Quello che il continente europeo sta vivendo è indubbiamente uno dei momenti più difficili nella sua storia politica. Basta guardare al numero di governi che cadono, rischiano di cadere o faticano a formarsi dopo le elezioni, tutti fenomeni che hanno caratterizzato l’anno che sta per concludersi, che possiamo considerare come il culmine di una crisi politica già iniziata in precedenza.
Abbiamo già parlato in diversi articoli della Svezia, la monarchia scandinava a lungo considerata come fulgido esempio del funzionale sistema socialdemocratico dell’Europa settentrionale, che oramai ha vissuto oltre tre mesi di tentativi falliti per la formazione del nuovo governo dopo le elezioni di settembre. Il presidente del parlamento (Riksdag), Andreas Norlén, ha annunciato in questi giorni che il Paese non avrà un nuovo governo entro la fine dell’anno, dando un ulteriore mese ai partiti per trovare un accordo. Nel frattempo, resta in carica l’esecutivo di minoranza della precedente legislatura, guidato da Stefan Löfven del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori di Svezia (Sveriges Socialdemokratiska Arbetareparti, SAP). Sia Löfven che Ulf Kristersson, leader del centro-destra e del Partito Moderato (Moderata Samlingspartiet) hanno visto la propria candidatura respinta dal parlamento unicamerale, ed ora c’è da capire chi dei due si presenterà al prossimo voto di fiducia, non prima del 16 gennaio. I pessimisti, nel frattempo, hanno già stilato il calendario per le eventuali elezioni anticipate, da tenersi il 21 aprile: si tratterebbe della prima volta nella storia democratica della Svezia, eventualità che a questo punto è tutt’altro che remota.
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Simile a quella svedese è la situazione della Lettonia, con la differenza che la repubblica baltica è in fase di stallo da “soli” due mesi e mezzo. Dopo il fallimento di Jānis Bordāns, leader del Nuovo Partito Conservatore (Jaunā konservatīvā partija, JKP), incaricato in un primo momento di formare il nuovo esecutivo, il testimone è passato nelle mani di Arturs Krišjānis Kariņš, ex ministro dell’Economia ed oggi europarlamentare in forza al partito di centro-destra Nuova Unità (Jaunā Vienotība). La candidatura di Krišjānis Kariņš ha già ricevuto l’avallo del presidente Raimonds Vējonis, ma per formare l’esecutivo sarà necessario mettere d’accordo le altre forze politiche. Al momento, le sedute parlamentari della Saeima sono state sospese per le vacanze natalizie, mentre i partiti stanno discutendo sugli eventuali nomi dei ministri e sulla spartizione delle poltrone più importanti, dunque anche per la Lettonia non ci sarà un governo prima del nuovo anno.
I casi della Svezia e della Lettonia arrivano dopo quelli dell’Italia e della Slovenia, altri due Paesi andati al voto quest’anno, che hanno impiegato molto tempo per riuscire a formare nuovi governi, dovendo scendere a compromessi particolari come quello che ha portato la nascita dell’esecutivo giallo-verde nel nostro Paese.
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Il 2018, come detto, è stato anche l’anno delle cadute di governo, come nel caso dell’esecutivo di Mariano Rajoy in Spagna, che ha visto il leader del Partito Popular (PP) essere sfiduciato e sostituito da Pedro Sánchez del Partido Socialista Obrero Español (PSOE). L’ultimo ad alzare bandiera bianca è stato, però, Charles Michel, primo ministro del Belgio ed esponente del Movimento Riformatore (Mouvement Réformateur, MR). Il governo di Michel, infatti, si è spaccato circa il Global Compact, il patto delle Nazioni Unite sulle migrazioni che ha creato polemiche anche in Italia: l’esecutivo di centro-destra ha scontato la presenza nella maggioranza della Nuova Alleanza Fiamminga (Nieuw-Vlaamse Alliantie, N-VA) forza di estrema destra che appoggia il separatismo delle Fiandre, la quale ha rifiutato categoricamente di votare per l’adesione del Paese al Global Compact. Michel ha così rimesso il proprio mandato nelle mani di re Filippo, il quale ha accettato le dimissioni del premier, chiedendogli comunque di restare al comando dell’esecutivo fino alle prossime elezioni, previste a maggio.
