Tutti un po’ offesi, perché l’Inghilterra, col Brexit, ci ha abbandonato al nostro destino. Come gli amanti respinti, vogliamo convincerci che perde chi lascia. Ma potrebbe non essere così.
di Loredana de Michelis
Gli inglesi si dividono storicamente da sempre, come in questo referendum sul Brexit, esattamente a metà tra abili pirati conquistatori e capaci conservatori a guardia del regno. Non sono in combutta tra loro, però: è una formazione. I conservatori conservano il prestigio e il territorio, i predoni vanno a prendere quello che serve per continuare a farlo.
Chi ha votato sì al Brexit è lo stesso popolo che anni fa votò contro la moneta dell’euro soprattutto “perché non aveva l’effigie della regina” e non c’è da ridere, perché se c’è un popolo sovrano è proprio quello inglese e se c’è un sovrano popolare è la regina d’Inghilterra: basta una sua parola per dirigere il voto di milioni di persone, come in un altro paese non succederebbe mai.
Difficile credere quindi che questo referendum “sia sfuggito di mano” o sia stato fatto inconsapevolmente. Senza l’omicidio imprevisto di Jo Cox sarebbe forse stato ancora più evidente.
Alcuni esperti hanno parlato di voto emotivo, insensato. Ennio Doris, però, ha detto un paio di cose interessanti: 1) La Gran Bretagna è il primo cliente della Germania, e sarà un po’ difficile per quest’ultima sanzionarla senza rimetterci. 2) Questa, come tutte le crisi, è un’opportunità di mercato fenomenale. Per chi saprà avvantaggiarsene, ovviamente.
Non è un segreto che il mondo degli affari inglese sia tra i più pirateschi del globo e proprio lì vi siano le manovre più corrotte e spericolate. È il mestiere antico dei pirati, che ora avranno le mani meno legate. Non c’è solo la Cina, ci sono tutti i paesi dell’Est che non sono ancora entrati in Europa e che a questo punto potrebbero non volerlo più come prima e valutare altre alleanze economiche. C’è l’Australia, che appartiene alla regina in tutti o sensi, anche sentimentali, e che è un forziere pieno di materie prime.
Gli inglesi che hanno votato per il sì, non viaggiano; bevono birra, vivono di purè e salsicce e non toccherebbero mai il prosciutto crudo o una carota cruda: cuociono tutto. Si riferiscono all’Europa come a un continente lontano di cui hanno pochissime notizie e sul quale nutrono grossi e inamovibili pregiudizi. A loro, dell’aumento del prezzo dell’olio d’oliva, non frega niente, anzi, anche questa cosa dei D.O.P. e dei D.O.C li aveva stufati: ora potranno fare il vino in polvere e il parmigiano con la plastica riciclata e sarà made in Britain, quindi più buono.
Perché ciò che molti inglesi odiano da sempre è proprio il confronto: loro vogliono sentirsi superiori. E l’avvicinarsi dell’Europa stava insinuando dubbi, sulla loro sanità, che non è granché, sul livello delle loro scuole dell’obbligo, sui livelli standard di sicurezza degli impianti elettrici delle loro case. I posti di lavoro più remunerati erano conservati con crescente difficoltà a fronte di un’immigrazione sempre più capace e preparata: una forma di protezionismo, come già avviene in Australia, era diventata impellente.
Una cosa che sfugge a molti che non conoscono direttamente la realtà inglese fuori dalle grandi città, è che, se molti over 65 hanno votato sì per semplice istinto reazionario, la classe sociale “bassa” ha votato in modo analogo non necessariamente per ignoranza, ma per un motivo comprensibile: si tratta di operai, artigiani e piccoli commercianti (sono tantissimi), che si sono visti surclassare in termini di abilità dagli immigrati. Non quindi ristoranti alla buona dove si mangia roba di scarsa qualità ma economica, negozi dove si comprano oggetti scadenti a poco prezzo e artigiani meno abili dei locali ma più a buon mercato, come succede da noi: tutto il contrario. Cibo più buono, locali più eleganti e puliti, negozi più forniti e soprattutto idraulici, carpentieri e falegnami veloci, precisi e senza problemi di alcolismo, la cui attività è fiorita a discapito dei guadagni dei lavoratori locali, che si sono ridotti ad essere loro, i sottopagati. Per fenomeni analoghi, in passato, si sono scatenate guerre e persecuzioni razziali.
I giovani colti di Edimburgo vogliono l’internazionalità dell’Europa. Ma il parquettista, che fino a 20 anni fa piazzava pavimenti alla bell’è meglio e nessuno si lamentava, mentre ora vanno tutti a cercare il pelo nell’uovo, la vede diversamente. Specialmente quando l’artigiano straniero lavora lì per 5 anni, guadagna di più, gli rovina la piazza e poi se ne torna al suo paese chiedendo anche indietro parte delle tasse pagate o risparmia spedendo metà di ciò che guadagna in un altro continente.
Non sono i lavapiatti quindi il problema, anzi: saranno sempre i benvenuti in città come Londra, che ne ha bisogno perché nessuno dei suoi abitanti inglesi fa più quei mestieri da decenni. Si troverà un modo per ammetterli come prima, forse con qualche diritto in meno.
Gli altri invece, quelli concorrenziali e quelli non necessari, come quelli che si erano rifugiati là per incassare il sussidio di disoccupazione o farsi pagare l’affitto dal governo, quelli che ricevevano una pensione d’invalidità che nel loro paese non esiste, probabilmente dovranno presto ridiscutere la loro posizione e forse rinunciare allo splendido welfare di questa nazione.
Brexit potrebbe quindi essere una mossa, consapevole, che rimette la Gran Bretagna al centro di un suo nulla e senza paragoni, consentendole di azzerare la partita che rischiava di perdere e ricominciare da capo, sfruttando appieno le sue caratteristiche peculiari che si stavano perdendo nella diluizione europea.
Un rischio, forse sottostimato per arroganza regale, sono ora la Scozia e l’Irlanda del Nord: stufe di fare i terroni d’Inghilterra, potrebbero decidere di voler fare i settentrionali d’Europa, intaccando dolorosamente il risiko della Gran Bretagna.
Noi italiani, con il debito che abbiamo, rischiamo di pagarla cara. Potremmo cercare di recuperare almeno il bene – gratuito – dell’ironia, che ci stiamo rubando da soli.