Il 13 novembre 2015 sarà per sempre ricordato come il giorno degli attentati nel cuore di Parigi, ma questo maledetto venerdì nero, segnato dal lutto e dal dolore ha anche un altro primato. È infatti la prima volta che in un contesto europeo il ruolo dei social e dei mezzi di informazione, non solo tradizionali, contribuisce, con tutte le sue risorse a raccontare in diretta l’avvenimento, e ad ispirare reazioni.
Sostanzialmente quello che è successo ci è arrivato dritto come un pugno nello stomaco dalla voce di chi lo stava vivendo, come nel caso della pagina Facebook di uno dei presenti dentro il teatro Bataclan, che ci ha avvisati della barbarie a cui stava assistendo. Oppure ci è stato comunicato attraverso video dai giornalisti per strada o vicini all’evento, senza filtri, in diretta. O ancora è stato trasformato in notizia e cronaca dai giornalisti che leggevano via twitter i commenti delle loro fonti, verificavano e poi spiegavano. Perché a questo servono i social e a tradurli poi in fatti servono i giornalisti. In passato la mobilitazione sui social ha avuto un ruolo importante, per la prima volta all’interno di dinamiche di rivolta e politica, come nel mondo arabo, nell’agevolare l’aggregazione e la coalizione dei piccoli gruppi, e l’apice di questo fenomeno si è avuto durante le cosiddette “Primavere arabe”, mostrando come il malcontento fosse generale. L’uso dei mezzi social è sempre più importante nelle cronache giornalistiche, ma anche nelle petizioni, nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica, nell’orientamento politico, tanto è vero che ormai una delle prime azioni di controllo dei governi passa proprio dall’oscuramento dei social.
News in tempo reale, bufale escluse
Ma andiamo per ordine. Abbiamo già avuto casi di news in tempo reale dai cittadini durante eventi tragici, come nel museo del Bardo, in Tunisia. Ma la copertura dell’evento, in questo caso, trova la sua eccezionalità nella sua portata ampia e congiunta, che implicando più teatri di azione in più parti della stessa città, ha mobilitato i tanti attori in campo, restituendoci le diverse prospettive da più angolazioni e facendoci acquisire una mole di informazioni e di dettagli impressionante. Certo non tutti erano attendibili, e un pezzo apparso sulla versione online di Le Monde mette in guardia su tutte le falsità diffuse a poche ore dall’attentato in rete, avvisando che si tratta di distinguere, facendo “il punto sui rumors che girano per evitare che vengano diffuse come vere”; non è vero ad esempio che i cittadini tedeschi fossero in marcia per solidarietà dopo gli attacchi, le immagini si riferivano ad una protesta anti-islam, non è vero che quattro poliziotti sono rimasti feriti durante il blitz al Bataclan, non sono avvenuti attacchi a Les Halles, Belleville e Place de la République, non è vera la foto del concerto postata su facebook durante il concerto, ma si riferisce all’esibizione degli Eagles of Death Metal a Dublino, a Strasburgo non è intervenuta la polizia e la Tour Eiffel non è stata spenta per lutto, così come non si è colorato dei colori francesi l’Empire State Building ma la Freedom Tower. Questa è una forma indispensabile di #factchecking che dimostra come l’azione dei professionisti dell’informazione serva a verificare ed evitare le bufale. In generale i giornalisti di tutte le testate hanno collaborato tra loro, e questo è già un primato, verificando a vicenda le fonti, diffondendo quello che sapevano, correggendosi, il tutto con il contributo dei testimoni oculari, parte attiva nei fatti. Questa è comunicazione.
