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Alla radice della questione razziale negli USA

Postato il Luglio 21, 2016 Attilio De Alberi 0

Per leggere questo articolo ti servono: 6 minuti

Il livello della tensione razziale negli USA è di nuovo tornata a livelli inquietanti: un fenomeno ciclico che si ripete proprio perché, alla fin fine, non è ancora cambiata una certa mentalità tra i bianchi d’America.

Il famoso politico svedese Gunmar Myrdal, premio Nobel per l’economia definì la questione razziale come la “maledizione” degli Stati Uniti. Le sue parole suonano più che mai attuali dopo i recenti massacri di poliziotti a Dallas e a Batoun Rouge eseguiti da vendicatori solitari afro-americani a seguito dell’uccisione, apparentemente ingiustificata, di due “fratelli”, Alton Sterling e Philando Castile, da parte delle forze dell’ordine.

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A questo si aggiunge la crescente mobilitazione del movimento Black Lives Matter (le Vite dei Neri Contano ndr) che a macchia d’olio nel paese sta portando avanti una campagna fondamentalmente pacifica, ma anche carica di tensione. Nel frattempo il presidente Obama, il primo presidente USA di colore  – l’uomo che, appena eletto, venne raffigurato come una scimmia in una vignetta sul tabloid conservatore New York Post – è costretto a fare uno slalom politico: da un lato non può inimicarsi troppo le forze di polizia, dall’altro deve mostrare la sua lealtà ai cittadini “fratelli”. E naturalmente The Donald (Trump), ci bagna il panuzzo, come dicono in Sicilia, e approfitta di questa situazione spinosa per il presidente uscente soffiando più che mai sul fuoco della tensione razziale.

   Al di là della retorica rimane un retrogusto amaro di fallimento per il “fratello” Barack, visto che, dopo otto anni alla Casa Bianca, la problematica razziale rimane intatta se non addirittura esacerbata.

  Parla di tutto questo a YOUng Michael Datcher, scrittore, professore di letteratura e attivista afro-americano, autore, tra gli altri, del best seller Raising Fences: A Black Man’s Love Story,  che ci racconta cosa vuol dire crescere a Los Angeles con la pelle nera e delle barriere (fences, appunto) incontrate nel cammino.

Cosa pensa della tensione razziale negli USA vista come una “maledizione”?
Innanzitutto bisogna andare indietro nel tempo e ricordare il fenomeno della schiavitù e del suo contributo alla potenza economica americana.

In che senso?
Molto semplice: ha permesso agli USA di sfruttare una forza lavoro praticamente gratuita per moltissimo tempo, un processo di accumulazione che ha arricchito enormemente il paese.

Ma questo è avvenuto un secolo e mezzo fa…
Certo, ma ha innescato una reazione a catena che non si è ancora esaurita.

Che tipo di reazione?
Anche qui la risposta è molto semplice: se tratti una persona o delle persone molto male per un certo periodo di tempo devi aspettarti delle conseguenze che non possono scomparire da un giorno all’altro.

Quindi è come se i bianchi americani stessero continuando a “pagare” per il “karma negativo” che hanno generato?
Esattamente.

Sembrerebbe un processo molto semplice…
Semplice sì, ma sicuramente non facile.

In che senso?
Esiste sulla Terra una forma di gerarchia basata sul livello di vitalità, intesa come capacità d’influire il mondo circostante.

Ci faccia degli esempi.
Al livello più basso può esserci una pietra per poi salire fino agli esseri umani ed è qui che entra in gioco la distinzione razziale.

Come si esplica questa?
Sul gradino più basso c’è l’uomo nero, mentre in cima alla gerarchia c’è l’uomo bianco.

Lei sta parlando della Terra, ma come si applica questo negli USA?
Esistono due meccanismi atavici che continuano a esistere nel nostro paese, e probabilmente non solo nel nostro paese.

Quali sono?
Il primo è il senso d’identità dell’uomo bianco che, magari a livello subconscio, si basa su un senso di superiorità e che quindi giustifica la continuazione di certe azioni o attitudine oppressive, anche se la schiavitù è finita da un pezzo.

E il secondo?
Il secondo è basato sulla percezione dell’uomo nero, visto come fisicamente più forte, sessualmente più aitante e decisamente più cool.

