Il referendum britannico che ha sancito l’uscita del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord dall’Unione Europea (la cosiddetta Brexit) ha suscitato un marasma di reazioni più o meno fondate, ma spesso dettate più dall’umore che dal ragionamento razionale. Il nostro intento è dunque quello di mettere in ordine la marea di dati che scaturiscono da questa scelta referendaria per fare il punto della situazione e capirci qualcosa di più.
PRIMA DELLA BREXIT: IL REGNO UNITO NON HA MAI VOLUTO L’UE
Fondata nel 1957 come Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA), quella che oggi chiamiamo Unione Europea ha visto l’ingresso del Regno Unito solamente nel 1973, quando il governo di Londra decise di entrare insieme ad Irlanda e Danimarca. Da allora, i rapporti tra i britannici e l’Unione sono sempre stati conflittuali, tant’è che secondo molti osservatori la Gran Bretagna non avrebbe mai fatto parte integralmente dell’UE.
Innanzi tutto, l’esempio più noto è quello della Convenzione di Schengen, che abolisce i controlli alle frontiere tra le alte parti contraenti. Ratificato da tutti i Paesi dell’UE, e persino da alcuni stati esterni come Svizzera, Liechtenstein, Norvegia ed Irlanda, questo è sempre stato rifiutato da Gran Bretagna ed Irlanda. Altrettanto evidente è l’assenza della Gran Bretagna dalla cosiddetta Zona Euro, o, per meglio dire, dall’Unione Economica e Monetaria: oltre a Londra, solo la Danimarca ha optato per respingere l’adozione dell’Euro (altri Paesi non ne fanno parte, ma il motivo sta nel mancato raggiungimento dei parametri necessari).
Detto dei due casi più celebri di opt-out (così viene chiamata la decisione di un Paese membro dell’UE di non aderire ad uno specifico trattato) da parte della Gran Bretagna, ve ne sono poi altri più celati, ma che a loro volta dimostrano come i britannici non si siano mai sentiti completamente parte dell’Unione: parliamo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, ratificata da tutti i Paesi membri tranne Regno Unito e Polonia, o ancora dell’Area di Libertà, Sicurezza e Giustizia, della quale non fanno parte Londra e Dublino.
PERCHÉ BREXIT? LE RAGIONI INFONDATE
Detto di un Regno Unito mai parte integrante a titolo completo dell’Unione Europea, veniamo dunque alla grande giornata referendaria. Perché i britannici hanno optato per l’uscita? Il centro della campagna referendaria che ha convinto molte persone in questo senso è stato quello dell’immigrazione. Bloccare l’immigrazione e chiudere le frontiere sono stati i gridi di battaglia dell’estrema destra nazionalista, che ha così convinto le persone a fare appello ai propri istinti primordiali, anziché imbastire un ragionamento certamente più complesso ma molto più sensato riguardante le problematiche di una Unione Europea nata male e basata unicamente sull’aspetto economico piuttosto che su quello politico e culturale.
PERCHÉ BREXIT? LA SCELTA GIUSTA
Già dopo la Prima Guerra Mondiale, il primo ministro francese Aristide Briand ebbe l’idea di creare una sorta di Unione Europea ante litteram per garantire la sicurezza in Europa (e già allora, tra l’altro, chi si opponeva era la Gran Bretagna, che voleva escluderne l’Europa orientale). In quell’occasione, però, Briand fu chiaro nelle caratteristiche che avrebbero dovuto avere gli “Stati Uniti d’Europa”. Il 5 settembre 1929, in occasione della decima Assemblea della Società delle Nazioni, Briand ne parlò apertamente: “Penso che tra i popoli che sono geograficamente raggruppati come popoli d’Europa, debba esistere una sorta di legame federale; questi popoli devono avere in qualsiasi momento la possibilità di entrare in contatto, di discutere i loro interessi, di prendere decisioni comuni, di stabilire fra loro un legame di solidarietà, che permetta loro di far fronte, al momento opportuno, a circostanze gravi, qualora venissero a crearsi”. Al termine del discorso, Briand ammonì: i legami economici sarebbero stati importanti, vista anche la crisi che imperversava in quegli anni, ma sarebbero stati necessari anche e soprattutto dei legami politici, pur “senza intaccare la sovranità di nessuna nazione”. Poco dopo, Briand stilò un primo progetto, incitato dal tedesco Gustav Stresemann, che apprezzò molto il discorso del collega francese prima di morire pochi giorni dopo. Il progetto, sostenuto anche dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria, fallì a causa dell’opposizione della Gran Bretagna.
