Il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP, dall’inglese Transatlantic Trade and Investment Partnership, tradotto da alcuni con “trattato”) è il più grande accordo commerciale in procinto di essere stipulato fra due superpotenze, l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America. Una volta ratificato, il TTIP permetterà di aumentare il flusso di investimenti fra i due blocchi, realizzare appieno il potenziale derivante da un mercato liberalizzato, generare crescita economica e creazione di nuovi posti di lavoro e, allo stesso tempo, provvedere alla costituzione di una cooperazione normativa che ne favorisca il reciproco accesso al mercato. Si tratta di un accordo senza precedenti che definirà un nuovo assetto del commercio e degli investimenti fra i maggiori protagonisti dell’economia mondiale, e che – è opportuno specificarlo – non metterà in pericolo la salute dei cittadini europei né tantomeno aprirà le porte agli abusi delle multinazionali. Ecco perché:
L’UE e gli USA rappresentano insieme la più importante realtà economica del mondo poiché dominano il commercio globale: metà dell’emissione mondiale di beni e servizi proviene dalle due superpotenze, che insieme vantano 13,9 trilioni di euro in PIL. I due sono inoltre i più importanti e reciproci partner commerciali per quanto attiene agli investimenti, contando 1,65 trilioni di euro investiti da cittadini europei negli USA, ed 1,5 trilioni di euro investiti da imprese americane in Europa. Stando ad un recente studio del DG Trade, il 18,3% delle esportazioni europee è destinato agli USA, così come il 12,2% delle esportazioni americane arriva in Europa: questo si traduce in un volume d’affari pari a circa 4 trilioni di euro annui.
La recessione del 2008 ha tuttavia indebolito l’UE, che fatica ad ottenere miglioramenti nel PIL (soltanto +1,6% nel 2014) ed accusa al contempo, un continuo aumento della disoccupazione (+11,3%) stando ai dati Eurostat del 2015. Il commercio fra l’UE e gli USA sembra quindi un’importante via d’uscita da questo momento di stallo. In effetti l’occupazione dipenderà strettamente dagli scambi economici: si calcola che per ogni miliardo in beni e servizi esportati vi saranno 15 mila nuovi posti di lavoro in Europa.
Pertanto, le due entità sono legate da un solido rapporto commerciale che è opportuno facilitare quanto più possibile. Purtroppo nello status quo delle cose, esistono diverse barriere che finiscono per ostruire il commercio e gli investimenti. Primo compito del TTIP è dunque quello di agevolare l’accesso al mercato tramite l’eliminazione – o la riduzione – degli ostacoli più pesanti.
Quali sono queste barriere? Innanzitutto, si tratta di barriere tariffarie che sono determinate nel contesto del WTO sulla base della clausola della Nazione più favorita (MFN, Most Favored Nation in inglese) e sono il frutto di reciprocità nei livelli di protezionismo da ambo le parti. Per esempio, l’UE mantiene tale protezione tariffaria a livelli piuttosto alti in quei settori che interessano maggiormente la controparte (prodotti alimentari e veicoli a motore per esempio), e lo stesso accade per gli USA. Tuttavia, esiste un secondo tipo di impedimento, i cui effetti sul commercio e gli investimenti sono maggiori e più importanti: le barriere non tariffarie, tutte quelle restrizioni non-fiscali (come il nome suggerisce), ossia misure protezionistiche di carattere quantitativo e regolamentare, che hanno lo scopo di limitare la circolazione di merci. Le differenze di regolamentazione rappresentano la vera sfida in questo contesto, perché sono interpretate in maniera diversa dalle parti – in altre parole, ad ogni nuova regolamentazione in termini di misure, sicurezza e conformità corrisponde una nuova barriera non tariffaria. È ovvio quindi che eliminare queste barriere non è facile, perché l’operazione richiede cambiamenti strutturali nei sistemi politici, legislativi e tecnici dei due blocchi – ed il TTIP non ha la pretesa di stravolgere completamente i regimi legislativi delle parti. È tuttavia essenziale cercar di limitare laddove possibile queste barriere al fine di ottenere una completa liberalizzazione dei mercati.
