni diplomatiche stabilite non saranno rotte). Per i cittadini statunitensi potrebbe tuttavia tornare ad essere un’impresa titanica quella di recarsi a Cuba semplicemente per turismo o per fare affari. Questa situazione potrebbe arrecare danni enormi economici all’isola caraibica, che nel corso dell’amministrazione Obama ha visto un flusso di milioni di turisti arrivare dal vicino nordamericano, ma anche a tante imprese statunitensi che hanno approfittato dell’apertura per iniziare a fare affari con Cuba. Non va infatti dimenticato che la situazione dell’embargo cubano è oramai invisa da diversi anni anche a gran parte della società civile statunitense e delle imprese nordamericane, che si rendono conto dello svantaggio che hanno nel non poter commerciare con un Paese così vicino ed in una posizione geografica molto importante.
Cuba, dal canto suo, non è certo disponibile a rinunciare a parte della propria sovranità per Donald Trump. Neppure nei difficili anni ‘90, o di fronte alla durissima amministrazione di George W. Bush, L’Avana ha fatto concessioni da questo punto di vista. “Nessuno si illuda che il popolo di questo nobile e generoso Paese rinunzierà alla gloria e ai diritti, e alla ricchezza spirituale che ha guadagnato con lo sviluppo dell’istruzione, della scienza e della cultura”, aveva scritto, pochi mesi prima della sua morte, Fidel Castro in una lettera indirizzata ad Obama. Cuba si è sempre detta disponibile a negoziare con gli Stati Uniti da pari a pari, il che implica che Washington rinunci a voler influenzare un cambiamento di regime politico ed economico sull’isola, nel rispetto dei principi della sovranità nazionale e dell’autodeterminazione dei popoli. Obama lo aveva fatto, ma Trump sembra stia tornano alla vecchia scuola.
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