Requiem per Alina Boulai e altre poesie sulla schiavitù sessuale. Presento in questa pubblicazione alcune poesie sulla condizione tragica delle donne ridotte in schiavitù sessuale e costrette alla prostituzione. I numeri sono spaventosi e ancora più spaventosi sono i numeri dei carnefici, ovvero di chi, semplicemente aprendo un portafoglio, compra un essere umano, il suo corpo. In Italia si stima che almeno 10 milioni di uomini facciano questo commercio. Ho sentito la necessità di ripescare questi versi proprio in questi giorni in cui almeno una metà delle masse si sente senza peccato, e scaglia parecchie pietre: quella parte di umanità che additando al nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, lo addita al pubblico disprezzo come uno che molesta le donne, che compra i corpi, che molesta perché potente, che umilia le anime: se è cosi noi lo disprezziamo con essi, più di essi, ma vogliamo ricordarci anche, soprattutto, del silenzioso oltraggio e della violenza che milioni di brave persone, nell’anonimato della notte, al sicuro, dietro la potenza del denaro e dei fari di una macchina, esercitano su centinaia di migliaia di donne, talmente fragili e disperate da dover vendere se stesse, o sotto minaccia criminale o per altre necessità di sopravvivenza. Credendo giusto disprezzare certi comportamenti nell’arroganza dei potenti vorremmo che non esistessero però nemmeno tra noi, tra noi che inumanamente potenti non siamo, ma inumani, talvolta anche spesso, si, e crediamo che vadano esecrati e condannati tanto negli uni che negli altri, cioè in noi stessi, società civile, o altrimenti non facciamo che retorica.
Requiem per Alina Boulai: nacque a seguito della lettura di un articolo di cronaca sul Corriere della Sera, di una tragedia consumatasi tra creature condannate agli abissi. Nuovamente una ragazza di appena 20 anni , anche lei vittima della prostituzione a Roma, questa volta una rumena, che viveva insieme al suo ragazzo, anche egli ventenne, e una altra amica. La ragazza che aveva voluto lasciare questo ragazzo era stata uccisa da lui, che le aveva tagliato la gola. Guardavo questi volti appena riconoscibili sulle foto tessera dei loro documenti sui giornali, e mi sembrava che su queste persone, che dieci anni prima erano solo dei bambini di dieci anni, fosse caduto intero tutto l’inferno. Di questi inferni se ne consumano però a migliaia. E sempre di più. Non so’ perché questo mi entrato cosi dentro da produrre poi il getto di una poesia. Ma tant’è. Ho il sogno, un giorno, di andare a cercare la madre di questa ragazza , se aveva un madre, e darle il suo requiem, spero di riuscire a mantenere questa promessa che mi sono fatto. Requiem per Alina Boulai è inedita.
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“Nella Bibbia , kedoshà significa santa e kedeshà prostituta; le due parole hanno la stessa radice. Io vedevo in questa affinità un mistero” Elie Wiesel, da -L’Ebreo Errante.
REQUIEM PER ALINA BOULAI
Io sono Alina Bulai
Purissima creatura in Dio
E qui sulla terra
Destinata sulla strada del sale
Al lugubre mercato di me.
Uccisa a Termini nel brulicare
Degli arrivi e delle partenze
In un giorno di sottilissima pioggia
Lontana infinitamente
Da casa, da (mia) madre
Da(i) fratelli da(lla) gente
Che nel quartiere
Come una primavera a Bucarest
Mi ha(nno) vista venire alla luce.
Io sono Alina bulai
Ed ora che sono stata
violata
Profanata
Stuprata
Assassinata
Dissanguata
Devastata
Macellata
Posso di (rlo) re: io Alina
Purissima creatura in Dio
Da dio (stesso)
Fatta sublime (in) bellezza
Luminoso coraggio negli occhi
Incoscenza come verginità
Indistruttibile
Fui uccisa in Roma
Accanto alle ignare carni
Del santo padre
Che non udì il mio grido
Innumerevoli volte fracassato
Come cranio di neonato
Sulle pareti di cemento
Dei miei polmoni
Mentre inghiottivo sperma
Dai martiri del suo gregge.
(io sono) Alina boulai
ora più non sono altrimenti
purezza in Dio finalmente
cessato il tormento
sublime fiore
il cui seme cadde
negli infernali liquami del mondo
per fiorire appena
calpestata dal cieco atroce
galoppo delle mandrie umane
fatte schiave dalla morte.
