Completata con successo la liberazione di Mosul, rimane ancora in mano di DAESH l’altro grande caposaldo di Raqqa, nella Siria nord-orientale. Qui, come nel resto del paese, è stato essenziale l’apporto dei combattenti curdi del YPG (Unità di Protezione Popolare), ala militare del PYD (Partito dell’Unione Democratica), la forza politica al comando del Rojava, il cantone curdo creatosi in Siria dopo l’inizio della guerra civile.
Mentre fino a poco tempo fa l’aiuto USA ai curdi si limitava ad interventi aerei (il caso più eclatante è stata la liberazione di Kobane), recentemente la YPG ha ottenuto un sostanziale aiuto militare, in termini di armi e munizioni, da parte degli USA e questo ha inevitabilmente scatenato l’irritazione della Turchia di Erdogan, notoriamnete acerrimo nemico dei curdi e soprattutto del Rojava, che continua tuttora ad attaccarli in Siria. L’ultimo attacco è avvenuto ad Afrin, a nord di Aleppo, non lontano dal confine turco. La grande domanda è cosa avverrà di questa sempre più solida alleanza, in realtà più militare che politica, tra gli USA di Trump e i curdi del Rojava dopo l’eventuale sconfitta dello stato islamico.
Questo perché, al di là del valore bellico nel far fronte a DAESH, i curdi del Rojava sono al centro di un grande esperimento politico-sociale che certamente fa a pugni con la visione del mondo di Trump, e non solo. Si parla infatti di una forma di democrazia dal basso ispirata al confederalismo democratico teorizzato dallo storico leader curdo Ocalan, su ispirazione del socialismo libertario e del filosofo anarchico statunitense Murray Bookchin. Esperimento-sfida che non ha equivalenti nel mondo. Questo si aggiunge il fatto che la Turchia di Erdogan rimane pur sempre parte della NATO e gli USA non possono esagerare, nel lungo termine, a scontentarla.
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Secondo Thomas Jeffrey Miles, sociologo e storico americano presso l’Università di Cambridge e reduce da un viaggio in Rojava, “in giro per il mondo si sa contro chi i curdi del Rojava lottano, ma si sa molto di meno per cosa lottano”.
L’INTERVISTA:
La fornitura ufficiale di armi USA al YPG è accompagnata da una clausola: se ne richiede la restituzione una volta che Raqqa verrà liberata. Questo non è già un segnale?
In realtà agli Stati Uniti, o perlomeno all’attuale amministrazione, non interessa più di tanto l’auto-determinazione dei popoli nel Medio Oriente. D’altra parte cosa può fare il YPG e il popolo del Rojava se non accettare questo aiuto? In questo momento, sia per loro che per gli USA, la priorità è sconfiggere, almeno sul terreno, DAESH.
La decisione di aiutare ufficialmente i curdi da parte di Trump sembra partire da considerazioni puramente pragmatiche.
Certamente, e a questo bisogna aggiungere il fatto che Trump è tipicamente piuttosto ignorante sul Rojava e sul suo significato più profondo.
Al tempo stesso la Russia, nonostante il suo appoggio ad Assad, ha mostrato un coerente appoggio al Rojava?
Sì, finora la Russia si è dimostrata piuttosto disponibile verso il Rojava e ha trovato un punto in comune con gli USA: bloccare l’offensiva turca contro i curdi in Siria.
Il Rojava avrà senz’altro bisogno di un appoggio più generalizzato nel lungo termine.
Sì, si tratterà di assicurarsi un appoggio diplomatico al di là della Russia e qui mi riferisco, per esempio, all’Unione Europea e magari anche la Cina.
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Qual è il rapporto tra il cantone del Rojava e il governo centrale di Damasco? Si può parlare di un qualche miglioramento?
