Mentre stiamo scrivendo, è in pieno atto un tentativo di colpo di Stato in Venezuela, con dinamiche che, per alcuni versi, ricordano il golpe attuato da Augusto Pinochet in Cile contro il presidente democraticamente eletto, Salvador Allende. Pur riconoscendo gli errori del governo di Nicolás Maduro, in questo momento riteniamo fondamentale schierarsi in difesa della Rivoluzione Bolivariana e contro l’imperialismo degli Stati Uniti di Donald Trump.
IL TENTATIVO DI COLPO DI STATO
Nello scorso mese di maggio, le elezioni presidenziali in Venezuela hanno confermato Nicolás Maduro, esponente del Partito Socialista Unito del Venezuela (Partido Socialista Unido de Venezuela – PSUV), alla guida del Paese sudamericano. Il nuovo mandato di Maduro, tuttavia, avrebbe avuto inizio solamente a gennaio: in questi mesi, l’opposizione interna, con l’appoggio degli Stati Uniti e degli altri governi latinoamericani allineati a Washington, non ha fatto altro che organizzarsi per cercare di spodestare il presidente democraticamente eletto da oltre sei milioni di venezuelani, il 67,84 % dei votanti.
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Il 23 gennaio 2019, seguendo una interpretazione molto fantasiosa della Costituzione venezuelana,
Juan Guaidó, membro del partito di opposizione Volontà Popolare (Voluntad Popular, VP) e Presidente dell’Assemblea Nazionale, ha deciso di autoproclamarsi presidente del Paese e capo di un fantomatico governo provvisorio, incassando – senza alcuna sorpresa da parte nostra – l’immediato riconoscimento degli Stati Uniti d’America e degli altri governi genuflessi agli interessi di Washington, a partire dal Brasile di Jair Bolsonaro e dall’Argentina di Mauricio Macri, e passando per l’Ecuador del traditore della Revolución Ciudadana, Lenín Moreno, e per la Colombia di Iván Duque Márquez. La posizione degli altri Paesi nei confronti di questo avvenimento conferma il fatto che il golpe di Guaidó non sia affatto un avvenimento riguardante la politica interna venezuelana, ma piuttosto da inserire in un contesto globale in cui gli Stati Uniti stanno cercando di riaffermare la propria supremazia sul “giardino di casa”latinoamericano: in difesa di Maduro troviamo, oltre agli storici alleati regionali (Cuba, Boliva, Nicaragua, El Salvador), la Russia di Vladimir Putin, la Cina di Xi Jinping e la Turchia, che, pur restando nella NATO, sta cercando sempre più di staccarsi dalla supremazia a stelle e strisce.
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Il Venezuela sta diventando dunque un altro scenario dello scacchiere geopolitico globale, all’interno del quale gli schieramenti in ballo sono, non a caso, praticamente gli stessi del conflitto siriano. I mass media nostrani, che stanno vergognosamente propinando una versione dei fatti schierata spudoratamente con la destra venezuelana e l’imperialismo statunitense, si dimenticheranno naturalmente di raccontare che il Venezuela ha stretto contatti economici e militari sempre più stretti con Russia e Cina, arrivando a proporre la possibilità dell’apertura di una base militare russa sul proprio territorio, eventualità che naturalmente non può far altro che accapponare la pelle degli strateghi del Pentagono, riportando alla memoria la crisi dei missili cubani.
Ci si dimentica anche dei precedenti nella storia latinoamericana, ricca di colpi di Stato orchestrati da Washington, di cui il più celebre resta quello cileno del 1973, che terminò con la morte di Salvador Allende, il presidente socialista democraticamente eletto, e l’imposizione della dittatura militare di Augusto Pinochet, con il malcelato sostegno degli Stati Uniti, che utilizzarono il Paese andino come laboratorio a cielo aperto per esperimenti neoliberisti. Più di recente, abbiamo assistito ai cosiddeti “golpe blandi” in altri Paesi, come il Paraguay, il Brasile e l’Honduras, tutti terminati con la deposizione di presidenti più o meno progressisti, sostituiti da capi di Stato fedeli al neoliberismo di marca statunitense. Queste mosse, unite a quelle avvenute, seppur per mezzo elettorale, in Argentina ed Ecuador, hanno contribuito ad indebolire la rete di governi progressisti tessuta negli ultimi due decenni proprio dal Venezuela, trasformando in ostili i Paesi limitrofi che prima avevano ottimi rapporti con Caracas.