Proprio per far fronte al problema, l’UE e gli USA già negli anni ’90 hanno iniziato i negoziati per un accordo sulla creazione di una Zona Transatlantica di Libero Scambio (TAFTA, Transatlatic Free Trade Area in inglese) che tuttavia non vide mai la luce a causa degli interessi divergenti delle parti ed un protezionismo ancora troppo acceso, all’indomani della fine della guerra fredda. Soltanto nel novembre 2011, in seguito al Summit cui parteciparono il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e gli allora Presidenti della Commissione Europea (Barroso) e del Consiglio Europeo (van Rompuy), si rese più vivida la necessità di una cooperazione reciproca nell’individuazione di politiche atte ad aumentare il commercio e gli investimenti, e a supportare la creazione di posti di lavoro, crescita economica e competitività. I negoziati veri e propri sono iniziati a giugno 2013, in seguito a discussioni preliminari fra il l’UE e l’ufficio di rappresentanza commerciale degli USA, e dal sito del DG Trade è possibile scaricare i testi delle discussioni, i diversi rapporti ed i resoconti delle riunioni sino all’ultimo giro di negoziati, tenutosi dal 13 al 17 luglio 2015 a Bruxelles.
Siamo ancora lontani dal raggiungere un accordo unanime, specie in settori come l’agricoltura e gli appalti pubblici dove gli interessi europei ed americani sono contrastanti, tuttavia è già chiaro come il TTIP sarà formulato: esso rispecchierà la classica struttura degli accordi di libero scambio, ossia 1) Accesso ai mercati; 2) Questioni normative; 3) Regole e norme. Attualmente i negoziati vertono sul primo pilastro, quello dell’accesso ai mercati, che riguarda il commercio di beni e servizi, la protezione degli investimenti e gli appalti pubblici.
Come spiegato, la riduzione delle barriere non tariffarie costituisce il primo importante passo verso una liberalizzazione del mercato. Secondo un rapporto del WTO, l’UE ha riportato l’esistenza di 154 regolamentazioni tecniche e procedure di conformità che riguardano, per esempio, gli elettrodomestici, i prodotti tessili ed alimentari, i cosmetici e via dicendo. Queste regolamentazioni differiscono da quelle in vigore negli USA, che dall’altro lato, hanno stabilito un regime tariffario basato su tre diverse categorie. L’UE e gli USA quindi stanno cooperando per cercare di trovare una certa armonizzazione di queste regole, così da facilitare il commercio fra di essi nel pieno rispetto dei consumatori e delle regole di origine. È opportuno ricordare che, in nessuna misura l’UE intende trasgredire agli standard europei raggiunti in materia di sicurezza alimentare e sanitaria, e che nessun accordo internazionale potrà mai privare l’UE del proprio diritto a regolamentare. L’accesso ai mercati tratterà anche di servizi, cercando di determinare il più alto livello di conformità in materia di licenze, qualifiche e procedure di riconoscimento. Attualmente, le imprese ed i produttori europei sono soggetti ad elevati costi dovuti a rigorose condizioni di conformità imposte dagli USA, e le piccole e medie-imprese non avendo i mezzi per fronteggiare questo tipo di spesa, restano tagliate fuori dalla concorrenza.
