Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
Lucio Dalla – L’anno che verrà
È difficile riuscire a scrivere di quello che sta vivendo Parigi in queste ultime settimane. Il mondo sembra ribaltato su se stesso eppure la quotidianità prova a proseguire nel suo inesorabile cammino: ci si reca ai luoghi di studio e di lavoro sfidando le stazioni di metro chiuse in ragione di qualche pacco sospetto, oppure si rimane imbottigliati in ingorghi causati dalla chiusura della circonvallazione. Quando si esce è uno scambio reciproco dei personali racconti di dove si fosse la notte del 13 novembre, o di quando si è stati testimoni partecipanti delle scene di panico della prima domenica post-attentato.
Si parla di un ritorno alla normalità, ma si vive una normalità mutilata, da Etat d’urgence. Da Stato di emergenza. Sembra che la classe politica attuale abbia ripreso in mano la situazione con eccellente vigore: nemmeno una settimana dopo e già passava in Parlamento una legge che estendeva lo stato di emergenza fino a febbraio, con un dispiego di norme che superano da destra lo stesso Front National. Perfino i tg prendono per il culo i militanti lepenisti imbronciati per dover rendere ragione a quel socialista di Hollande. Per non parlare per la rapidità con cui sono partiti i raid verso la Siria. Sembra davvero che non si aspettasse altro che la buona occasione …
Possibilità di perquisizione e arresto senza mandato, limitazioni alle libertà di stampa, imposizione degli arresti domiciliari per gli individui sospettati di ledere all’ordine pubblico, proibizione di ogni tipo di manifestazione pubblica, estensione del “fiche S” ovvero maggiori poteri nella sorveglianza dei soggetti sottoposti – a loro insaputa – a un controllo particolare da parte della polizia. Tutto questo pacchetto è applicato con ampia discrezionalità verso tutti coloro che sono ritenuti un pericolo per l’ordine pubblico. Non solo i jihadisti. Anche i cosiddetti “sovversivi”: attivisti politico/sociali di varia natura e sorta.
Ed ecco che per molti la quotidianità subisce una netta trasformazione delle proprie abitudini.
A due settimane dagli attentati è molto chiaro chi siano i principali bersagli dei dispositivi dell’Etat d’urgence. Proprio in questi giorni (dal 29 novembre al 12 dicembre) si svolge a Parigi il summit mondiale sul clima: una delle manifestazioni pubbliche, assieme ai mercati di Natale e i concerti, il cui svolgimento è stato garantito, nonostante tutto. Per le eventuali dimostrazioni di protesta non può venire garantita la sicurezza: ogni loro sviluppo non solo è sconsigliato, ma perfino proibito. Chi infrange il divieto rischia 6 mesi di reclusione e 7.500 euro di multa.
Affinché l’interdizione venga recepita con efficacia, Michel Cadot, il prefetto di polizia di Parigi, sta applicando con rigore e discrezionalità le misure a sua disposizione. Obbligo ai domiciliari per una ventina di attivisti ecologisti, espulsione di diversi squat alla periferia di Parigi, impiego robusto della polizia in occasione dei tentativi di manifestazione, con conseguenti fermi abbondati e uso disinvolto della carcerazione preventiva. All’ultima manifestazione sono stati effettuati più di trecento fermi e quasi altrettanti “guarde à vue”, i due giorni di prigione preventiva.
Il 29 novembre in Place de la Rèpublique non si ha nient’altro che assistito all’applicazione dell’antiterrorismo come misura di governance: davanti alla possibilità – seppur onestamente debole – di turbativa dell’ordine, si ha risposto con il Terrore di Stato. L’uso massiccio di blindati e truppe antisommossa non serve solo al mero “controllo” della piazza, ma al suo annichilimento psicologico: mostrare un’imponente dimostrazione di forza al fine di dissuadere l’avversario dal compiere qualunque azione.
I giornali distolgono l’attenzione puntando il dito contro i manifestanti che per potersi difendere hanno dovuto ricorrere a quello che riuscivano a trovare sottomano. Nel caso di Place de la Rèpublique, vasi di fiori e candele: vilipendio ai caduti o semplici esigenze di servizio, al pari dei celerini che invece hanno usato i loro anfibi per calpestare il memoriale?
Le politiche antiterroristiche stanno facendo da rompighiaccio per le politiche di guerra: un contesto dove la piazza deve essere uno dei non-luoghi più sterili della metropoli, un contenitore vuoto da riempire con parate ammaestrate o esibizioni commerciali. Tutto il resto, la vita, il bios, così come la sfera pubblica sarà indirizzata verso l’antico sforzo comune con rinnovata sofisticazione tecnologica.
Sarà la guerra. È già la guerra. E tanto vale chiamare le cose con il loro nome, perché è evidente che il capitalismo è riuscito a uscire dalla sue crisi più profonde unicamente con il ricorso a estesi conflitti armati, anche a costo di cambiare radicalmente l’aspetto originario della sovrastruttura che lo dirigeva. Lo stato di belligeranza è l’elemento storico del cambiamento, nonché fonte di ineguagliabili profitti per moltissime persone. Allo stato attuale, è quello che fa comodo a molti e rappresenta la via più breve per la soluzione di tanti problemi. A cominciare da quello della stabilità democratica, vale a dire della governance dei territori.
A ciò segue un’altra, amara, riflessione. Ogni processo rivoluzionario di ampia portata non ha potuto darsi che nell’evolversi del processo bellico: la rivoluzione ha sempre coinciso con la guerra. È nello sgretolamento dei vecchi meccanismi che si è potuta creare la sinergia capace di scardinare i dispositivi economico-amministrativi. Rifiutando ogni visione guerrafondaia, non faccio che constatare quello che mi circonda e paragonarlo con i suoi precedenti storici.
Nell’espandersi della guerra globale, si applica l’antiterrorismo come sistema di gestione della cosa pubblica: il cittadino non è più la base della società, ma ciò che più la indebolisce. I soggetti che per varia natura minano la stabilità dei dispositivi di sfruttamento, sono i figli di questa stessa società e ne sono al tempo stesso esclusi. Sono separati dalle opportunità che il sistema sostiene di proporre: le promesse di uguaglianza delle vecchie democrazie occidentali non sono ormai che una frottola raccontata alle lezioni di educazione civica.
Chi ha compiuto l’infame carneficina che ha dato il pretesto a un giro di vite repressivo, non è un marziano uscito dagli incubi della Storia, ma il figlio sociopatico di un sistema schizofrenico: la sua genuina voglia di spaccare il mondo è stata raccolta e corrotta dalle bande naziste dello Stato Islamico. Ma alla proliferazione del mare magnum del jihaidismo occidentale ha contribuito, seppure involontariamente, anche la miseria dell’ambiente sovversivo attuale: cosa ispirava più all’emulazione, il kalashnikov del ribelle siriano, oppure la ripetizione autocelebrativa di pratiche e ambienti che sono rimasti con poco da dire e ancor meno da fare, se non la testimonianza della propria esistenza?
Trent’anni di controrivoluzione ci hanno tolto non solo la possibilità della vittoria, ma l’immagine stessa della vittoria. Nello scontro tra bande che si sta dispiegando, tra bande organizzate di Stato e bande di miliziani jihadisti, dobbiamo cominciare a capire che parte vogliamo giocare e come poter rimettere in piedi un credibile “Noi”.