Lunedì 26 giugno, i cittadini della Mongolia sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente della repubblica, che si insedierà alla fine del secondo mandato dell’attuale capo di stato, Tsakhiagiin Elbegdorj. Per la prima volta nella storia del Paese asiatico, però, sarà necessario un secondo turno per eleggere il presidente, e dunque i mongoli saranno nuovamente chiamati ad esprimersi il prossimo 9 luglio. In questa prima consultazione elettorale, l’affluenza alle urne registrata è stata del 68.27%, con 1.3 milioni di votanti sui quasi due milioni di aventi diritto.
SISTEMA ELETTORALE E CANDIDATI
Il sistema elettorale utilizzato per le presidenziali mongole è quello del doppio turno, generalmente noto in Europa come “modello francese”. Per essere eletti bisogna infatti superare la soglia del 50% al primo turno, mentre in caso contrario si procede ad un ballottaggio tra i due candidati più votati. Fino alle elezioni del 2009, tuttavia, il ballottaggio era di fatto inutile visto che i candidati partecipanti alle presidenziali erano stati solamente due. Già nel 2013, invece, si ebbe una tornata elettorale con tre candidati, ma in quel caso il presidente in carica Tsakhiagiin Elbegdorj riuscì a raggiungere il 50.23% dei consensi, venendo eletto ancora una volta al primo turno.
Questa volta, la competizione elettorale si annunciava ben più combattuta. Con Elbegdorj impossibilitato a chiedere un nuovo mandato presidenziale, il quadro dei candidati era così composto:
– Khaltmaa Battulga, cinquantaquattrenne del Partito Democratico (Ardchilsan Nam), la principale formazione del centro-destra mongolo, ex parlamentare e presidente della federazione nazionale di judo, erede designato del presidente uscente;
– Miyeegombyn Enkhbold, cinquantaduenne del Partito Popolare Mongolo (Mongol Ardiin Nam), già primo ministro del Paese tra il 2006 ed il 2007;
– Sainkhuugiin Ganbaatar, quarantaseienne del Partito Popolare Rivoluzionario Mongolo (Mongol Ardiin Khuvsgalt Nam), nato nel 2011 da una scissione del Partito Popolare Mongolo, anche lui ex parlamentare.
RISULTATI E PROSPETTIVE PER IL SECONDO TURNO
Forte dell’investitura da parte del presidente uscente, Battulga è uscito vincitore dal primo turno con il 38.64% delle preferenze. Alle sue spalle, c’è stata una grande battaglia per ottenere il secondo posto ed andare così al ballottaggio, una sfida che si è risolta per meno di duemila voti di differenza in favore di Enkhbold, che ha ottenuto il 30.75% dei suffragi contro il 30.61% di Ganbaatar (o, se preferite, 411.748 voti contro 409.899).
Come pronosticato, dunque, Battulga ha chiuso il primo turno al comando, ma con una percentuale probabilmente inferiore alle attese. Non è infatti da escludere che al secondo turno le due forze di centro-sinistra decidano di coalizzarsi, essendo oltretutto fortemente imparentate per via della loro storia recente, ed in questo caso sarebbero forti le possibilità di vedere Enkhbold diventare il nuovo presidente della repubblica.
L’analisi del voto, infine, ci mostra come Battulga abbia vinto solamente nelle aree più popolate e ricche della Mongolia, come la capitale Ulaanbaatar, o presso i cittadini residenti all’estero, mentre la maggioranza del Paese, quello delle aree rurali, numerose ma poco popolate, ha votato in maniera alternata nei confronti degli altri due candidati.
IL CONTESTO DELLE ELEZIONI: CORRUZIONE E CRISI ECONOMICA
Sebbene in Mongolia il presidente abbia un ruolo importante, compreso quello di mettere il proprio veto su qualsiasi iniziativa legislativa, la forma di governo vigente nel Paese è quella della repubblica parlamentare. L’ultimo anno, in particolare, è stato caratterizzato da un governo guidato dal Partito Popolare, con Jargaltulga Erdenebat nel ruolo di primo ministro, subentrato dopo la caduta del governo del democratico di Chimediin Saikhanbileg. La situazione politica è dunque risultata molto delicata, vista l’appartenenza partitica opposta tra il primo ministro ed il presidente della repubblica.