Nodo spinoso è quello riguardante le questioni normative. L’opinione pubblica ha manifestato paure, insicurezze e dubbi su come il TTIP possa aprire i mercati, garantendo allo stesso tempo piena protezione ai cittadini e rispetto degli standard europei. Bisogna chiarire una volta per tutte che il partenariato transatlantico non compromette in alcun modo il diritto dell’UE a legiferare in ottemperanza alle norme previste per la protezione dei consumatori in termini di sicurezza e salute. In tal senso, sia l’UE che gli USA hanno elevati standard, che tuttavia vengono interpretati in maniera diversa da ambo le parti – ruolo del TTIP è rendere questa interpretazione quanto più omogenea possibile. Per esempio, gli standard che definiscono un’auto “sicura” variano fra l’UE e gli USA: eliminare questa divergenza ridurrebbe del 20% i costi imposti alle esportazioni europee negli USA, ove il prodotto deve essere “omologato” agli standard americani. Questa convergenza sarà garantita in virtù dell’accordo WTO sugli ostacoli tecnici al commercio (Agreement on Technical Barriers to Trade in inglese) in modo da evitare barriere ridondanti e superflue, e garantendo altresì alle parti i mezzi per una giusta esecuzione della politica di protezione dei produttori e consumatori prevista dall’UE. Su quest’ultimo punto, un’altra precisazione è d’obbligo. Anche il significato di protezione dei consumatori diverge fra le due parti: gli OGM, per esempio, sono visti dagli USA come un modo per combattere la fame, allorché l’UE li percepisce come un problema per la salute dei propri cittadini. Per questo il TTIP avrà un ruolo chiave nella determinazione di standard comuni di sicurezza che, ribadisco ancora una volta, terranno in considerazione la politica europea. L’UE, non accettando alcun tipo di compromesso sulla protezione dell’ambiente e della salute dei cittadini, farà in modo che l’omogeneizzazione delle questioni normative avvenga nel pieno rispetto degli standard europei richiesti.
Il terzo pilastro del TTIP riflette la volontà delle parti di creare un pacchetto di norme che saranno vantaggiose per entrambe: sia l’UE che gli USA concordano sul fatto che queste norme permetteranno di stabilire regole standard circa lo sviluppo sostenibile, il lavoro e l’ambiente. Inter alia, le parti faranno leva sull’importanza che la proprietà intellettuale assume nella crescita dell’innovazione per riconoscere le indicazioni geografiche europee in virtù dell’accordo WTO sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, in inglese). Proteggere la proprietà intellettuale servirà da incoraggiamento all’innovazione, aumenterà la creatività e gli investimenti in ricerca e sviluppo e, quindi, migliorerà l’economia.
Nell’occhio del ciclone
Nonostante l’ampio flusso di informazioni e la politica di trasparenza adottata dall’UE, l’opinione pubblica e la società civile hanno mostrato non poche preoccupazioni circa la possibilità che il TTIP sia in realtà un cavallo di Troia per gli investitori americani. Col fine di capire quali fossero le loro paure concrete, l’UE ha invitato cittadini europei ed altri stakeholder a partecipare ad una consultazione pubblica nella quale chiunque poteva esprimere le proprie perplessità sul TTIP. La consultazione ha dato vita ad un rapporto che ha permesso all’UE di affrontare le questioni che stavano più a cuore agli Europei – fra queste, la protezione degli investimenti.
Gli investimenti, in effetti, costituiscono un importante fattore per lo sviluppo economico di un paese per cui proteggerli dai soprusi si rivela una questione vitale. Il TTIP includerà un capitolo sulla protezione degli investimenti, molto probabilmente sul modello del CETA (EU-Canada Comprehensive Economic and Trade Agreement) che garantirà protezione giuridica degli investitori, promozione degli standard europei, e quindi l’aumento della competitività del mercato. Investire all’estero comporta sempre un certo fattore di rischio – e gli Europei ne erano ben consci quando negli anni ’60 decisero di creare leggi sugli investimenti – ed oggi più che mai, in virtù dell’esigenza di proteggere gli investitori all’estero, l’UE ha firmato oltre 1400 accordi internazionali d’investimento coperti dalla clausola dell’ISDS (Investment-to-state Dispute Settlement in inglese), il meccanismo per la risoluzione delle controversie fra stato ed investitore. Ecco come funziona:
L’ISDS è un insieme di regole internazionali di procedura che permette la risoluzione di una controversia nata fra uno stato ed un investitore straniero allorquando il primo fosse venuto meno agli obblighi sanciti dall’accordo commerciale impedendo quindi al secondo di trarre il beneficio promesso. Quali sono questi obblighi? Si tratta dei quattro principi degli investimenti stabiliti dal WTO: 1) non discriminazione dell’investitore in virtù della clausola della nazione più favorita; 2) nessuna espropriazione senza giusta compensazione; 3) trattamento giusto ed equo; 4) libero movimento di capitale. A questi, si aggiungano altre garanzie, come lo stato di diritto, trasparenza, partecipazione pubblica e condotta responsabile ed etica. Nel modello CETA, l’UE aveva già chiaramente stabilito le priorità dell’Europa in termini di diritto a legiferare, raggiungimento degli obbiettivi comuni senza arrecare pregiudizio alla salute pubblica, e prevenzione da ogni abuso grazie alla definizione precisa (prima volta nella storia di un trattato commerciale) di “trattamento equo e giusto” e “espropriazione”. L’accordo CETA prevede anche regole chiare per la nomina degli arbitri al fine di garantirne l’indipendenza e l’etica professionale.
