Certo che ne è passata di acqua sotto i ponti da quando sono entrato qui. Cioè, non che sappia di preciso da quanto sia qui, ma sembra davvero da molto molto tempo. Poi, sarà il teporino che filtra dai vetri ben chiusi della finestra – non sia mai una boccata d’aria pulita – senza persiane né serrande, sarà il bianco abbacinante che mi circonda, sarà il silenzio interrotto soltanto da suoni d’ovatta imprecisi, ma io qui mi ci sento da una vita: come se la mia esistenza sia nata e cresciuta qui, e basta. Forse è così sul serio, anche se riesco a immaginare forme di esistenza diverse da questa, quindi è probabile ne abbia vissute anch’io. Quante? Eh, a questa domanda non saprei rispondere. D’altronde, sono molte le cose che non so.
Mi presento, questo mi riesce bene, ché l’ho provato e riprovato già molte volte: mi chiamo Marco, ho 40 anni e sono stabile. Ecco, ciò è quanto sono riuscito a desumere dalle poche informazioni che ho carpito intorno a me. Per il resto, il vuoto è intervallato da sprazzi che ogni giorno, ogni notte anche, provo a ricucire fra loro. Sprazzi di ricordi. Ad esempio, ricordo di aver letto un libro il cui titolo è perfetto per descrivere il mio stato. La mia esistenza d’acquario, così si chiama il libro. Chi sia l’autore e cosa dica la trama, no, troppa grazia, non ricordo. Che io viva un’esistenza d’acquario, però, credo sia inequivocabile. Ricordo anche di aver letto molto, moltissimo. Avrò sicuramente molti libri, forse ho frequentato molte biblioteche. Penso ciò da quando mi sono ricordato cosa siano i libri e le biblioteche. Non mi fosse sovvenuto, forse avrei escluso di conoscere quell’ambito. Ho memoria di stanze coi soffitti altissimi, ricolme di libri di varia foggia: file sterminate di enciclopedie, saggi dalle coste di diversi colori l’una dall’altra, e poi carta, carta, tanta e forse troppa carta. Quindi, so cosa sia una biblioteca. Chissà che non ne abbia una mia. Magari vivo in una casa con una biblioteca dentro. Ammesso che abbia una casa che non sia questa e ammesso che ci possa un giorno tornare. Sono molti i dubbi che mi squassano i pensieri: ogni giorno ne dissipo un paio e ne riscontro più del triplo. Almeno mi tengo impegnato: è proprio un gran daffare qui, nella mia testa, fra dubbi risolti, da risolvere e – quelli più impegnativi – da far affiorare alla coscienza.
La cosa che mi piace di più, però, è ciondolare fra i ricordi. Ho preso a farlo a mo’ di pausa, come fosse un premio per il lavoro svolto: ogni tot di dubbi sciolti, mi concedo un paio di ricordi che, nel frattempo, affiorano incostanti, a volte copiosi a volte tirchi che più tirchi non si può. Ricordo perfettamente una cameretta da adolescente, con mobili in legno scuro e poster ovunque. Avrò passato bei momenti in quella stanza, perché me ne ricordo spesso. Niente computer – che sono certo di avere e saper usare – niente tv, solo due letti, una scrivania, un comò e mensole traboccanti di ogni roba. Ricordo soprattutto un odore penetrante di caffè, accompagnato da buio pesto, bocca impastata e mani intorpidite dal sonno della notte. Sarò stato uno studente modello, di quelli che si svegliavano all’alba per ripassare, oppure uno studente disperato, di quelli che si svegliavano all’alba per recuperare. Fatto sta che quell’odore è ancora così forte nella mia memoria da farmi ricordare libri stropicciati sotto le coperte e preghiere biascicate all’indirizzo di un Dio che assistesse il mio studio. Sono religioso, forse. O forse ero solo disperato.
A rifletterci bene, caffè e libri sono una costante dei miei ricordi, almeno di quelli che adoro ripercorrere più spesso. Sempre in quella cameretta, luogo che si allarga e stringe a seconda delle dimensioni del ricordo chiamato all’appello, vedo un comodino con una lampada accesa, una pila di libri e – sulla cima di questa – una tazzina vuota, sicuramente la stessa dell’aroma dell’alba. Leggo molto, ne sono certo. Al momento, non ho memoria di libri sfogliati di recente, questo è vero, ma ho troppo impressa questa spinta alla lettura per non averne spasmodicamente a che fare. E il caffè. Forse il binomio caffè-lettore è universale, forse appartiene solo a me, forse lo sto creando io adesso, in questo momento, in un delirio di onirica potenza. Già, ché davvero non so se sto sognando o sono sveglio. Oppure, chissà, sono stato rapito dagli alieni che, per mezzo di sofisticati strumenti, mi frugano nella mente e mi confondono dubbi, ricordi, pensieri ed esistenza tutta.