L’excursus storico è servito per ricordare che già i primi teorizzatori di un’Unione Europea ci avvertirono sulla necessità di creare legami politici e non meramente economici. Briand non sognava certamente una dittatura economica che priva i Paesi della propria sovranità nazionale, attraverso una moneta che ha l’aspetto di un Leviatano che divora tutto ciò che lo circonda per ingrassare la Germania. Uscire dall’Unione Europa è dunque una scelta giusta, ma la contraddizione sta nel fatto che a dover optare per questa scelta dovrebbero essere piuttosto i Paesi che fanno parte della Zona Euro, anziché una Gran Bretagna che non ha di certo patito le violenze economiche derivanti dalla moneta unica. Il problema, è che quando un Paese debole e soggetto all’Euro come la Grecia ha provato ad ipotecare una propria uscita, questa è stata resa di fatto impossibile. È dunque auspicabile un’uscita collettiva da parte di numerosi Paesi che si propongano di creare un’Unione Europea alternativa basata sui rapporti amichevoli (anche – ma non solo – economici) tra i popoli e le culture, lasciando la Germania in una posizione isolata ed indebolita e ristabilendo quella sovranità nazionale che è stata stuprata dall’introduzione della moneta unica.
DOPO BREXIT: L’ASSURDO ATTACCO ALL’ELETTORATO DEI “VECCHI”
Alla lettura dei risultati del referendum, gli strenui difensori dell’Unione Europea si sono attaccati alla natura dell’elettorato che ha optato per la Brexit, in particolare all’età degli elettori. Gli anziani sono stati accusati di egoismo, perché avrebbero ancora poco tempo da vivere rispetto ai propri nipoti, dei quali avrebbero rovinato il futuro. I giovani, invece, sarebbero – secondo la versione dominante – quasi tutti favorevoli alla permanenza nell’Unione Europea.
Due constatazioni, però, contrastano con queste dichiarazioni. Di fatto, almeno un terzo dei giovani in realtà non ha votato, confermando la disaffezione nei confronti della cosa pubblica da parte delle giovani generazioni, sempre più individualiste – come fa piacere al grande capitale internazionale – e sempre meno interessate al bene comune. Al contrario, si sono recati alle urne il 90% degli over 65, che hanno dunque dimostrato un maggior senzo di responsabilità civile, nonostante potessero avere più motivi oggettivi per non adempiere al proprio dovere. In seconda battuta, ci si è dimenticati di ricordare che la maggioranza dei Paesi europei – Italia in testa – ha oggi una popolazione composta principalmente da anziani, e che dunque tutti i risultati delle tornate elettorali vengono sostanzialmente decise dal voto di costoro, che per natura sono in linea di massima conservatori e che dunque permettono agli attuali governi di rimanere al proprio posto, alternandosi con altri partiti che hanno in realtà la stessa natura, pur mascherandosi da avversari. Al contrario, se venissero valorizzati il voto ed il ruolo politico dei giovani, in molti Paesi ci sarebbero governi più progressisti ed innovativi, ma in quel caso l’élite dominante risponderebbe che i giovani sono utopisti e sognatori, e che le loro soluzioni sarebbero inapplicabili. Una retorica che è l’espressione di uno dei tanti modi che ha il capitalismo globalizzato di perpetrare il proprio dominio, cosa che avviene anche attraverso lo strumento dell’Euro.
BIBLIOGRAFIA
DUROSELLE, J.-B. (1998), Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni