Era il 1999 quando Hugo Chávez veniva eletto per la prima volta come presidente del Venezuela, ponendo fine ad una lunga successione di capi di stato di centro-destra, quasi sempre genuflessi agli interessi statunitensi. Le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare la neonata Repubblica Bolivariana furono chiare sin dai primi tempi, tant’è che già nel 2002 fu messo in piedi un primo colpo di stato contro il neopresidente, durato però solamente due giorni in seguito ad una sollevazione popolare senza precedenti. Dopo diciotto anni dall’inizio della Rivoluzione Bolivariana, il Venezuela, oramai nelle mani di Nicolás Maduro, deve affrontare ancora gli stessi problemi e gli stessi nemici, ovvero l’élite borghese nazionale sostenuta naturalmente dagli Stati Uniti, che non possono lasciarsi scappare l’opportunità per cercare di tornare a controllare il più grande produttore di petrolio del continente americano.
Al di là di quelle che sono le considerazioni – spesso di propaganda antibolivariana – che possiamo quotidianamente leggere ed ascoltare sulla maggioranza dei mass media, proviamo a tracciare un bilancio di questi diciotto anni di governi Chávez-Maduro, evidenziando quali sono gli errori che hanno portato alla crisi attuale.
LASCIARE IN VITA LA GRANDE BORGHESIA NAZIONALE
Una rivoluzione a metà: in diciotto anni, quella bolivariana ha sicuramente arginato il ruolo della grande borghesia nazionale, senza tuttavia eradicarla del tutto. Per un processo che si autodefinisce rivoluzionario e di ispirazione socialista, si tratta di una mancanza non da poco. Cosa intendiamo per eradicazione della grande borghesia? Non si tratta, naturalmente, di eliminare fisicamente i rappresentanti della classe elitaria, bensì di privarla delle caratteristiche che la rendono tale: i grandi capitali e le grandi proprietà. Se si esclude il settore petrolifero – del quale torneremo a parlare in seguito – le nazionalizzazioni non sono state sufficienti a sconfiggere definitivamente la classe dominante, che ha atteso sorniona il momento più opportuno per tornare alla riscossa.
Lasciare all’alta borghesia i grandi capitali e le grandi proprietà significa soprattutto lasciarle i mezzi per combattere il processo rivoluzionario in atto in Venezuela. Pensiamo soprattutto ai mass media, che – al di là della propaganda antibolivariana, che vorrebbe i mezzi di comunicazione tutti in mano al governo – sono in realtà rimasti in gran numero proprietà di enti privati, quasi tutti nelle mani di quegli stessi rappresentanti della classe dominante che hanno tutto l’interesse ad abbattere l’attuale governo.
Altro settore strategico, quello agricolo è rimasto largamente in mano ai grandi proprietari terrieri, fatta eccezione per qualche timida espropriazione nei casi in cui la proprietà della terra era effettivamente dubbia. Una vera riforma redistributiva delle terre coltivabili avrebbe certamente assestato un colpo molto duro alla borghesia venezuelana ed agli interessi stranieri del Paese, essendo molte terre di proprietà di multinazionali statunitensi, oltre a rappresentare un ottimo mezzo per redistribuire la ricchezza in favore delle classi più povere. E, naturalmente, resta ancora da nazionalizzare la grande maggioranza del delicatissimo settore bancario.
IL RAPPORTO CON L’OSA
Il Venezuela si è certamente prodigato nella formazione di un fronte anti-statunitense all’interno del continente americano, notoriamente con la fondazione dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ufficialmente ALBA – TCP, Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos), ma allo stesso tempo non ha contrastato in pieno l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), un vero e proprio comitato d’affari degli Stati Uniti. Minacciando in maniera credibile un’uscita dall’Organizzazione insieme agli altri Paesi progressisti del continente, se non abbandonando del tutto l’OSA, il Venezuela avrebbe dato certamente un segnale di grande rottura, della quale sia Chávez che Maduro hanno più volte denunciato la vera funzione, senza tuttavia fare molto per modificare la situazione.
Se, da un lato, la riammissione di Cuba nell’Osa, avvenuta nel 2009, ha rappresentato una vittoria anche del Venezuela, uno dei Paesi che si sono prodigati maggiormente per cancellare quell’assurdità durata dal 1962 al 2009, le relazioni con l’Organizzazione sovranazionale sono state a nostro avviso poco incisive, limitandosi a denunce isolate senza mettere davvero a repentaglio il dominio egemonico statunitense al suo interno.
PUNTARE TUTTO SUL PETROLIO
E veniamo alla nota più dolente di tutte, quella del petrolio. L’oro nero rappresenta sicuramente una risorsa strategica che tutti vorrebbero avere nel proprio sottosuolo, ed il Venezuela ne possiede in abbondanza. Si calcola che i due terzi dei giacimenti trovati fino ad ora in sudamericani si trovino infatti proprio in questo Paese, e che le riserve esistenti siano addirittura superiori a quelle dell’Arabia Saudita. Se, da un lato, il petrolio può rappresentare un’arma, dall’altro è anche una debolezza: in primo luogo, lo è perché rende il Paese un obiettivo nel mirino delle aspirazioni imperialistiche delle multinazionali statunitensi, fatto messo in evidenza da molti analisti, compreso John Perkins, ma anche perché rende l’economia nazionale fortemente vulnerabile.
Come abbiamo detto in precedenza, Hugo Chávez ha fortemente puntato su questa risorsa, nazionalizzando il settore e facendone il fiore all’occhiello della Repubblica Bolivariana. Tuttavia, le imprevedibili oscillazioni del prezzo del barile hanno reso l’economia venezuelana fortemente vulnerabile, in assenza di altri settori capaci di reggere il confronto. Un palazzo costruito su una sola colonna, insomma, con uno sviluppo troppo lento degli altri settori economici (agricoltura, turismo ed industria non petrolifera). Finché il prezzo del barile galoppava, il Venezuela ha potuto effettuare forti investimenti nello stato sociale, ottenendo grandi miglioramenti in molti indicatori macroeconomici (pensiamo soprattutto al crollo della diseguaglianza, misurata con l’indice di Gini, o al tasso di povertà passato dal 49.4% nel 1999 al 23.9% nel 2012). Il crollo del prezzo del barile e la contemporanea crisi politica interna hanno dunque rappresentato il momento più opportuno per sferrare l’attacco alla Rivoluzione Bolivariana.
Nel caso in cui dovesse riuscire a superare questo momento di difficoltà, crediamo che Nicolás Maduro debba procedere ad una differenziazione delle fonti delle entrate dello Stato, constatazione che oramai stanno facendo anche tutti gli altri grandi produttori di idrocarburi che hanno a lungo vissuto di rendita sui proventi del petrolio e del gas naturale.
IL PASSAGGIO DI CONSEGNE DA CHÁVEZ A MADURO
La morte di Hugo Chávez è stato sicuramente un evento capovolgente per l’avventura della Rivoluzione Bolivariana in Venezuela. Naturalmente contro la malattia del leader storico poco avrebbe potuto fare il governo venezuelano, ma riteniamo che l’errore sia stato fatto in precedenza, ovvero quello di puntare fin troppo sul carisma e sulla figura di Chávez. Le modifiche alla costituzione, seppur appoggiate dal popolo, lo hanno portato a governare così a lungo che oramai, per i cittadini venezuelani, la Rivoluzione era Chávez e Chávez era la Rivoluzione.
L’improvvisa morte del leader ha aperto una difficile fase di transizione, che ha portato ad una difficile prova elettorale per Nicolás Maduro. Quest’ultimo si è dimostrato certamente fedele alla linea del suo predecessore, ma non ha dalla sua il carisma dello stesso Chávez, e non è mai riuscito a far innamorare il popolo venezuelano. Finché il suo fondatore era in vita, la Rivoluzione Bolivariana non è mai stata messa in dubbio, anche nei momenti più difficili come il colpo di stato del 2002, ma il momento della successione ha rappresentato terreno fertile per coloro che non vedevano l’ora di attaccare il governo venezuelano, sia dall’interno che da Washington.
CONCLUSIONE: IL VENEZUELA RESTA UN PAESE CAPITALISTA
Concludiamo come avevamo iniziato: la Rivoluzione Bolivariana è, ad oggi, una rivoluzione a metà. Nonostante la nazionalizzazione del settore petrolifero e le politiche di redistribuzione della ricchezza verso le classi meno abbienti, il Venezuela resta un Paese ampiamente immerso nel capitalismo, e dunque subisce le conseguenze delle contraddizioni di questo sistema economico. Oscillazione dei prezzi delle materie prime e cicliche crisi economiche sono elementi fondamentali del sistema capitalista, ed il Venezuela non fa eccezione. In questo modo, il Paese sudamericano si è esposto alla situazione attuale di attacco da parte della grande borghesia nazionale e delle multinazionali statunitensi: le politiche di Chávez e Maduro si sono infatti rivelate insufficienti per dare realmente vita ad un sistema economico alternativo, ma abbastanza incisive per andare a ledere gli interessi di cui sopra.
Riteniamo necessario, per il prosieguo dell’esperienza rivoluzionaria in Venezuela, l’attuazione di una serie di ulteriori riforme che portino il Paese da un sistema economico di libero mercato ad uno di economia socialista, o quantomeno non liberista: la nazionalizzazione degli altri settori strategici (agricoltura, banche, telecomunicazioni) e la differenziazione delle entrate dello Stato attraverso lo sviluppo degli altri settori economici (agricoltura, turismo, industria non petrolifera) sono gli strumenti fondamentali per la sopravvivenza della Rivoluzione Bolivariana, così come la necessità di formare un fronte più compatto che si opponga al ruolo egemonico della potenza statunitense nel continente.
BIBLIOGRAFIA
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