L’8 giugno i cittadini britannici saranno chiamati alle urne per le elezioni generali ed il rinnovo dei 650 rappresentanti – uno per collegio elettorale – della House of Commons, la camera bassa del parlamento del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, utilizzando il sistema del first-past-the-post (ovvero si elegge il candidato più votato di ciascun collegio). Si tratta di una tornata elettorale anticipata rispetto a quella prevista per il 2020, che vedrà il primo ministro conservatore Theresa May affrontare il candidato laburista Jeremy Corbyn.
IL QUADRO DEI CANDIDATI
Sono sette – seppur in forma ufficiosa – i principali candidati al posto di primo ministro:
– Theresa May, sessantenne attuale primo ministro in carica, ha formato un nuovo governo conservatore dopo il referendum sulla Brexit ed è sostenuta dal Conservative and Unionist Party;
– Jeremy Corbyn, sessantotto anni, ha preso le redini del Labour Party nel settembre del 2015 ed in quest’arco di tempo è stato anche il leader dell’opposizione;
– Nicola Sturgeon, quarantasei anni, primo ministro della Scozia dal 2014 e leader dello Scottish National Party;
– Tim Farron, quarantasette anni, leader dei Liberal Democrats;
– Leanne Wood, quarantacinque anni, leader di Plaid Cymru – the Party of Wales, partito social-democratico che promuove l’indipendenza del Galles;
– Paul Nuttall, quarant’anni, leader ed europarlamentare del partito di estrema destra UKIP (UK Independence Party);
– Caroline Lucas, cinquantasei anni, leader degli ecologisti del Green Party of England and Wales.
Questa semplificazione, ad ogni modo, non deve ingannare, infatti sono decine i partiti che presenteranno candidati in Parlamento, con grandi differenze a seconda dei diversi territori, senza dimenticare i 183 candidati indipendenti. Basti pensare che in Irlanda del Nord i due principali partiti tradizionali, conservatori e laburisti raramente ottengono seggi, mentre le forze principali sono il Democratic Unionist Party e Sinn Féin, il primo di radice protestante e favorevole alla permanenza nel Regno Unito, il secondo di ispirazione cattolica e promotore della riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. Questa vasta frammentazione partitica apre la strada anche a possibili alleanze per la formazione di una maggioranza di governo, in base a come saranno distribuiti i seggi tra le forze in campo.
THERESA MAY VUOLE RAFFORZARE LA SUA LEADERSHIP
Dopo essere stata scelta come nuovo primo ministro in seguito all’esito del referendum sulla Brexit, Theresa May ha sentito l’opportunità di sfruttare il momento favorevole per indire nuove elezioni. La premier conservatrice avrebbe potuto tirare avanti fino alla prossima scadenza elettorale del 2020, ma ha considerato la possibilità di poter ottenere una maggioranza ben più netta tornando alle urne prima del termine.
Naturalmente gran parte della sua campagna elettorale si è basata sulla necessità di proseguire con il processo della Brexit, per ora solamente abbozzato, e che rischia di durare ancora per diversi anni, viste le lungaggini burocratiche previste dal trattato sull’Unione Europea e la tendenza a rimandare il più possibile la scadenza da parte delle istituzioni europee. Il programma dei conservatori prevede l’interruzione della libera circolazione di beni e persone, per poi portare all’uscita del Paese dal mercato unico europeo ed a non rispondere più alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sede a Lussemburgo (da non confondere con Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, organo invece del Consiglio d’Europa).
“È importante che otteniamo il mandato più forte possibile per ottenere un miglior accordo con i nostri amici europei”, ha dichiarato Theresa May nel corso della campagna elettorale. “Questo ci assicurerà anche una legittimità che sarà rispettata dalle due camere del parlamento”, ha aggiunto, con un riferimento al tentativo della House of Lords di intervenire per bloccare il processo di uscita dall’Unione Europea. Il primo ministro inglese ha anche annunciato di voler abbassare le tasse ed ha lanciato un manifesto nel quale si trovano molti riferimenti allo stato sociale, con la proposta di innalzare il limite per l’assistenza sociale gratuita da 23.500 sterline fino a 100.000 sterline. Allo stesso tempo, però, non sono mancati i violenti attacchi al leader dell’opposizione, con forme che sono andate anche oltre quelle che si addicono ad un confronto politico.
JEREMY CORBYN, L’OCCASIONE DELLA SINISTRA
Quando ha assunto il comando del Partito Laburista, Corbyn ha rappresentato un elemento di rottura con la tradizionale politica britannica. Il suo personaggio non va ad intaccare il classico bipartitismo britannico, essendo inserito a sua volta all’interno del Labour Party, ma quest’attivista che vanta una lunga militanza politica nel silenzio, rappresenta un’ala sinistra dello stesso partito che fino ad allora non aveva mai avuto la possibilità di esprimersi realmente. La sua ascesa ha creato qualche mal di pancia anche in quei laburisti “tradizionali” che hanno visto l’ala sinistra dei Labour crescere a discapito di quei moderati di centrosinistra alla Tony Blair che in precedenza avevano sempre avuto la meglio. Sono gli stessi laburisti dell’ala destra del partito ad accusare Corbyn di “comunismo” e “marxismo”, parole che possono suonare come pesanti offese nella patria di Adam Smith e del liberismo, ma che in realtà dimostrano solamente come i laburisti fino ad oggi non abbiano avuto nessuna reale intenzione di opporsi al modello economico vigente.
