Maria per Roma, scritto diretto e interpretato da Karen Di Porto. Opera prima della regista selezionata alla Festa del Cinema di Roma.
(…) in un carro è steso un vitellino/legato stretto con una corda/ su nel cielo vola un uccello/ vola libero quà e là/ ride il vento nei campi di grano/ ride e ride e ride/ride tutto il giorno/ ride fino a notte fonda (…) strofe della canzone Yiddish Dona dona
Mi ci si sono voluti, credetemi, giorni e giorni di misteriosi negozi, intrighi, appostamenti vari per riuscire a contattare uno degli antichi romani che compaiono nel film Maria per Roma di Karen di Porto, film che avevo visto in una sala Sinopoli all’Auditorium, all’anteprima della festa del Cinema di Roma, piena di accreditati stampa accorsi in gran massa per vagliare quello che era considerato il film rivelazione della festa del cinema. La levata da casa era stata alle sette, cari signori, a questo può portare la curiosità morbosa a volte, “e chi è adesso questa Karen di cosa?”. Il tempo necessario a fare qualche frittella, svegliarmi del tutto e un caffè e poi a piedi con passo sostenuto alla fermata dell’autobus speciale per l’auditorium Termini – Piazza de Coubertin. Prima corsa 8 e 30, verso cui, ancora mezzi addormentati, esattamente come me, convergevano, da diverse direzioni, altri accreditati: “Buongiorno collega, a vedere?”- “Maria per Roma”- “a-ah, e tu? “-”anch’io!”: così si presentava l’alba di Maria per Roma.
Il film pare cominciasse già su questo mezzo di strambi giornalisti delle più bizzarre testate di cinema (i grossi calibri non viaggiano certo con questi sobbalzanti Trasporto-Stampa) scossi come birilli dall’avvio improvviso e brusco dell’autista mentre tutte le porte si chiudevano sbuffando, come cetacei che si immergono uno dopo l’altro.
Spente le luci e iniziato Maria per Roma in sala era tutto un riecheggiare di sonore risate, già dai primi minuti, risate a volte all’unisono, a volte misteriose e singole, lunghe e accorate, segno che l’umorismo di Karen Di Porto, ah, ecco come si chiavama appunto, Di Porto si, aveva colpito, in maniera del tutto personale, ora questo, ora quello, dei presenti in sala, compreso il sottoscritto. Il film travolgentemente pieno di umorismo. Non esattamente comico con le battute e quelle cose così, bensì pieno di umorismo. Ridere non di battute ma di disvelamenti psicologici, ridere del sentirsi smascherati dalla sapienza dell’autore in fatto di materia umana, ridere dionisiacamente, quasi spaventati dal vedere la nudità della nostra psiche come un Marsia scorticato da Apollo.
Assistendo al film annotavo mentalmente nei lembi liberi dal piacere della visione (sapendo che ne avrei scritto poi) che innanzi tutto stavo vedendo un’opera prima, che mi stavo rapportando con il lavoro primo di una regista attrice, giovane donna e non con il film di una ragazzina ovvero non si trattava di un primo lavoro di un giovanissimo appena affacciato alla vita, ma si trattava di un lavoro che si era andando sedimentando come film da esperienze che lo avrebbero composto come materia per un tempo certamente durato abbastanza come incubazione da generare una sapienza. Mi sembrava di percepire cosi.
Come già sapete dalle molte recensioni che avete già letto, il film in breve sarebb la storia di una aspirante attrice e delle sue peripezie per Roma all’inseguimento del sogno di fare un film a cui è intrecciato il suo lavoro di Key-holder. Si, fare un film come sogno di realizzazione nella sfera pubblica ma in realtà la protagonista Maria, nel film sempre insieme al suo anziano cane cardiopatico, un Jack Russel di nome Bea, è assidua praticante del teatro vero invece, come necessità del privato quasi, dove la regista ci fa entrare seguendo Maria in una serie di piani sequenza incrociati, in cui vediamo il teatro quasi come tempio, come luogo ipogeo e iniziatico di preghiera intesa come invocazione della discesa dell’essere nei corpi e nelle psiche degli attori, teatro come delfica cura di se stessi, scena in cui assistiamo a una galleria di personaggi attori che recitano celebri monologhi di sempre come quelli di Shakespeare, dal Giulio Cesare, “la colpa caro Bruto non e’ delle nostre stelle ma di noi stessi che siamo degli schiavi” .. “e siamo costretti a strisciare come degli schiavi”… al monologo di Amleto “e io sto qui a perder tempo come un qualsiasi grillo trasognato e non penso alla mia causa e non so dire niente niente nemmeno per un re che ebbe distrutti da un diavolo gli averi e la vita preziosa.. dunque sono un vile… ” a Nina del Gabbiano di Checov “potrei vivere in una soffitta mangiando pane di segale.. sopporterei il malanimo dei parenti ma in cambio potrei anelare alla gloria…”.
Momento di cinema nobile questo, fatto di quella potente matrice fantastica, quasi alla Borges, di un aprirsi di realtà ulteriori una dentro l’altra, di un gioco di specchi contrapposti tra reale e rappresentazione che fa perdere l’orientamento del vero, di cui è intessuto, per fare un esempio, il bellissimo Cesare deve morire, dei Taviani, dove rotti gli schemi tra il dentro e il fuori della finzione veniamo sommersi senza rendercene conto del dilagare del logos tragico come atto drammatico puro e verità ontologica ( il teatro del manifesto pasoliniano anche). Nel covo segreto della professione di attore come un religere, come un religo, come un attingere ai passati per scardinare le corazze psichiche in cui ognuno di noi è segregato. In questa scena sgorga, senza clamore, come acqua sacra in quelle sorgenti arcaiche e magiche che ancora allagano gli ipogei dei fori romani, ultramillenarie testimoni di misteri primordiali, la verità immutabile del logos come principio del vero.
Intanto dalla cura che Maria si prende del suo cane, noi sappiamo che per questo personaggio il prendersi cura di qualcuno è un valore fondamentale, perché questa cura faticosa e difficile di un cane anziano e malato non viene mai meno nel film anche rispetto al bisogno di realizzarsi della protagonista, bisogno a cui questa cura, come è ovvio, è anche di intralcio. Il rapporto del personaggio con il cane è governato da questo principio che ci parla di una aver compreso ciò che nella vita è necessario ma anche ciò che è essenziale, e che le due cose possono anche non essere la stessa cosa. Risolvere la propria vita professionale o artistica, trovare il proprio posto nella società è necessario, ma essenziale è essere delle persone ontologicamente riuscite, non fallite sul piano spirituale, ovvero sia essere coloro che innanzi tutto si prendono cura di un’altro come fondamento dell’umano. E’ questione socratica, è il gallo che dobbiamo ad Esculapio.
Io credo che ciò non sia il messaggio espressamente e coscientemente lanciato dalla regista autrice attraverso la cinetica delle immagini di questo autoritratto cinematografico; ma che tutto ciò faccia parte di quegli importantissimi materiali inconsci che spesso sono molto presenti nelle opere prime di ogni artista e che sono anche, anzi soprattutto, istintive dichiarazioni di poetica che spesso poi gli artisti sviluppano ancora nelle opere successive con una maggiore coscienza dei temi e delle proprie capacità di affrontarli. Cosi come materiali inconsci e potenti sono nel film il fantasma di questo padre che sappiamo ebreo perché ci viene espressamente fatto vedere come tale sul proprio sepolcro ebraico, cosa questa attraverso cui il film espone senza dubbio alcuno, ma forse l’autrice non ci pensava, una questione e una istanza di appartenenza alla vasta cultura ebraica e a tutto ciò che intorno a questa cultura si anima, anche come lacerazioni storiche che vengono dalla immane tragedia dell’olocausto, materia che certamente in ogni artista di origine ebraica non può non avere una somma importanza anche se solo in senso crociano, come una impossibilità a non essere ingaggiato inconsciamente nella materia del proprio ambiente culturale, e che fa di questo film anche un inconscio kaddish, una preghiera dell’orfano, dualmente rivolta a Dio come al padre, svincolandosi nello stesso tempo con questa invenzione da ogni dubbio di essere un film realista-diaristico come magari qualcuno potrebbe essere tentato di vedere. E portandolo sul piano di un incontro più o meno volontario ma impossibile ad evitarsi della elaborazione di un film anche concettuale e di interpretazione simbolica dei materiali dell’Io. Non è autobiografia questo fantasma di padre. E’ un simbolo a cui l’autore non è riuscito a sfuggire, e a cui possono essere dati certamente alcuni sensi dallo spettatore che partecipi con certi mezzi culturali alla visione.
Non è un fantasma che vede solo la protagonista, la quale appunto non parla al vuoto di una immagine che noi non riusciamo a vedere: il fantasma del padre sul sepolcro ebraico è un personaggio a tutti gli effetti e che porta il film in ambiti precisi anche di surrealismo, di simbolismo e quant’altro, e lo fa in maniera inequivocabile, aprendo canali linfatici nella circolazione semantica della rappresentazione tra vari piani, tra cui quello con la storia. Per me ad esempio assomiglia in modo inconscio, questo essere orfana di Maria, di questo mana del padre che alla fine non la può aiutare, alla crisi verso Dio che si è aperta in artisti come Primo Levi ed Elie Wiesel dopo i campi di sterminio. Non sto dicendo, si badi bene che il fantasma del Padre, nel film di Karen Di Porto, significhi, per lei, su un piano razionale, questo, no, assolutamente no. Sto dicendo che mi permette di vederlo con grande chiarezza però. Cosa che ne fa, per me, esteticamente e concettualmente, qualcosa di molto interessante.
Il film si presenta come una serie di brevissimi capitoli compiuti e tenuti insieme dalla melodica della vita di Maria in cui, attraverso brevi ingaggi frenetici, come fossero più voci per strofe di una ballata yiddish, tra lei e i vari personaggi, e per lo più assolutamente comici, si producono come degli aforismi cinematografici che enucleano delle massime filosofiche, e ciò ricorda la struttura, e anche però una certa sostanza, dei racconti dei Chassidim di Martin Buber: anche Maria, che l’autrice, volente o nolente, riesce a farci vedere in maniera cinematograficamente parlando come persona sempre pronta, in fin dei conti , a perdere il treno della fortuna, perché è indiscutibile che a questo treno non sacrificherà mai il suo senso di umanità, assomiglia moltissimo al senso che nella narrazione dei racconti di Buber hanno quegli zaddikim di cui i racconti della tradizione hassidim parlano: zaddikim, che erano i capi delle comunità hassidiche, è parola che viene tradotta con «i giusti» ma che significa più ampiamente «coloro che hanno provato di essere giusti»: ecco secondo me la cifra che accomuna la comicità del film di Karen Di Porto alla comicità che imbeve, talvolta, i racconti degli Hassidim, ovvero la comicità di questo molte volte esilarante tentativo degli uomini/donne di essere dei giusti e che in quanto tentativo spesso si risolve non tanto nel fallimento ma nel comico.
Cosi quando Maria, che va di corsa per appuntamenti potenzialmente fondamentali alla sua realizzazione sociale come attrice , i quali non dovrebbe assolutamente rischiare di perdere, si troverà a dover aprire la porta di un appartamento di quelli di cui è key holder, perchè i turisti hanno lasciato le chiavi dentro, ecco che lo farà con la radiografia della gamba della anziana donna delle pulizie solo dopo essersi presa cura di sapere dettagliatamente come la donna sta, guardando insieme la sua radiografia, senza dare importanza al fatto che probabilmente andrà in ritardo per questo. La scena è comica e si ride di gusto, ma il tentativo comico del giusto lievita e da’ a questa comicità un sottofondo appunto quasi religioso, di questa comicità goffa ma santa degli Zaddikim nei racconti dei chassidim di Buber.
E ancora ci troviamo di fronte a una gag esilarante quando Maria si troverà di fronte a un padre e un figlio indiani, suoi clienti per un appartamento, che appartenenti alla casta Brahaminica non possono assolutamente prendersi da soli i propri bagagli, ma tutta lo loro potenza che in India sarebbe incastonata nel corpus delle altre caste inferiori che li servirebbero immediatamente diventa qui in Italia una totale impotenza che li fa apparire degli ebeti totali. Ora un brahamino, in una cultura della eguaglianza di tutti davanti alla legge, può essere certamente visto come un essere odioso, un ingiusto, un residuo di un indigeribile medioevo orientale e la comicità di questa scena viene proprio dalla possibilità a cui Maria rinuncia di umiliare qualcuno che nella sua nazione, nel proprio contesto, sarebbe un semidio, ma che qui non può neppure aiutare se stesso a portarsi i propri bagagli perché glielo impedisce un precetto, rovesciando cosi la sua potenza in impotenza. Maria dopo un attimo di stupore in cui è espresso tutto il disprezzo per la divisione in caste degli esseri umani, alla fine accetta di aiutarli, semplicemente perché comprende in quale gabbia mentale siano imprigionati senza speranza questi due esseri sin dalla nascita, per appartenenza appunto di casta, accettando con ciò di porsi di fatto nei panni di un pariah, di un intoccabile, e alla fine trascinando tra erculei sforzi le loro gigantesche valige su per i piani delle scale, ancora una volta sacrificando con il suo tempo per compiere un atto di redenzione, in questo caso, dei due brahmini prigionieri dell’oscurità della violenza della loro casta, e a cui nessuno la potrebbe obbligare, e via dicendo.
Oppure quando il finto Gesù protegge un vero monaco buddista dai finti gladiatori romani che lo prendono per una comparsa che vuole rubare loro i turisti. E noi vediamo pur ridendo, anzi intravediamo tra le nostre risate la discesa per un attimo in questa scena di un qualcosa di veramente divino per cui il simbolo, l’effige posticcia, il feticcio, per un un qualche istante si fa rivelazione tramite l’atto della cura che anima le vesti del finto Gesù della immanenza divina, quasi in simpatia con la dottrina talmudica della Shechinà, la «presenza immanente» di Dio nel mondo. E cosi si svolge il film passando attraverso una serie di parabole dove succede sempre qualcosa, come grani di un rosario, che rimandano, che ricordano, questioni cruciali o sommamente importanti, e attraverso un caleidoscopio cosmopolita dei personaggi che è qualcosa di superiore, per senso, alla semplice corrispondenza nel concreto del fatto che Maria lavora con i turisti.
Per carità non prendete troppo sul serio le mie descrizioni, o suggestioni, meglio: esse hanno a che vedere soprattutto con il mio di bagaglio conscio o meno e culturale, sono le lenti con cui ho guardato, con cui soprattutto ho visto, e direi che tutto ciò in questo film, che soprattutto è un film divertentissimo dove si ride dall’inizio alla fine, avviene a mio avviso come una corrente di profondità, e non è che un annuire al comico tentativo del giusto che a sua volta indica al percepire una divinità che vorrebbe indurci alla giustizia nel nostro essere, divinità come una immanenza che è nelle vite di tutti, di chi se ne avvede come di chi non se ne avvede, una immanenza che non sconvolge nulla della composizione superficiale dell’esistere quando questo esistere vuole restare superficie e basta, esattamente come vi annuisce la leggerezza di una ballata Yiddish, o una parabola Talmudica filtrata attraverso certe ironie ebraiche.
Un film Maria per Roma in cui sento delle imprevedibili assonanze con lo chassidismo in cui, come dice Buber, “non c’è separazione tra fede e opere, fra morale e politica: un solo regno, un solo spirito, una sola realtà” e che così, come il movimento chassidico irradia i comandamenti tradizionali di un significato immediato e gioioso, rimuovendo barriere tra il sacro e il profano, riconoscendo un significato divino al compimento anche di ogni azione anche profana, unisce invece nel film il piano della spiritualità insacrificabile, a non importa cosa, della protagonista come persona moralmente compiuta, con la sua ricerca, anche grottesca, della realizzazione mondana come attrice, non realizzata, in un film.
Per me il film di Karen Di Porto non è sostanzialmente il tipo di film che parla di qualcosa ma è un film in cui qualcosa parla. Non si sviluppa come drammatica ma come poetica. Cosi come noi con gli occhi abbiamo tanti tipi di visioni nella nostra esistenza: vediamo si spesso azioni, ma anche, sebbene più raramente, contempliamo cose che azioni non sono. Non esistono solo gli scopi da cui discendono azioni, esiste anche la poesia, ( sebbene etimologicamente dovremmo parlare di theoria piuttosto) e tutto ciò che nel contemplare vede un riposo della potenza non in atto.
Se devo essere onesto, paragonato a Jeeg robot questo film, come lo è stato, è superato da quello per una questione di tecnicismi e verve cinematografica pura come questo abbondantemente supera quello per intrinseco contenuto d’arte. Quello è imperniato su una trovata, questo tenta una ricerca. E ricordo che siamo nella giurisdizione tutta speciale delle opere prime, a cui vedremo se e cosa seguirà. E tutti e due confermando il ‘lavoro di talent scout della direzione artistica della Festa del Cinema di Roma.