La Safety page e il check-in virtuale
Oltre alle bandiere nazionaliste che dipingono in questo caso di blu, bianco e rosso le foto del profilo degli utenti “partecipi del dolore” , Zuckerberg interviene su fb creando una funzione per la localizzazione immediata delle persone che si trovavano a Parigi, per cui coloro che non erano riusciti ad avere notizie in tempo reale sui loro amici, a poche ore dall’attacco parigino si sono potuti registrare con un check-in, dicendo pubblicamente a tutti di essersi salvati. In precedenza il Safety Check era stato attivato per i terremoti in Nepal e Cile. Tuttavia il mondo arabo, attraverso la voce di Al-Jazeera mostra i suoi legittimi dubbi sull’iniziativa, facendo notare che niente di tutto questo è mai avvenuto per attacchi condotti contro vittime innocenti in Paesi Arabi, poi si chiede se per Facebook non esistano vittime di serie A e vittime di serie B. Sul fronte dell’utilità dei social, su twitter l’hashtag #recherceParis ha dato modo ai parenti dei dispersi di diffondere le immagini dei loro amici e congiunti per poter chiedere notizie alla rete. Purtroppo, il giorno dopo, a campeggiare sulle foto di molti di quei volti c’è la scritta macabra “è deceduto”. Una iniziativa social è poi partita direttamente dai parigini, che con l’Hastag #PorteOuverte hanno offerto ospitalità a tutti coloro che si trovavano per strada nei luoghi vicini all’attentato.
Le iniziative di protesta: #Notinmyname e #PrayforParis
Le iniziative di solidarietà e di denuncia mostrano un alto livello di reazione e sono significative per dimostrare, se ce ne fosse bisogno, come questi atti terroristici siano trasversali e abbiano un impatto incredibile sull’opinione pubblica. La comunità islamica ha condannato il gesto fortemente e ha ribadito come nessuna religione, Islam compreso, predichi la morte. Tanti i musulmani che hanno postato le loro foto con la scritta #Notinmyname, slogan rispolverato già all’indomani dei fatti di Charlie Hebdo e per le stragi di Boko Haram. Iniziative spontanee nate sul web sono confluite poi in piazze reali, grazie al richiamo dell’Hashtag #PrayforParis. Una nota su cui riflettere è la fratellanza unanime espressa e testimoniata dalle foto di tutto il mondo, che mostrano come la bandiera francese sia stata proiettata sui monumenti delle città di tutto il mondo.
Le rivendicazioni del Califfato e la diffusione dell’odio
L’Isis come sempre ne approfitta per rivendicare gli attentati, sebbene lo faccia riferendosi al XVIII Arrondissement e parli di 8 terroristi, mentre proprio in quella zona non è successo nulla e i terroristi sarebbero molti di più. Un attacco è infatti avvenuto al Bataclan, la sala per concerti nell’XI Arrondissement, non lontano dalla sede di Charlie Hebdo, dove sono rimaste uccise 118 persone. Colpi di kalashnikov sono esplosi in un ristorante e in un bar del X Arrondissement. Granate attorno allo Stade de France, alla periferia della capitale francese, dove era in corso l’amichevole Francia-Germania. Spari a Beaumarchais e in altre due strade. Nulla nel XVIII Arrondissement. Ma c’è un altro modo di uccidere i fatti, attraverso la diffusione dell’odio e la spiegazione immediata di quello che è successo, con la formula causa-effetto-soluzione, che indica nella chiusura di ogni frontiera e di ogni comprensione il rimedio contro l’odio, nell’additare anche mediaticamente, tutti coloro che aderiscono ad una fede, in questo caso l’Islam, come colpevoli, nel rinverdire teorie xenofobe del passato ed eleggerle a paradigma, costruendo dogmi imprescindibili per capire l’efferatezza e e dimostrare l’arretramento culturale di tutto ciò che non risponde al canone occidentale, o alla sua visione. L’altra faccia della medaglia è la diffusione di slogan e di idee di certa stampa, che con titoli davvero poco appropriati, come nel caso di Libero, hanno suscitato sdegno e reazione. Ma anche qui il regno dei social non resta indifferente e si mobilita con petizioni online e mail inviate all’Odg che suscitano come prima reazione la denuncia da parte del giornalista Maso Notarianni nei confronti del direttore responsabile del quotidiano, Maurizio Belpietro e tutte le persone che si riterranno responsabili, sulla base dell’art. 403 del codice penale (offese ad una confessione religiosa mediante vilipendio di persone) e della legge 205 del 1993, la legge Mancino, sulla discriminazione religiosa, etnica e razziale e in secondo luogo campagne per la radiazione del giornalista via Charge.
Diffondere l’odio in rete non è la soluzione, e oltretutto, nelle forme più estreme è reato. Parleranno i fatti sull’identità degli attentatori e le indagini sulle dinamiche e le motivazioni, per tutto il resto occorre il silenzio e il rispetto per chi non c’è più, e per chi è rimasto.