Nel corso del novecento, il Labour Party britannico stato l’archetipo della conversione al credo liberista delle sinistre europee, strada poi seguita da molte altre forze del continente e fenomeno del quale abbiamo una perfetta testimonianza anche in Italia, con l’evoluzione (o involuzione) che ha portato dal Partito Comunista Italiano al Partito Democratico. Corbyn potrebbe rappresentare proprio il tarlo all’interno di questo laboratorio di genuflessione della sinistra all’iperliberismo: non sarà colui il quale cambierà radicalmente il sistema economico inglese, non attuerà nessuna rivoluzione e non sarà colui che sconfiggerà l’iperliberismo imperante nel mondo contemporaneo, ma quantomeno l’ascesa della sua figura, sancita dalla vittoria alle primarie dei laburisti, rappresenta un’inversione di tendenza.
La sua campagna elettorale è stata incentrata sulla necessità di destinare più fondi pubblici ad alcuni settori di fondamentale importanza, su tutti l’educazione. I laburisti si sono inoltre detti disponibili a portare avanti il processo della Brexit, ma con alcune varianti, compresa quella di garantire la permanenza nel Paese ai cittadini europei residenti, senza andare ad intaccare i loro diritti. Nel programma anche la costruzione di un milione di nuovi alloggi, la nazionalizzazione della rete idrica ed una distribuzione delle tasse più progressiva che vada ad incidere sui redditi più elevati.
GLI ALTRI PARTITI: CROLLO DELLO UKIP E SPINTE INDIPENDENTISTE
Non molti anni fa, il partito di estrema destra UKIP era stato indicato come il rappresentante più illustre dell’ascesa delle destre ultranazionaliste in Europa. Oggi, di quella forza che minacciava lo storico bipartitismo britannico, resta poco o nulla, privata anche del carisma del suo storico leader, Nigel Farage. Le ultime elezioni locali hanno sancito di fatto la scomparsa di questo partito dalla scena politica che conta, ed il merito di ciò va soprattutto alla Brexit: con l’uscita dall’Unione Europea all’orizzonte, lo spettro dell’invasione degli immigrati è andato via via perdendo di senso, e l’estrema destra non è più riuscita a fare appello agli istinti primitivi delle masse.
Come anticipato, invece, saranno ancora una volta molto forti i partiti “locali” nelle altre entità costitutive del Regno Unito. Particolarmente interessante sarà il caso della Scozia, dove si sta facendo largo l’ipotesi di un nuovo referendum per l’indipendenza da Londra, proprio in seguito all’esito del voto sulla Brexit: ricordiamo, infatti, che gli scozzesi hanno votato in maggioranza per la permanenza nell’UE, e dunque Edimburgo potrebbe decidere di staccarsi dal Regno Unito per entrare nell’Unione come Paese indipendente.
SONDAGGI: MAY AL COMANDO, CORBYN IN RIMONTA
Analizzando i sondaggi dell’ultimo mese, tutti danno i conservatori di Theresa May in vantaggio, e dunque l’attuale primo ministro sembra destinata a formare un nuovo governo e ad ottenere un altro mandato. Tuttavia, la tendenza è quella di una rimonta dei laburisti e di Jeremy Corbyn, che nel corso della campagna elettorale hanno progressivamente guadagnato punti percentuali. I dati sono confermati anche dai risultati delle ultime elezioni locali, che hanno premiato principalmente i conservatori.
Se, a metà maggio, le agenzie davano Theresa May prossima alla soglia del 50%, oggi la leader del Conservative Party si è assestata su percentuali del 42-43%, comunque sufficienti per risultare la prima forza politica del Paese. I laburisti, invece, si attestano tra il 35% ed il 37%, dopo essere stati ai minimi storici a fine aprile (26%). Lo scenario che si prospetta è dunque quello di una vittoria conservatrice e di una onorevole sconfitta per i laburisti, che solamente qualche settimana fa sembravano vicini al tracollo.
Per quanto concerne gli altri partiti, i Liberal Democrats hanno perso punti rispetto ai sondaggi precedenti, scendendo sotto il 10% ed assestandosi tra il 7% e l’8%. Sotto il 5% le altre forze, compre lo UKIP.
Ricordiamo, comunque, che le percentuali su scala nazionale sono solamente indicative e poco affidabili quando il metodo utilizzato è quello del first-past-the post: lo Scottish National Party, ad esempio, è dato al 4%, ma supera il 40% in tutti i sondaggi che considerano la sola Scozia, e dunque dovrebbe ottenere la maggioranza de 59 seggi assegnati dai collegi elettorali scozzesi. In Galles comandano invece i laburisti, mentre in Irlanda del Nord si annuncia il solito testa a testa tra Democratic Unionist Party e Sinn Féin.