E cosa crea questo?
Ironicamente un senso quasi di competizione e questo aggrava l’attitudine repressiva. Parlo anche sulla base di episodi storici ben precisi.

Quali?
Beh, il caso più eclatante è il fenomeno dei linciaggi contro i neri: esiste una cronaca ben precisa di quelli avvenuti tra il 1840 e il 1940. Si riporta che nel 90% veniva applicata l’evirazione.

Freudianamente parlando sembrerebbe una specie d’invidia del pene…
Sì se vogliamo, ma non è così semplice perché come conseguenza di questo s’innesca poi una dinamica basata puramente sul potere. In altre parole: una maggiore “virilità”, o almeno quella che viene percepita tale, è associata a una maggiore potenza, una potenza da dominare.

Diversamente da altre persone di colore che vivono negli USA, gli afro-americani non hanno un loro proprio paese dove tornare. Quindi non avete scelta…
Purtroppo no. Mi sento americano e sono orgoglioso di essere americano, ma noi facciamo parte di una grande famiglia nella quale siamo come dei figliastri. Quindi da un lato aspiriamo ad essere amati dai nostri genitori, ma al tempo stesso questi genitori ci trattano in maniera diversa. E’ come vivere in una famiglia altamente disfunzionale.

Permettere a un afro-americano come Obama di arrivare alla Casa Bianca non è forse stato un grosso gesto di PR, per dimostrare al mondo che gli USA si sono evoluti dalla discriminazione razziale?
Esiste senz’altro questo elemento, ma bisogna anche precisare che Obama non è esattamente una marionetta, ma un uomo politico molto astuto e che, pur essendo essenzialmente un moderato, ha raggiunto dei risultati positivi.

Per esempio?
Mi viene subito in mente il salvataggio dell’industria automobilistica.

E in negativo?
L’appoggio incondizionato allo Stato d’Israele con la sua politica repressiva verso i palestinesi o il salvataggio delle banche.

Cornell West (famoso intellettuale radicale afro-americano pro-Sanders ndr) ha recentemente definito Obama una contraffazione…
Obama è partito molto bene, con un tasso di approvazione del 60%, ma il suo errore è stato di non cavalcare l’entusiasmo che aveva generato per portare avanti il tipo di rivoluzione che Sanders ha iniziato.

Come vede a questo punto del gioco il movimento Black Lives Matter?
E’ un fenomeno molto importante perché costringe l’opinione pubblica a considerare quanto sia importante la questione razziale, a confrontarsi col proprio razzismo in America e non solo.

Dove altro?
Basti pensare al Brasile, dove una grossa fetta della popolazione è nera, ma chi comanda – e opprime . è sempre l’uomo bianco.

Certi dicono che All Lives Matter – Tutte le Vite Contano…
Lo vedo come un insulto, una banalità per evitare proprio questa presa di coscienza del razzismo intrinseco alla società su cui punta il movimento BLM.

Visto che il razzismo negli USA si esprime attraverso la brutalità poliziesca non c’è modo di “rieducare” i poliziotti verso una posizione più soft?
Il fatto è che i poliziotti sono innanzitutto delle persone e quindi anche loro adottano, come tante altre, un atteggiamento fondamentalmente discriminatorio. D’altra parte io stesso, rispettato professore universitario e intellettuale, sono vittima di quest’attitudine.

Ci racconti…
Beh, proprio l’altro giorno mi sono trovato solo in ascensore nell’edificio della mia università con una signora bianca e l’ho vista rifugiarsi in un angolo tenendo stretta la sua borsa. Nella sua mente ero ovviamente lo stereotipo del nero, potenzialmente pericoloso.

Usciranno gli USA da questo impasse?
Per uscirne, secondo la mia valutazione, ci vorranno almeno altri 30 anni.

Alla fin fine quello di cui c’è bisogno è un cambiamento di mentalità…
Senza dubbio ed io la mia parte cerco di farla.

Come?
A parte i libri che scrivo, organizzo delle discussioni aperte in una serie di gallerie d’arte a Los Angeles. Parlando apertamente e in maniera razionale di queste cose le menti si aprono.

#questione razziale#razzismo#stop racism#USA

Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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