Il Paese è stato sottoposto a forti misure di austerità nel tentativo di contenere il debito pubblico e la svalutazione della moneta locale, il tugrik, nonché di ottenere un prestito di 5.5 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale. Proprio la crisi economica che imperversa nel Paese ha rappresentato uno dei maggiori argomenti di dibattito nel corso della campagna elettorale per le presidenziali.
Non va inoltre dimenticato che solamente negli ultimi anni la Mongolia ha intrapreso un processo di democratizzazione in senso occidentale, ovvero una transizione dal modello socialista a partito unico ereditato dall’epoca in cui la Mongolia era un satellite dell’Unione Sovietica verso un sistema multipartitico. Molto spesso, agli occhi occidentali un processo di democratizzazione sembra una cosa positiva in assoluto. In realtà, la storia di molti Paesi ci ha insegnato non è necessariamente così, ma per saperlo bisogna immergersi nei sistemi politici locali, non giudicare dall’esterno da un punto di vista “occidentalocentrico” che non riflette per nulla la situazione di stati lontani migliaia di chilometri. In un Paese come la Mongolia, ricchissimo di risorse naturali nel proprio sottosuolo ma povero dal punto di vista dei mezzi economici, la democratizzazione può portare non pochi problemi.
Il processo di democratizzazione, unito alla necessità di gestire le risorse naturali mongole, hanno infatti portato ad una crescita esponenziale della corruzione nel mondo politico, come riconosciuto da tutti gli osservatori internazionali. Molti uomini politici dei diversi partiti si stanno spartendo la torta dei benefici derivanti dall’esportazione di oro, rame, uranio, carbone, zinco ed etano, soprattutto verso la Cina, principale partner economico della Mongolia. Solo un piccolo gruppo di rappresentanti politici hanno avuto il coraggio di denunciare questo scempio, che sta sottraendo preziose risorse ad una popolazione sottoposta ad una forte inflazione dovuta all’apertura sempre più rapida del Paese all’economia di mercato.
Secondo le stime effettuate negli ultimi anni, la Mongolia sarebbe in possesso di 1.000 miliardi di dollari di risorse non ancora sfruttate, tra cui spicca il più grande deposito mondiale di carbone ancora intatto ed una delle più grandi riserve di oro, tutte risorse che hanno iniziato ad essere sfruttate solamente di recente e che dunque avranno ancora lunga vita. Grazie a questi giacimenti naturali, la Mongolia è stata protagonista di una crescita economica spettacolare nel corso dell’inizio del secolo, tanto da essere il Paese con la crescita più grande nel 2011 e nel 2012. Il problema che si è posto, però, è stato quello della distribuzione di queste ricchezze. Una distribuzione che prima era quantomeno parzialmente garantita dal sistema socialista, seppur con tutte le sue contraddizioni, e che ora invece è preda della corruzione e della sperequazione.
In occidente molti hanno citato la Mongolia come un caso esemplare, in quanto capace di una transizione pacifica dalla Repubblica Popolare alla democrazia o, come ha affermato Hillary Clinton nel luglio 2012, “da una dittatura comunista a partito unico verso un sistema politico pluralista e democratico”. Ma questa è solo una operazione di facciata che farà contenti gli Stati Uniti e l’Europa, non di certo la popolazione che si sta vedendo depredata delle risorse che ha sotto i piedi dalle leggi del mercato.
Nonostante l’introduzione di una legge contro il conflitto di interessi nel 2013 e le promesse di risoluzione della crisi economica, la corruzione, le diseguaglianze, l’inflazione e la svalutazione della moneta continuano a farla da padrone in Mongolia, come avvenuto in molti altri Paesi che sono passati in modo repentino e senza preparazione al multipartitismo ed all’economia di mercato, le cui contraddizioni sono evidentemente ancora più flagranti rispetto a quelle del sistema vigente in precedenza.