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Non viene mai citato, infine, il fatto che il Venezuela sia il principale produttore di petrolio in America Latina, nonché il Paese che, secondo le stime più recenti, detiene la maggior quantità di risorse di “oro nero” al mondo. Gli Stati Uniti, di conseguenza, possono difficilmente digerire il fatto che un Paese del genere non si trovi nella propria sfera d’influenza, ma che addirittura possa andare a cadere completamente nella rete di Russia e Cina. Un’eventuale aggressione imperialista del Venezuela, dunque, andrebbe perfettamente ad inserirsi nel sentiero delle invasioni subite dai Paesi mediorientali produttori di questa preziosa risorsa.
IL DIBATTITO SULLA DEMOCRATICITÀ DEL VENEZUELA
Oramai la propaganda massmediatica ci ha abituato al solito copione: per influenzare l’opinione pubblica circa Paesi lontani e poco conosciuti ai più, basta raccontare che il presidente in carica sia un malvagio dittatore antidemocratico che opprime il proprio popolo. Sono stati tali Saddam Hussein in Iraq, Muhammar Gheddafi in Libia o ancora Bashar al-Assad in Siria, ed ora è il turno di Nicolás Maduro, che, rispetto ai predecessori citati, può vantare sicuramente un curriculum politico molto più democratico, anche nel senso comunemente dato al termine.
Negli anni cinquanta, fu il filosofo Leo Strauss il primo a coniare l’espressione “reductio ad Hitlerum”, ad indicare una tattica oratoria mirante a squalificare un interlocutore comparandolo ad Adolf Hitler, considerando il leader nazista come l’indifendibile male assoluto. Questa tattica è stata utilizzata anche in passato (pensiamo, ad esempio, alla demonizzazione di Fidel Castro), ma è solamente nell’ultimo trentennio che questa è stata portata alle sue estreme conseguenze, con l’invasione militare o il golpe utilizzati come mezzo ultimo per abbattere l’Hitler di turno, possibilmente dotato di baffi per fomentare l’immaginario collettivo.
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Come ben noto, i cantori ditirambici della democrazia borghese e del neoliberismo non fanno altri che accusare il Venezuela di non essere un Paese democratico. Il discorso dominante formulato da parte degli “esportatori di democrazia” statunitensi e dei loro alleati mostra come al solito l’applicazione della sua doppia morale, a seconda del Paese in questione e di chi sia al governo. Dimenticando, per una volta, il nome del Paese del quale stiamo trattando, chi potrebbe azzardarsi a tacciare di antidemocraticità uno Stato nel quale si organizzano ben quattro consultazioni elettorali nell’arco di un anno? Una simile constatazione va a riempire anche i criteri di democraticità occidentali, ammesso che questi debbano essere necessariamente presi come esempio del miglior sistema politico possibile.
Tra il luglio del 2017 ed il giugno del 2018, in Venezuela si sono svolte elezioni per l’Assemblea Costituente (30 luglio 2017), le elezioni regionali in data 15 ottobre 2017, le elezioni municipali il 10 dicembre dello stesso anno e, infine, le elezioni presidenziali, il tutto con la libera possibilità di partecipare da parte delle opposizioni che, tuttalpiù, hanno deciso di autoescludersi sapendo già di andare incontro a sicura sconfitta, mascherando questa mossa con la formula del “boicottaggio”, che comunque ha coinvolto solamente tre partiti, mentre sono stati ben sedici quelli che hanno regolarmente preso parte al confronto elettorale. Come se non bastasse, erano state proprio le opposizioni a chiedere l’anticipazione delle elezioni presidenziali di tre mesi rispetto a quanto previsto inizialmente (settembre), sperando di poter sfruttare il momento di debolezza di Maduro. Le urne, invece, hanno premiato nuovamente il presidente in carica, che ha ottenuto il triplo dei voti del secondo candidato più votato, Henri Falcón.