Io appena gustai
Sulle labbra di Marian
L’amore, nel rosso
Turgido silenzio
Di quella bocca,
Piagata dal dolore di me
Disgustata e assetata di me,
io seppi, in frammenti,
come vestigia di un regno,
ora non più essente,
l’amore di ritorno
dalle amare plaghe
del salato lavoro
amore lavoro
delitto lavoro,
nei suoi imploranti occhi,
che alla fine di tutto
erano estremo rifugio
e ultimo supplizio,
per quanto breve
fu concesso alla mia vita
di stupirsi, di vivere,
di soffrire, di vivere,
da quella bocca
che a volte tacendo
scomposta da ogni parola
fu infanzia amica
al mio fianco
attinsi, rubai
un’essenza, un incenso
che lasciò sulle mie dita
già di fantasma doloroso
il lacerante lontano
profumo della gioia, alla quale non giunsi.
Quel giorno tacqui
Ascoltando il cielo essere
Grazie al lontano rombo
Di un aereo in esso volante,
Tacque la stanza di quella pensione
Dove vissi (del) le ultime ore
L’ombra tacque tra grida altre da me
Bagnata dall’oceano grigio
Dei pianti umani.
I rumori del traffico
Erano come enti azzurri
Principi
Argentati guerrieri di altri mondi,
il mio seno madido
di tutte le mani
che lo avevano violentato
violentemente respirava
un’aria di festosa sciagura
innalzando e inabissando
l’oro di una catena
a cui era appesa Maria
redentrice lurida anch’essa
ormai di tutte le eiaculazioni
che mi avevano sfregiata
a sangue per tutto l’arco
che il sole aveva teso su roma,
e Tu Poeta quel giorno passasti
veloci un occhio di pena
e l’altro di fame, guardandomi,
insieme ai festivi amici
verso un giorno di lago,
lievemente sfiorando la mia ombra
frapposta ancora per poco
tra cielo e terra:
Io sono Alina boulai
tutti mi avete vista
nel funebre cippo di un giorno
sulla desolata terra
di un rotocalco,
avete tutti visto
l’alto arco disteso
delle mie sopracciglia
che a tutti gli eroi
è sul volto sereno,
quel volto a cui
cocentissime lacrime
solcarono da bambina
il cuore per una infinita pena.
Limpidamente
Io ho guardato morire la morte
Tra quelle mani
Che segreta baciai
Le mani di lui
Le mani di Adrasto, (*)
Destinato ad uccidermi
Perchè soffocato
Dal dolore così vasto
Di essere il mio assassino;
Un Dio implorante perdono
Per avermi generata in questo mondo
E fattosi carne
Di questo santo
Che mi ha uccisa
fattosi carne, furente carne
In questo santo Marian Negoita da Bucarest
Che mi ha uccisa
Tagliandomi la gola
Prima che io lo lasciassi
Per l’eterna fiamma della vita infernale
Prostituita nelle strade di Roma.
Se hai un cuore piangici.
Captata in Roma durante un pasto serale solitario A.D. XIV III MMVIII.
Nota (*) per Adrasto leggere Erodoto libro primo delle storie
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“LA PUTTANA DI VALONA”
Introduzione
Già nel 1995 nella nostra meravigliosa Europa, culla dei diritti universali, circa 500.000 donne erano vittime del traffico della prostituzione intendendo per ‘Traffico di esseri umani’ la definizione utilizzata dalle Nazioni Unite nel ‘Global Programme against Trafficking in Human Beings’ – del febbraio 1999- che lo identificava ove vi fosse reclutamento, trasporto o accoglimento di persone esercitato con l’inganno o la coercizione, per fini di prostituzione o altro tipo di sfruttamento sessuale o lavoro forzato”.