La risposta alla domanda che più faceva paura “può un produttore americano di carni OGM appellarsi all’ISDS e fare causa all’UE per il mancato profitto dovuto al divieto di importare OGM in Europa?” non può che essere “NO”, perché il divieto non costituisce alcuna violazione dei quattro principi sugli investimenti del WTO. Va ribadito che nessuna ditta può vendere prodotti non certificati dagli standard europei nell’UE: il produttore americano che vuole esportare i suoi polli al cloro in Europa dovrà trovarsi un nuovo mercato cui venderli, e non può far nulla per aggirare il problema o la regolamentazione europea. In passato, si è già verificato che la legge di uno stato non costituisse un’espropriazione illegittima di profitto: è il caso Methanex v. USA, dove in virtù dell’accordo NAFTA l’azienda ha fatto causa agli Stati Uniti reclamando che questi, nel bandire il metile, avessero arrecato un danno economico alla Methanex. La giurisprudenza ha dato ragione al governo americano affermando che il divieto imposto sul metile non viola gli accordi del NAFTA, bensì affronta una questione ambientalistica.
Ad ogni modo, e forse per venire incontro a chi teme gli abusi degli investitori, nel corso dell’ultimo giro di negoziati dello scorso luglio l’UE e gli USA hanno iniziato a parlare di SDSS, ossia State-to-State-Dispute-Settlement, invece che di ISDS. Questo vuol dire che saranno gli stati, in virtù del loro principio di sovranità, a fare gli interessi degli investitori – si spera così di dar meno margine di manovra alle imprese e di garantire una trasparenza ulteriore in nome del diritto internazionale pubblico.
Quanto alla non necessità di avere regole internazionali per la protezione degli investimenti, va spiegato che la legge applicabile alla questione è, per ovvie ragioni, il diritto internazionale – d’altronde, la legislazione americana non prevede alcuna protezione per gli investimenti stranieri, quindi senza regole internazionali a cui le parti sono soggette, gli investitori europei non riceverebbero la protezione dovuta. Lo stato di diritto e la libertà di uno stato a legiferare trovano la loro massima espressione proprio negli accordi internazionali, in cui le parti decidono di usare la propria sovranità di potere politico centrale e s’impegnano ad ottemperare agli obblighi comuni. Dati del UNCTAD mostrano che solo il 24% dei casi sono stati vinti dagli investitori contro uno stato. Questo dato ci fa capire anche che il meccanismo non provoca un “blocco” legislativo degli stati che, per paura di essere attaccati dagli investitori, deciderebbero di non regolamentare più sul proprio territorio.