Quello che il realtà fa infuriare Washington ed i suoi alleati sono semmai i risultati di queste consultazioni, che hanno sempre visto la vittoria della maggioranza governativa che fa capo al presidente Nicolás Maduro ed al suo partito, il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela). A dimostrazione di questo, nessuno si era azzardato a contestare i risultati delle ultime elezioni legislative, che invece avevano visto la vittoria delle opposizioni. Nelle elezioni regionali, invece, le forze favorevoli a Maduro hanno accumulato diciannove vittorie sulle ventitré entità federali che compongono il Venezuela, mentre alle comunali le coalizioni chaviste hanno collezionato 308 vittorie su 335, compresa la capitale Caracas, dunque imponendosi in più del 90% dei comuni.
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Nessun Paese al mondo può vantare un numero di elezioni così elevato nell’arco di un tempo così breve, neppure le più “civili” democrazie occidentali che tanto amano fare la morale al Venezuela. E nessun governo al mondo sarebbe probabilmente riuscito a vincerle tutte nonostante gli attacchi subiti dai media nazionali ed internazionali, con l’appoggio tanto della borghesia venezuelana quanto della grande borghesia globale. Le stesse “civili” democrazie occidentali, tuttavia, hanno preferito dichiarare l’illegittimità delle elezioni presidenziali venezuelane addirittura prima che queste si svolgessero, rifiutandosi di mandare dei propri rappresentanti per verificarne la validità. Ed è proprio la posizione assunta allora che ha creato i presupposti per il colpo di stato orchestrato dalla destra antibolivariana.
Se queste sono le posizioni ufficiali assunte dai governi europei e nordamericani, ciò non toglie che alcuni importanti rappresentanti di Paesi occidentali si siano comunque recati in Venezuela, ed abbiano potuto constatare come il sistema di voto utilizzato nel Paese sudamericano sia tra i migliori al mondo, potendo contare sia sul tradizionale voto con carta e matita che sul voto elettronico. Tra i presenti c’erano anche José Luis Rodríguez Zapatero, ex primo ministro socialista della Spagna, ed il sindacalista bolognese Giorgio Cremaschi, che hanno promosso la validità e la democraticità delle elezioni. Il processo elettorale venezuelano, oltretutto, è stato in passato elogiato anche dall’ex presidente statunitense Jimmy Carter, che nel 2012 scrisse: “In base alle 92 elezioni che ho monitorato, posso affermare che il processo elettorale del Venezuela è il migliore al mondo“.
IL VENEZUELA SOTTO ASSEDIO
Tornando sempre alla versione propinata dai mass media borghesi nostrani, ci viene raccontato che l’illegittimità del governo di Maduro sarebbe da ricercare nella grave crisi economica che ha innegabilmente colpito il Paese, e che per ora non è stata arrestata dalle misure economiche prese dal governo in carica, come l’introduzione di una nuova criptomoneta, il Petro. Costoro, però, si dimenticano di menzionare i gravi attacchi ai quali è stato sottoposto il Venezuela negli ultimi anni. Per capire la tattica utilizzata per attaccare il Venezuela, vale la pena di sposare l’analisi di Ignacio Ramonet, giornalista spagnolo già direttore del periodico francese Le Monde diplomatique dal 1991 al 2008. In un articolo apparso sul sito Venezuela Infos, Ramonet spiega che il Venezuela si trova oggi sotto attacco su ben quattro fronti, in un assalto senza precedenti nella storia:
1) l’insurrezione interna, culminata proprio in questi giorni con il tentativo di golpe, che però trova le sue radici organizzative al di fuori dei confini venezuelani e che spesso vede l’uso di mercenari;
2) la guerra mediatica attraverso una propaganda mirata, che grazie ai mezzi di comunicazione moderni è la più vasta mai messa in piedi contro uno Stato sovrano;
3) la guerra diplomatica, attraverso le organizzazioni internazionali fedeli agli Stati Uniti d’America, come l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), già utilizzata in passato per delegittimare Cuba, o il “Gruppo di Lima”, composto dai governi sudamericani allineati a Washington;
4) la guerra economica e finanziaria, che si esplica attraverso la carenza artificiale e sistematica di cibo e medicine per la popolazione venezuelana, la manipolazione del tasso di cambio, l’inflazione indotta ed un pesante blocco bancario ai danni del Paese, cercando di addossare la colpa del tutto al governo di Maduro.