Stiamo dunque parlando di una massa biblica di donne, fondamentalmente o adolescenti o appena maggiorenni, cosi fragili e indifese, da non potersi sottrarre dal cadere in stato di schiavitù sessuale. Durante il decennio degli anni 90, a partire del 1991, in conseguenza del disfacimento dell’Unione Sovietica, in Italia cominciò ad arrivare l’onda migrante dai paesi dell’Est provocata da questo tsunami geopolitico. Nel 1991 da una Albania che era stata sotto una feroce dittatura a matrice comunista iniziò l’esodo biblico, e le donne albanesi cominciarono a pagare un inaudito prezzo di dolore umiliazioni e abisso: nel 2000 si contavano in Italia non meno di 12.000 donne albanesi ridotte in stato di schiavitù sessuale dalla mafia albanese, nel solo anno del 1995 dalla citta di Berat erano partite 1300 donne. Le donne Albanesi, vendute e comprate come oggetti dai trafficanti erano ridotte in schiavitù sessuale dalla mafia albanese a mezzo di rapimenti, stupri, e anche rapimento di figli piccoli delle donne stesse per poterle costringere alla prostituzione come unico mezzo per riavere i propri bambini, negli anni 90 in Albania scomparvero nel nulla oltre 1200 bambini. Certo era la mafia albanese che riduceva in schiavitù le proprie connazionali, mostrando una ferocia inaudita, ma altrettanto feroci e non meno infami erano tutti quegli uomini italiani che per poche migliaia di lire, poche decine di euri, diventavano gli acquirenti di questo mercato tragico. In Italia i clienti della prostituzione si valutano intorno ai 10 dieci milioni. Dieci milioni di uomini spietati, che aspettano sui “litorali” di un mare funebre, di poter stuprare in maniera legale esseri umani che avrebbero avuto diritto a protezione e rifugio invece. Vi fu poi una recrudescenza di questo macello umano, che si ebbe durante i torbidi albanesi della cosiddetta anarchia nel 1997, quando bande criminali presero intere città. I nostri giornali erano fitti di storie tragiche di traversate di gommoni che finivano nel mercato della carne, quando non nell’annegamento. Persino Bruno Vespa ospitò, in un modo alquanto voyeuristico , quasi osceno, secondo me, una di queste ragazze che era stata salvata da un programma di recupero – proprio a questo episodio è perciò dedicata la poesia del IX CLIENTE-. Il popolo italiano si coprì di una incancellabile infamia abusando di migliaia di donne ridotte in schiavitù con le più efferate violenze. Se il nostro popolo in maniera compatta avesse rifiutato di stuprare queste donne le cose sarebbero andate diversamente per loro. E’ la richiesta che produce il mercato. Quando si tratta di una schiavitù sessuale, l”acquirente è il mandante, Il cliente è lo stupratore finale, nonostante quella parvenza di tacito accordo e consenso della vittima che inerme accetta di essere comprata. Questo lavoro è la testimonianza artistica scaturita dal sedimento di questi tragici fatti di quegli anni nel mio essere.
Presentai immediatamente queste poesie nel 1999 ad Aldo Rosselli, quando mi chiamò, vivevo a Parigi e tornai apposta in Italia per questa grande avventura culturale, a fondare insieme a lui e ad altri scrittori il Quadrimestrale Inchiostri; Aldo le pubblicò dandovi grande rilevanza, una poesia per ogni pagina, per dieci pagine al centro della rivista e affiancando ad esse un pezzo di Eraldo Affinati sull’Albania, da egli molto conosciuta, ciò avvenne nel numero Zero di inchiostri che poi presentammo a Torino alla fiera del Libro, Rosselli e Inchiostri presentando così molto chiaramente la nostra denuncia su questa cosa orribile, un delitto contro l’umanità, di cui il nostro popolo, i vigorosi uomini del nostro popolo, si stavano macchiando infierendo sulle nostre sorelle albanesi invece di aiutarle a liberarsi. Li a Torino conobbi il giovanissimo brillante intellettuale, scrittore ed editore Piero Salabè, il quale mi chiese di poterle tradurre, insieme al poeta Alejo Ferro Calvo, in spagnolo per poterle pubblicare in Colombia, a Medellín , città del grande festival internazionale di poesia, dove viveva molti mesi l’anno dividendosi tra li e Monaco di Baviera. Allego, dopo il testo in italiano, la loro splendida traduzione in spagnolo.
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LA PUTTANA DI VALONA
PROLOGO
Una strada di Roma. Una Donna. Una Donna per strada.
Una strada di Milano, una strada di Lecce, una strada di Torino, una strada di Livorno.
Una Donna per strada.
Una strada di Avezzano, una strada di Matera, di Benevento, di Napoli e Salerno,
una strada di Monza, di Treviso, Venezia e Campobasso.
Una Donna per strada.
Una strada in una remota contrada, che non ha nome ma che tutti conoscono, dietro vecchi reperti paleoindustriali.
Strade, vicoli, calli , statali e provinciali, e tutte, tutte le strade, portano a Roma.
E a Roma una Donna per strada
e intorno la giostra dei soldi su vetture di serie che anonimano il crudo torneo del palio
con lame di luce rasoterra strappando dalle sue gambe il velluto della notte.
Nati da donne che si accaniscono nelle loro armature di denari
e per tutti un’unica araldica: quella della morte che ghigna su un campo di lacrime.
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I CLIENTE
Apro le gambe.
Ho attraversato l’Adriatico nero,
l’Adriatico nell’abisso della notte
inghiottiva il bianco degli occhi.
Per te puttana.
Le eliche hanno maciullato
la mano che teneva la mia.
Ho pianto la schiuma insanguinata
che lasciava la scia della vita.
Entrami dentro.
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II CLIENTE
Apro le gambe.
Ma tu non sei un Dio innocente
e sotto di me non fiorisce
il croco e il glicine.
L’inferno che contamina il mondo
è il tuo sguardo dietro un vetro.
Lontana dalle nere montagne d’Albania.
Entrami dentro.
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III CLIENTE
Apro le gambe.
Mai più rivedrò la mia strada.
Sono una radice strappata
sul banco di un mercato;
sgrulla dalle mie vene
la terra rimasta.
Entrami dentro.
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IV CLIENTE
Apro le gambe.
Devi capire che si impara.
E che alla fine si fa la casa
anche nel disgusto.
Senza una casa il disgusto uccide.
Perciò quando srotolerò
sul tuo fallo omicida
l’odore acre del mercimonio
non ti stupire:
prima della guerra amavo la poesia.
In Albania il mio sorriso
allungava la vita.
Entrami dentro.
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V CLIENTE
Apro le gambe.
C’è il sangue dei morti,
il grido degli stupri,
e centimetro dopo centimetro
il tuo subdolo fallo
sembra quei giorni,
il crepitare degli automatici,
nomi che non si possono più chiamare.
Entrami dentro.
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VI CLIENTE
Apro le gambe.
Nel mio paese tutti parlano l’italiano,
questa lingua da giardino.
Ma qui nessuno ha festeggiato il miracolo.
“Quanto costa il tuo culo?”
è stato tutto quello che avete saputo dirmi.
Entrami dentro.
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VII CLIENTE
Apro le gambe.
Toccandosi il mento
scampavano la morte gli eroi.
Ed è qui che sono terra calpestata
e violata.
Qui che non potrò mai più
morire.
Che in me sara’ invertito
il giorno in semprenotte.
Qui dove ho cercato salvezza
arrivando supplice.
Entrami dentro.
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VIII CLIENTE
Apro le gambe.
Dove sono vulnerabile
riposa il sacro villaggio della vita
e c’è qualcosa che insieme
è ora piacere e morte.
Dall’aurora delle pupille
un assassinio simile all’amplesso
mi ha strappato il respiro.
il tuo lecito stupro
per sempre ha oscurato il mio ritorno.
Entrami dentro.
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IX CLIENTE
Apro le gambe.
gli occhi screziati di mio padre
di mia madre il labbro fermo.
Sono le tue televisioni che spiano
la stanza della mia stagione di vita
e in primo piano
le mie foto tra le dita.
Il prete, la soubrette,
infine il grande giornalista:
-Ti ha seviziata?
-Ti ha stuprata?
-Ti ha messo sulla strada?
– Si –
-Che faccia….pulita!-
Così mi racconta.
Sono intervistata
per la mia indecente sicurezza
di spalle al pubblico innocente.
Ma tu che vedi il mio volto,
solo tu, sai che voleva dire – bella!-.
Entrami dentro.
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X CLIENTE
Apro le gambe.
Al tuo dolce stil novo
ho portato il salso sangue
della follia di una guerra.
Entrami dentro.
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Traduzione in Spagnolo a cura di Piero Salabè
La puta de Valona cuenta una historia antigua, que ya se conoce. Es la historia de la guerra, de la perdida de la inocencia, o como diría Colantoni de “la casa en el asco”. Para contar esta historia antigua el autor emplea un lenguaje solemne, a veces elegíaco, con evidentes préstamos de lecturas clásicas. Somos llevados lejos en el tiempo para sostener la mirada en algo muy cercano, próximo, ya presente en las calles de Roma, de Bari, de Treviso: las putas de las ciudades albaneses de Valona, de Tirana, de Durazo…
Albania, conocida en Italia como tierra de gente desesperada, queda a pocas millias de mar del “belpaese” – el “país bello”, como los italianos suelen llamar su país –, pero a mucha distancia de su conciencia. Colantoni presenta la realidad de la prostitución albanés con inmediada crudez e recorre el camino del mito – con las categoías de “viaje”, “inocencia”, “iniciación”, “muerte”, “casa” y “regreso” – para contar así la decadencia de la forma mítica, la historia del regreso imposible. El mito se mella en todas las direcciones: para las victimas quienes sienten exclamar en la “lengua de jardín” solo obscenidades y también para quienes leyendo el poema através la mirada del voyer llegan a considerarse cómplices de una realidad que habían ya removido. La puta de Valona representa el breve viaje cumplido por la conciencia italiana y más generalmente europea que ha perdido su refugio de bellas palabras, la ilusión de la lejanía: ni la lengua ni la distancia pueden tranquilizar cara a las implicaciones de la realidad. En las calles de Roma, de Bari, de Treviso …
David Colantoni , poeta ensayista y autor de prosa, ha sido fundador de la revista “Cartas de la frontera”. Su última novela se intitula “El numero de la nada”. Vive en Roma donde colabora, en otras cosas, con la revista “Nuovi Argomenti”.