Fondamentalmente, si tratta di una forma di detente. Dopo la nascita ufficiale del cantone nel 2012, a parte qualche scaramuccia, non c’è stato un vero scontro, semplicemente perché le forze governative si sono ritirate dai territori sotto controllo curdo. Poi c’è stata l’avanzata di DAESH, comune nemico dei curdi e di Assad.
D’altra parte il Rojava non ha mai chiesto una secessione dallo stato siriano…
Certo, e quindi, teoricamente, a meno che si ristabilisca uno stato siriano centralizzato, ci si potrebbe tranquillamente muovere verso una soluzione federativa.
Rimane comunque l’unicità del modello Rojava, un’unicità che non pochi sembrano trascurare.
L’unicità del modello Rojava, è che esprime un anelito all’indipendenza e al tempo stesso rappresenta una forma di democrazia contro lo stato tradizionale.
Come si esprime, operativamente, questa anti-statalità?
Principalmente attraverso le assemblee popolari e le milizie popolari. Questo modello è unico tra i movimenti indipendentisti, che di solito si muovono in direzione opposta, ossia verso forme di centralismo statale. E rappresenta anche un’evoluzione dell’ideologia del PKK, espressa almeno attraverso l’ispirazione di Ocalan.
Non è ironico che il PKK sia considerato, a livello internazionale, un movimento terrorista?
Sì, è una grossa ironia: il movimento per l’autonomia curda è considerato terrorista dagli USA a nord del confine turco, mentre non lo è a sud di questo confine. Gli americani in realtà non capiscono che dietro la forza militare dei curdi in Siria c’è anche la loro ideologia di tipo socialista.
Ora, nella sua esperienza sul terreno, avendo lei visitato il Rojava, questo esperimento di democrazia funziona?
Visitai il Rojava nel 2014, ai tempi della liberazione di Kobane e quello che ho visto è ammirevole: la volontà di lottare, di sacrificarsi, insieme alla chiara impronta democratica delle assemblee popolari. Al tempo bisogna specificare due cose.
Quali?
Innanzitutto non sono andato come ricercatore autonomo, ma come ospite di una delegazione internazionale ospite del PYD (Partito dell’Unione Democratica), quindi ho visto quello che hanno voluto farmi vedere.
E poi?
Al di là delle ideologie, la situazione, a livello economico, era, ed è tuttora, piuttosto critica, soprattutto a causa dell’embargo imposto sia dalla Turchia che dal Kurdistan iracheno, notoriamente vicino alle posizioni turco.
Situazione critica in che senso?
Uno stato di scarsità, a cominciare da cose basilari come i medicinali.
Ma c’è un’altra questione che è stata sollevata contro il YPG: quella dei diritti umani, a volte non rispettati.
Beh, questa è un’area grigia e per fare un po’ di chiarezza bisogna capire che da un lato non tutti i curdi in Siria abbracciano l’ideologia propugnata da Ocalan e quindi possono esserci stati episodi di discriminazione. Non dimentichiamo che le assemblee popolari sono organizzate dal PYD. E poi c’è una questione puramente etnica.
Cioè?
Certe aree sono a maggioranza araba e non curda e di fronte al monopolio del potere delle milizie del YPD, nato dal semplice fatto che erano le più preparate contro l’offensiva dell’ISIS, molti arabi sono fuggiti.
Ci sono state anche delle espropriazioni di proprietà arabe per “restituirle” ai curdi…
Ci sono state sì, ma, di nuovo, bisogna ricordare che molti arabi le hanno abbandonate fuggendo dal Rojava.
Nel Rojava si dà anche grande importanza all’educazione.
Sì e l’ho visto coi miei occhi. Attraverso una sistematica creazione di tutta una serie di accademie, si cerca di elevare il più possibile il livello della consapevolezza, in particolare quella delle donne. E questa è, tra l’altro, una delle particolarità del Rojava: lo status di assoluta parità che viene dato alle donne. Il sistema educativo in generale è ispirato dalla “Pedagogia degli oppressi”, lo storico testo del brasiliano Paulo Freire della fine degli anni ’60.