Piccole e medio-imprese
Il pensiero si volge ora alle piccole e medie-imprese europee, che dovranno affrontare costi altissimi nel caso in cui decidessero di appellarsi all’ISDS successivamente ad una violazione dei principi del WTO da parte degli USA. Innanzitutto, le imprese con investimenti esteri detengono un importante capitale e quindi hanno i mezzi per affrontare un procedimento arbitrale internazionale. Inoltre, secondo uno studio OCSE del 2012, la maggior parte delle imprese che si appellano all’ISDS sono proprio le piccole e medie-imprese – questo anche perché le grandi multinazionali hanno la liquidità necessaria per adattare i loro standard alle regolamentazioni del paese estero. Ci sono discussioni fra diversi gruppi e think-tank europei su cosa si possa fare per rendere il procedimento arbitrale più snello e accessibile alle piccole imprese, e si pensa in particolar modo di promuovere anche la mediazione come tappa intermedia. Siamo comunque ancora ad un livello embrionale per capire come verrà stilato il capitolo sugli investimenti – certo è che le basi sinora presentate sembrano essere promettenti ed in pieno rispetto dei principi di uguaglianza e trasparenza.
Effetti economici enormi
L’UE e gli USA condividono valori importanti ed il TTIP costituisce un’ottima opportunità per far leva su questi valori e sfruttarli in un insieme comune di regole il cui fine ultimo è quello di supportare la crescita economica attraverso gli investimenti.
Innanzitutto, i prodotti saranno disponibili a prezzi competitivi grazie all’eliminazione (o riduzione) di dazi elevati e barriere non tariffarie. Si pensi ad un produttore di mozzarella di bufala campana D.O.P. che, una volta abbattuti gli ostacoli, potrà ridurre i costi d’esportazione e vendere la propria mozzarella in maggior quantità e ad un prezzo più interessante per i consumatori. L’armonizzazione delle regole non solo taglierà i costi, ma ridurrà anche la burocrazia e i “fardelli” amministrativi, permettendo un accesso più agile ai mercati. Grazie ad un pacchetto di regole comuni, l’uso delle risorse sarà più sostenibile e gli standard in termini di sicurezza, lavoro ed ambiente continueranno ad essere garantiti. La proprietà intellettuale e le indicazioni geografiche saranno non solo protette, ma anche incoraggiate poiché costituiscono il preludio alla creatività, e quindi alla concorrenza. Infine, gli investimenti avverranno in maniera sicura e, in caso di conflitto, riceveranno il livello di trasparenza e neutralità dovuto.
Il TTIP non indebolirà i livelli di protezione o le leggi vigenti in Europa, piuttosto rinforzerà il diritto degli stati a legiferare tramite un’armonizzazione legislativa. La protezione dei consumatori garantita in UE non verrà messa in discussione né dal TTIP, né da nessun altro trattato per il semplice motivo che imporre una legislazione ad uno stato – o un’unione di stati – è contro il principio di sovranità, il più elementare del diritto internazionale.
Il TTIP ridurrà prima di tutto i costi, quindi arricchirà la famiglie europee ed americane, le quali aumenteranno i consumi nei rispettivi mercati, il che si traduce in un accrescimento delle esportazioni. Ma non finisce qui: a trarre vantaggio dal mercato integrato saranno anche stati terzi, che adotterebbero standard simili a quelli sanciti dal TTIP e beneficeranno dei cosiddetti effetti spillover. Infine le piccole e medie-imprese, che da ambo i lati dell’Atlantico costituiscono un’importantissima fonte di innovazione e creazione di posti di lavoro (99% del volume d’affari di UE e USA insieme è rappresentato dalle piccole e medie-imprese), trarranno vantaggi enormi dalla riduzione delle barriere non tariffarie e dagli eccessivi costi di omologazione. La maggior parte di queste imprese avrà la possibilità di vendere i propri prodotti al di là dell’Atlantico per la prima volta in assoluto e, grazie a regole più chiare sulla proprietà intellettuale, vedranno l’innovazione altamente tutelata ed apprezzata. Alla fine, le piccole e medie-imprese rappresentano l’attore principale del TTIP non solo in termini di opportunità, ma anche in termini di sfide. Se si dimostreranno in grado di coglierle, le piccole e medie-imprese saranno anche i veri vincitori del TTIP.