LA PUTA DE VALONA
Prólogo
Una calle de Roma. Una Mujer. Una Mujer en la calle.
Una calle de Milán, una calle de Lecce, una calle de Turín, una calle de Livorno. Una Mujer en la calle. Una calle de Avezzano, una calle de Matera, de Benevento, de Napoles y de Salerno, una calle de Monza, de Treviso, Venecia y Campobasso.
Una Mujer en la calle. Una calle en un lejano arrabal que no tiene nombre pero que todos conocen, detrás de antiguos hallazgos paleoindustriales. Calles, callejuelas, carreteras nacionales y regionales y todos los caminos llevan a Roma.
Y en Roma, una Mujer en la calle y a su alrededor el tiovivo del dinero en coches de serie que anoniman el cruel torneo con cuchillas de luz a ras del suelo arrancando de su piel el terciopelo de la noche.
Nacidos de Mujeres que se encarnizan en sus armaduras de dinero y para todos una sóla heráldica: la de la muerte que ríe con sarcasmo en un campo de lágrimas.
I cliente
Abro las piernas.
He cruzado el negro Adriático,
el Adriático en el abismo de la noche
engullía el blanco de los ojos.
Para ti puta.
Los hélices trituraron
la mano que sostenía mi mano.
He llorado la espuma ensangrentada
que dejaba la estela de la vida.
Éntrame dentro.
II cliente
Abro las piernas.
Pero tú no eres un Dios inocente
y debajo de mí no florece el cólchico ni la glicinia
El infierno que contamina el mundo
es tu mirada detrás de un vidrio.
Lejos de las montañas negras de Albania.
Éntrame dentro.
III cliente
Abro las piernas.
Nunca más volveré a ver mi senda.
Soy una raíz arrancada sobre el banco
de un mercado.
Sacude de mis venas la tierra retenida.
Éntrame dentro.
IV cliente
Abro las piernas.
Debes comprender que se aprende.
Y que al final se hace la casa también en el asco.
Sin una casa el asco mata.
Por eso cuando siembro sobre tu falo homicida
el olor de mis actos ilícitos
no te asombres: antes de la guerra amaba la poesía.
En Albania una sonrisa
alargaba la vida.
Éntrame dentro.
V cliente
Abro las piernas.
Está la sangre de los muertos
el grito de los estrupros
y centímetro tras centímetro
tu enagañoso falo
parece aquellos días
el crepitar de ametralladores
nombres que ya no se pueden llamar.
Éntrame dentro.
VI cliente
Abro las piernas.
En mi país todos hablan italiano
este idioma de jardín.
Pero aquí nadie ha celebrado el milagro.
“¿Cúanto cuesta tu culo?”
Es todo lo que me supisteis decir.
Éntrame dentro.
VII cliente
Abro las piernas.
Tocándose el mentón
huían de la muerte los héroes.
Y es aquí que soy tierra pisada
y violada.
Aquí donde nunca más podré
morir.
Donde en mí será convertido
el día en noche eterna.
Aquí donde he procurado salvación
tras llegar como suplicante.
Éntrame dentro.
VIII cliente
Abro las piernas.
Donde soy vulnerable
descansa la sagrada aldea de la vida.
y hay algo que ahora es a la vez placer y muerte.
Desde la aurora de las pupilas
un asesinato parecido a una fusión
me ha arrebatado el aliento
tu lícita violación
oscureció para siempre mi regreso.
Éntrame dentro.
IX cliente
Abro las piernas
los ojos mateados de mi padre
de mi madre el labio seguro firme
Son tus televisiones que espían
el cuaarto de la estación de mi vida
y en primer plano
mis fotos entre los dedos.
El cura, la bailarina,
al final el gran periodista:
¿Te ha torturado?
¿Te ha violado?
¿Te puso en la calle?
– Sí
¡Qué cara limpia!
Así me cuenta.
Soy entrevistada
por mi indecente seguridad
de espaldas al público inocente.
Pero tú que ves mi rostro,
sólo tú sabes que quería decir:
¡Hermosa!
Éntrame dentro.
X cliente
Abro las piernas.
A tu dolce stil novo
he llevado la aspera sangre
del delirio de una guerra.
Éntrame dentro.
Traducción Alejo Ferro Calvo y Piero Salabè