Proprio quest’ultima modalità di assalto è quella che grava maggiormente sui venezuelani, ed infatti è quella sulla quale Donald Trump ha puntato maggiormente, rincarando la dose con le sanzioni ufficiali e sperando di gettare il popolo nella disperazione a tal punto da insorgere contro il governo, ma senza riuscirvi. La tattica messa in atto da Trump non ha nulla di nuovo, ma fu già spiegata da Lawrence Eagleburger, ex Segretario di Stato di George W. Bush, che pianificò un attacco contro il Venezuela di Hugo Chávez. In un’intervista a Fox News, Eagleburger dichiarò: “Dobbiamo usare gli strumenti economici per far peggiorare l’economia venezuelana in modo che l’influenza di Chávez nel Paese e nella regione diminuisca. Tutto ciò che può essere fatto per far sprofondare l’economia venezuelana in una situazione difficile, è ben fatto”.
Naturalmente, ai tempi di Chávez il piano non ebbe successo, in quanto il Venezuela era sostenuto dall’elevato prezzo del petrolio sul mercato internazionale, ma si è invece rivelato effettivo quando il prezzo del barile ha raggiunto i suoi minimi in tempi recenti, considerazione che – ancora una volta – ci porta a sottolineare come la sopravvivenza della rivoluzione bolivariana passi per la capacità del governo di differenziare l’economia e le fonti d’entrata del Paese, fino ad oggi eccessivamente condizionate dal valore del greggio sul mercato. Chávez, inoltre, poteva contare su un assetto geopolitico favorevole nel continente, quando in tutto il Sud America imperversavano governi progressisti, ad eccezione della solita Colombia e dell’ambiguo Perù.
I VERI ERRORI DEL GOVERNO BOLIVARIANO
Detto questo, non possiamo negare alcuni gravi errori commessi dai leader bolivariani negli ultimi vent’anni, che hanno contribuito a rendere possibile lo scenario attuale. Era infatti il 1999 quando Hugo Chávez veniva eletto per la prima volta come presidente del Venezuela, ponendo fine ad una lunga successione di capi di stato di centro-destra, quasi sempre genuflessi agli interessi statunitensi. Le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare la neonata Repubblica Bolivariana furono chiare sin dai primi tempi, tant’è che già nel 2002 fu messo in piedi un primo colpo di stato contro il neopresidente, durato però solamente due giorni in seguito ad una sollevazione popolare senza precedenti. Dopo quasi venti anni dall’inizio della Rivoluzione Bolivariana, il Venezuela, oramai nelle mani di Nicolás Maduro, deve affrontare ancora gli stessi problemi e gli stessi nemici, ovvero l’élite borghese nazionale sostenuta naturalmente dagli Stati Uniti, che non possono lasciarsi scappare l’opportunità per cercare di tornare a controllare il più grande produttore di petrolio del continente americano ed il Paese che detiene le maggiori riserve di “oro nero” al mondo.
Gli errori commessi da Chávez e da Maduro non sono certamente quelli messi in evidenza dai loro oppositori, ovvero quelli che possiamo ascoltare e leggere quotidianamente sui mass media nazionali ed internazionali. Occorre infatti formulare una critica da sinistra, e non da destra, per evidenziare le vere falle della Rivoluzione Bolivariana.
Innanzi tutto, possiamo affermare che quella venezuelana sia stata una rivoluzione a metà: in un ventennio di governo, i governi bolivariani hanno sicuramente arginato il ruolo della grande borghesia nazionale, senza tuttavia eradicarla del tutto. Per un processo che si autodefinisce rivoluzionario e di ispirazione socialista, si tratta di una mancanza non da poco. Cosa intendiamo per eradicazione della grande borghesia? Non si tratta, naturalmente, di eliminare fisicamente i rappresentanti della classe elitaria, bensì di privarla delle caratteristiche che la rendono tale: i grandi capitali e le grandi proprietà, ovvero abolire marxianamente la proprietà privata dei mezzi di produzione. Se si esclude il settore petrolifero – del quale torneremo a parlare in seguito – le nazionalizzazioni non sono state sufficienti a sconfiggere definitivamente la classe dominante, che ha atteso sorniona il momento più opportuno per tornare alla riscossa.