L’anno che volge al termine ha poi visto anche la conclusione de facto della parabola politica delle due donne più potenti del continente, Angela Merkel in Germania e Theresa May in Gran Bretagna, entrambe costrette a promettere di non ricandidarsi più pur di mantenere in piedi i propri governi – forse – fino alla fine del mandato. Alcune elezioni regionali (Baviera ed Assia in Germania, Andalusia in Spagna) hanno ulteriormente confermato il trend che vede la crisi delle forze politiche “tradizionali” di centro-destra e di centro-sinistra, con la crescita di partiti alternativi soprattutto a destra, e solo in alcuni casi a sinistra, in particolare grazie alle forze ecologiste come i tedeschi dell’Alleanza 90/I Verdi (Bündnis 90/Die Grünen). Nel caso della Gran Bretagna, poi, il discusso processo della Brexit ed il conflitto con le istituzioni di Bruxelles non ha fatto altro che acuire la crisi, ma potrebbe giovare al nuovo Labour Party di Jeremy Corbyn per una rinascita di un vero laburismo a Londra.
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Se le donne “forti” della politica europea stanno vivendo la fine della propria parabola (che nel caso della Merkel, va detto, è stata comunque molto lunga), gli uomini non se la passano meglio. Nelle ultime settimane, gli autoproclamatosi leader delle due fazioni più agguerrite d’Europa non se la sono passata bene, alle prese con ingenti proteste popolari di piazza: stiamo parlando di Emmanuel Macron e Viktor Orbán, presidenti di Francia ed Ungheria, considerati, secondo una visione assai schematica ed un’opposizione più apparente che reale, ma molto utilizzata dai mass media, principali esponenti delle correnti “europeiste” e “sovraniste-nazionaliste” rispettivamente.
Una tale situazione di crisi politica dovrebbe essere colta al meglio da parte della sinistra continentale per proporre, anche in vista delle prossime elezioni per il parlamento europeo, un modello alternativo sia all’europeismo iperliberista di Macron che all’antieuropeismo simulato a fini di chiusura nazionalistica di Orbán (e Matteo Salvini): un progetto che sia fortemente critico nei confronti di un’Unione Europea oramai delegittimata agli occhi dei cittadini, dei suoi trattati e delle sue imposizioni, che porti alla riconquista della sovranità nazionale nei campi economico e monetario, ma che allo stesso tempo proponga nuove forme cooperative tra gli Stati del continente, anziché la chiusura e la diffidenza reciproche. Si tratta dunque di formulare una posizione alternativa ed in opposizione con entrambe le fazioni della classe dominante, quella globalista e quella nazionalista, anteponendo, invece, gli interessi delle classi dominate.
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In questo momento transitorio per i sistemi politici europei, una buona notizia arriva dal fatto che uno dei pochi esecutivi stabili nel continente sia quello più a sinistra d’Europa: si tratta del governo di António Costa in Portogallo, in carica dal 2015. Formato grazie ad una alleanza tra il Partido Socialista e le forze dell’estrema sinistra, l’esecutivo Costa è nato all’insegna del compromesso, promettendo al presidente Aníbal Cavaco Silva di non mettere in discussione l’appartenenza del Portogallo alla NATO e all’Unione Europea – fatti che invece per noi sarebbero fondamentali, ma che possono rientrare in una prospettiva a più lungo termine. Il premier ha però avuto il merito di passare alcuni provvedimenti meritori all’insegna della politica economica espansiva: tra questi, l’aumento del salario minimo, la riduzione dell’orario lavorativo settimanale per i dipendenti pubblici, l’abbassamento dell’IVA per alcuni settori.