Un caffè, ad esempio, ha deciso la mia nascita; forse è per questo che sento fissa la sua presenza nella mia vita. Se mio padre non avesse insistito per offrire un caffè a mia madre – una, due, dieci, cento volte – probabilmente io non sarei nato. Questo, sì, questo me lo ricordo bene; avrò sentito il racconto del loro incontro un migliaio di volte, e ogni volta m’è parso bellissimo. Non ricordo, però, se anch’io ho mai offerto un caffè a qualcuna tanto da doverla poi sposare. È curioso come la mente ti prospetti delle cose verosimili, ma non ti dica se alla fine ti appartengono o no. Sono single, forse. Cioè, non ho una donna che mi ricordi di non esserlo. Quando lavoro a dissipare dubbi, e solo io so quanto sia faticoso, esamino visi, situazioni, parole che acchiappo fra un orecchio e l’altro: mai una volta che sia riuscito a capire se ciò che io – con meticolosa cura – abbia definito Amore sia uno stato che mi appartiene oppure no. Ho una famiglia, il caffè della mattina ne è testimone, avrò anche degli amici perché ho riconosciuto la mia socievolezza, ma non so dire se abbia un amore tutto mio. Sarebbe ingiusto non scoprirlo mai.
Credo, comunque, di essere una bella persona; forse un po’ logorroica – oh, felicità, quando ho pescato questa parola dal fondo del fondo di non so cosa! – ma sicuramente piacevole, istruita e sensibile. E che dovrei dire, peraltro, io stesso di me stesso? L’uomo si misura pregi e difetti nel momento in cui entra in relazione con altri simili. Sono solo e mi sto simpatico, già è qualcosa. Quando riuscirò a interagire con quanto avverto mi ruoti intorno, avrò conferma della mia ipotesi. Quella di essere una bella persona, intendo.
Il mio incessante ricostruirmi mi ha distolto da una fatica che non mi sento di affrontare, cioè prendere ancora più informazioni dall’ambiente in cui nuoto sospeso e decifrarle in modo deciso, così come sto facendo con i miei pensieri.
Oggi, però, non è un giorno come gli altri. Forse oggi, questo giorno simile a tanti altri scanditi e distinti dalle notti solo dal teporino e dalla luce bianca che filtra sicuramente da una tenda, prenderò coraggio e mi farò avanti. Perché oggi e non ieri? Perché oggi, e solo oggi per la prima volta, ho sentito forte il gorgoglio di una caffettiera, l’aroma caldo di caffè appena fatto e la certezza che tutto ciò avvenisse non in me ma attorno a me. Ora, che si tratti di aroma di caffè ne sono certo. Che sia giorno fatto, altrettanto (teporino, luce etc etc… ormai ho imparato). Rimane da sciogliere il nodo del gorgoglio imponente della moka, primo suono ben distinto che sento con le orecchie e non con il pensiero. Potrei averlo immaginato o sognato ché ancora non sono pratico nel distinguere il sonno dalla veglia, però la curiosità di sapere se venga da fuori è sempre più impellente. Da fuori, cioè da qui, dal posto in cui sono e che mi avvolge da un tempo non definito. Ho come l’impressione che qualcuno abbia messo una moka sul fuoco e ne abbia lasciato sgorgare rumorosamente profumato e prezioso liquido nero, proprio accanto a me. Ecco perché oggi, e non ieri, sto facendo un veloce ripasso delle mie competenze acquisite nell’evocare ricordi e dissipare dubbi: voglio essere pronto e reattivo per affrontare quanto finora ho escluso perché impegnatissimo. E non ho certo fretta, no. La prepotenza della curiosità non prenderà il sopravvento sul buonsenso. Potrei essere pronto fra 5 minuti, più tardi oppure domani. In ogni caso, oggi è un giorno di svolta.