Lasciare all’alta borghesia i grandi capitali e le grandi proprietà significa soprattutto lasciarle i mezzi per combattere il processo rivoluzionario in atto in Venezuela. Pensiamo soprattutto ai mass media, che – al di là della propaganda antibolivariana, che vorrebbe i mezzi di comunicazione tutti in mano al governo – sono in realtà rimasti in gran numero proprietà di enti privati, quasi tutti nelle mani di quegli stessi rappresentanti della classe dominante che hanno tutto l’interesse ad abbattere l’attuale governo.
Altro settore strategico, quello agricolo è rimasto largamente in mano ai grandi proprietari terrieri, fatta eccezione per qualche timida espropriazione nei casi in cui la proprietà della terra era effettivamente dubbia. Una vera riforma redistributiva delle terre coltivabili avrebbe certamente assestato un colpo molto duro alla borghesia venezuelana ed agli interessi stranieri del Paese, essendo molte terre di proprietà di multinazionali statunitensi, oltre a rappresentare un ottimo mezzo per redistribuire la ricchezza in favore delle classi più povere. E, naturalmente, resta ancora da nazionalizzare la grande maggioranza del delicatissimo settore bancario.
Passiamo ora alla politica estera. In quest’ambito, il Venezuela si è certamente prodigato nella formazione di un fronte anti-statunitense all’interno del continente americano, notoriamente con la fondazione dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ufficialmente ALBA – TCP, Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos), ma allo stesso tempo non ha contrastato in pieno l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), un vero e proprio comitato d’affari degli Stati Uniti. Minacciando in maniera credibile un’uscita dall’Organizzazione insieme agli altri Paesi progressisti del continente, se non abbandonando del tutto l’OSA, della quale sia Chávez che Maduro hanno più volte denunciato la vera funzione, senza tuttavia fare molto per modificare la situazione, il Venezuela avrebbe dato certamente un segnale di grande rottura.
Se, da un lato, la riammissione di Cuba nell’OSA, avvenuta nel 2009, ha rappresentato una vittoria anche del Venezuela, uno dei Paesi che si sono prodigati maggiormente per cancellare quell’assurdità durata dal 1962 al 2009, le relazioni con l’Organizzazione sovranazionale sono state a nostro avviso poco incisive, limitandosi a denunce isolate senza mettere davvero a repentaglio il dominio egemonico statunitense al suo interno.
Infine, dobbiamo giungere alla nota più dolente di tutte, quella del petrolio. L’oro nero rappresenta sicuramente una risorsa strategica che tutti vorrebbero avere nel proprio sottosuolo, ed il Venezuela ne possiede in abbondanza. Si calcola che i due terzi dei giacimenti trovati fino ad ora in sudamericani si trovino infatti proprio in questo Paese, e che le riserve esistenti siano addirittura superiori a quelle dell’Arabia Saudita. Se, da un lato, il petrolio può rappresentare un’arma, dall’altro è anche una debolezza: in primo luogo, lo è perché rende il Paese un obiettivo nel mirino delle aspirazioni imperialistiche delle multinazionali statunitensi, fatto messo in evidenza da molti analisti, compreso l’ex “sicario dell’economia” John Perkins, ma anche perché rende l’economia nazionale fortemente vulnerabile e dipendente da un unico settore, a meno che non venga messo in opera un vero piano di diversificazione eocnomica.
Come abbiamo detto in precedenza, Hugo Chávez ha fortemente puntato su questa risorsa, nazionalizzando il settore e facendone il fiore all’occhiello della Repubblica Bolivariana. Tuttavia, le imprevedibili oscillazioni del prezzo del barile hanno reso l’economia venezuelana fortemente vulnerabile, in assenza di altri settori capaci di sopperire ad un’eventuale crollo del prezzo del barile. Un palazzo costruito su una sola colonna, insomma, con uno sviluppo troppo lento degli altri settori economici (agricoltura, turismo ed industria non petrolifera). Finché il prezzo del barile galoppava, il Venezuela ha potuto effettuare forti investimenti nello stato sociale, ottenendo grandi miglioramenti in molti indicatori macroeconomici (pensiamo soprattutto al crollo della diseguaglianza, misurata con l’indice di Gini, o al tasso di povertà passato dal 49.4% nel 1999 al 23.9% nel 2012). Il crollo del prezzo del barile e la contemporanea crisi politica interna hanno dunque rappresentato il momento più opportuno per sferrare l’attacco alla Rivoluzione Bolivariana.
Nel caso in cui dovesse riuscire a superare questo momento di difficoltà, crediamo che Nicolás Maduro debba procedere ad una differenziazione delle fonti delle entrate dello Stato, constatazione che oramai stanno facendo anche tutti gli altri grandi produttori di idrocarburi che hanno a lungo vissuto di rendita sui proventi del petrolio e del gas naturale.
CONCLUSIONE: PERCHÉ DIFENDERE IL VENEZUELA BOLIVARIANO
Come abbiamo affermato nel paragrafo precedente, non possiamo astenerci dal sottolineare che quella venezuelana resta oggi una rivoluzione a metà. Nonostante la nazionalizzazione del settore petrolifero e le politiche di redistribuzione della ricchezza verso le classi meno abbienti, il Venezuela resta un Paese ampiamente immerso nel capitalismo, e dunque subisce le conseguenze delle contraddizioni di questo sistema economico. Oscillazione dei prezzi delle materie prime e cicliche crisi economiche sono elementi fondamentali del sistema capitalista, ed il Venezuela non fa eccezione. In questo modo, il Paese sudamericano si è esposto alla situazione attuale di attacco da parte della grande borghesia nazionale e delle multinazionali statunitensi: le politiche di Chávez e Maduro si sono infatti rivelate insufficienti per dare realmente vita ad un sistema economico alternativo, ma abbastanza incisive per andare a ledere gli interessi di cui sopra, scatenando dunque le ire dei suoi nemici.
Nonostante gli errori e le mancanze della Rivoluzione Bolivariana, riteniamo comunque necessario difendere strenuamente il governo di Maduro, e questo per svariate ragioni. Innanzi tutto, non va dimenticato che il presidente del PSUV è stato democraticamente eletto dal suo popolo. Inoltre, la presenza di un Venezuela non allineato all’imperialismo statunitense risulta fondamentale per contrastare l’egemonia dei Washington nella regione latinoamericana. Infine, la destituzione di Maduro e l’imposizione di un governo della destra neoliberista non risolverebbe certamente la crisi economica ed i problemi del popolo venezuelano, ma li acuirebbe, provocando certamente un aumento massiccio della sperequazione.
Riteniamo necessario, per il prosieguo dell’esperienza rivoluzionaria in Venezuela, il respingimento di ogni attacco politico interno ed esterno, oltre che – naturalmente – di un eventuale intervento militare da parte di potenze straniere. Inoltre, sosteniamo l’attuazione di una serie di ulteriori riforme che portino il Paese da un sistema economico di libero mercato ad uno di economia socialista, o quantomeno non liberista: la nazionalizzazione degli altri settori strategici (agricoltura, banche, telecomunicazioni) e la differenziazione delle entrate dello Stato attraverso lo sviluppo degli altri settori economici (agricoltura, turismo, industria non petrolifera) sono gli strumenti fondamentali per la sopravvivenza della Rivoluzione Bolivariana, così come la necessità di formare un fronte internazionale più compatto che si opponga al ruolo egemonico della potenza statunitense nel continente, con l’auspicabile sostegno di Russia e Cina.
BIBLIOGRAFIA
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CICCARIELLO, G. (2013), We Created Chávez: A People’s History of the Venezuelan Revolution
GALLEGOS, R. (2016), Crude Nation: How Oil Riches Ruined Venezuela
GOLINGER, E. (2005), The Chávez Code: Cracking US Intervention in Venezuela
PERKINS, J. (2004), Confessions of an Economic Hit Man