Per meglio definire il gorgoglio che ho sentito, ho fatto uno sforzo immane, infatti credo di aver sudato assai. Non è stato semplice, ma sono riuscito a ricostruire quasi alla perfezione ogni singolo anello della catena di esecuzione per un buon caffè. Innanzitutto, bisogna avere a disposizione un’ottima miscela, naturalmente consona ai propri gusti. Ne esistono di vario genere, dalle più delicate a quelle dal gusto più robusto e speziato. Poi, la moka: insostituibile caffettiera domestica da quasi cento anni a questa parte. No, non sono tipo da macchinetta con cialde, che so bene cosa sia ma spero sinceramente di non averne una: mi sentirei a disagio con i miei ricordi così accuratamente catalogati in questo tempo sospeso. Una moka, dicevo: ben lavata, ma solo con acqua, come mi raccomanda spesso mio padre per timore che – in un impeto di zelo igienico – la insaponi con un lavapiatti all’aceto o al limone. Si prende la moka e si riempie la parte inferiore con dell’acqua. Che sia acqua buona, per carità! E qui mi sembra di sentire la voce di mia nonna che comprava l’acqua minerale solo per fare il caffè; non una marca qualunque, la sua preferita, ma solo per il caffè. Definire il livello dell’acqua da mescere è un procedimento scientifico a tutti gli effetti: esso non deve oltrepassare il bullone incastonato in ogni bollitore di ogni moka, ma non deve nemmeno sottostarvi troppo. Una volta apposto l’imbuto-filtro, quello in cui si mette la polvere di caffè, una mano accorta sa bene come togliere eventuale acqua in eccedenza: questa si annida dentro la parte stretta dell’imbuto, quindi – con un rapido e secco gesto – la si butta via. E se devo allegare un componente della mia famiglia a questa procedura, il posto spetta a mio zio, fratello di mia madre, colui che mi svelò questo segreto in un pigro pomeriggio d’estate. Infine, l’aggiunta della miscela. Qui il mondo è nettamente diviso a metà, e ogni metà è sicura di avere nettamente ragione. Di netto, io so soltanto che una volta – ancora inesperto – pressai così tanto la miscela da impedire al caffè di uscire, provocando un mezzo disastro in una cucina di non so bene quale casa. Quindi, ragione o no, mi sono convertito sin da subito alla teoria della montagnola morbida, non pressata e nemmeno troppo alta. Avvitare, fuoco, attesa. Quando il gorgoglio arriva a sonorità sostenute, significa che anche l’odore ha già pervaso tutta casa; il passaggio dal gorgoglio al fischio è quel lasso di tempo brevissimo che intercorre fra un caffè perfetto e uno bruciato: questo me lo insegnò mia madre, stanca di pulire il piano cottura per una caffettiera dimenticata sul fuoco.
Non è stato un gioco da ragazzi, ma alla fine ho persino percorso il procedimento a ritroso per essere sicuro di averlo fatto del tutto mio: a meraviglia, potrei anche cantarlo in versi. Sempre che io sappia cantare, naturalmente.
Forse, e ribadisco FORSE perché ho capito che ogni certezza è labile, posso spingermi oltre il mio confine e penetrare con lucidità nell’amalgama che mi contiene, squarciarlo e capire se è la mia esistenza oppure una barriera che mi esclude dal mondo. Sì, perché questo dubbio mi è sorto mentre snocciolavo le poesie di Leopardi, a quanto pare ben assestato nei miei ricordi insieme all’opera omnia e ai suoi pessimismi multistrato: la vita è questa? Cioè, questa è la mia vita, solo questa, o c’è dell’altro per cui valga la pena sperare? Poi, non ci ho pensato più, così preso dal compito di incollare i miei pezzi e raccontarmeli. Ma adesso, vuoi per il gorgoglio, vuoi perché i pezzi sono assemblati quasi tutti – o così credo – posso fare il grande salto, guardare l’oltre, cercare un orizzonte verso cui allungarmi. Credo mi mancherà il mio acquario, l’intimo colloquio fra me e me, il continuo contatto con la mia coscienza, ma immagino che ciò di cui sento pesante la mancanza è proprio un’interazione con esseri che ricordo ma che qui non vedo. O, se li vedo, non li tocco; e, in ogni caso, non mi parlano. Inoltre, se la mia mente concepisce un altrove, è sicuro che ce ne sia almeno uno: possiamo pensare qualcosa che non c’è, nemmeno nella verosimiglianza? Quindi, andrò verso quanti più Altrove possibili, magari ne vedrò solo uno, ma saprò accontentarmi.
Insomma, sono pronto. Cioè, pronto a sentirmi pronto per un salto verso l’ignoto, perché – alla fin fine – questo che vivo e sento è l’unico mondo che ho. A volte ho persino messo in dubbio di esistere davvero, di non essere altro che il sogno nella testa di qualcun altro.
Intanto, parto dalle solide certezze che ho: mi chiamo Marco, ho 40 anni e non sono morto.
Forse ho solo bisogno di un buon caffè. Poi, con calma, il resto si vedrà.