Suppongo, ho il sospetto, proprio a causa di quella assonanza di cui ho parlato, gli artisti se rubano non se ne fanno accorgere di solito, ma mai dire mai, che Karen Di Porto non abbia ancora letto i racconti dei Chassidim di Buber, e suppongo che nulla di ciò che ho detto sia stato uno scopo alle sue intenzioni di regista, suppongo che siano tutt’altre le intenzioni in concreto che abbiano animato il farsi di questa opera prima cinematografica, che è stata scelta giustamente alla Festa del Cinema come una promessa, che già ha iniziato a compiersi, da prendere assolutamente in considerazione per il nostro cinema. Ma credo che, parafrasando Pascal, Karen Di Porto, considererà con una qualche benevolenza ( chissà forse la detesterà invece ) l’idea di questi elementi che forse non sospettava essere innervati alla materia del film , e questo a mio avviso perché questo film è innanzi tutto un autoritratto d’artista, e come tale attinge massicciamente nei materiali inconsci dell’autore, che sono materiali anche ereditati culturalmente magari anche senza una piena consapevolezza di questa eredità : un autoritratto pieno di sottintesi, anche appena sussurrati, che si giocano nel campo profondo anche solo dei significati del suo volto, per me uno dei più forti e intensi del cinema italiano il suo , ora che nel cinema italiano è apparso finalmente, che è il volto appunto di un autoritratto, e da cui lampeggiano luci capaci di farci ridere a crepapelle ma piene di una tensione drammatica profonda che comprende anche alcuni riflessi dei destini che la grande cultura ebraica si è trovata ad attraversare. Ciò che ci accade ci accade anche concordemente a qualcosa che è il nostro essere noi, in condizioni di libertà e pace, e dunque nel momento in cui utilizziamo la nostra vita come materiale di una opera d’arte ciò che ci è accaduto apparentemente come successione di eventi anche casuali si dispone rigorosamente lungo le linee di sensi che ci erano oscuri e che nell’arte si disvelano.
E dunque finalmente ho corrotto il legionario Romano riuscendo a convincerlo a mettermi in contatto con la regista, e, insperata fortuna del principiante, sono riuscito ad avere un appuntamento a casa sua, in una antica strada di trastevere, quando proprio il giorno prima, pure, ero stato al cimitero ebraico del Verano, cogliendo l’occasione per una visita al mio compianto maestro e amico Aldo Rosselli, per scovare la tomba da cui nel film sorge il fantasma del padre di Maria, non essendo io certo sotto questo cielo il primo né l’ultimo di quelli che vanno, come per scovare le tracce di un delitto, sui luoghi dei film ad annusare a cercare indizi, e di quella tomba non ne avevo però trovato traccia, la tomba fantasma di un fantasma non è male e ci sta tutta.
Mi sono trovato in una delle case che compaiono nel film, non saprete mai quale, dove realmente abita la regista, seduto in una poltrona di vimini ho finalmente espresso tutte queste mie bislacche idee a Karen Di Porto, chiedendole se vi trovasse una qualche corrispondenza. Karen mi guardava con una luce ironica e sorridente, a tratti interessata, quanto sommamente enigmatica: Bea, la grande Bea riposava in una cesta. Ma non vi svelerò nemmeno sotto tortura quello che ci siamo detti nella lunga e piacevole conversazione pomeridiana. Solo questo: che Karen mi ha raccontato che si quella tomba infatti non esiste, è inventata. Che persino i suoi morti hanno recitato in questo film con il loro sepolcro travestito da tomba del padre di Maria. Nella mia mente il sospetto di uno chassidismo conclamato si faceva con ciò una specie di certezza.
Per il resto , plauso a tutta la troupe, ai Garrone che hanno montato, alla brava Maura Morales Bergmann per la fotografia a Andrea Planamente nei panni di Cesare, al produttore coraggioso che ha investito in questa opera di esordio, alla presa diretta di Francesco Liotard e per le Musiche, ai giovani di Metarmonica, agli Attori Cyro Rossi e Nicola Mancini e a tutti gli altri attori del Duse Studio di Francesca De Sapi. Film realizzato con un budget a dir poco bassissimo.
Adesso bisogna solo sperare che Maria per Roma sia distribuito e abbia modo di arrivare al pubblico . Io correrò subito a rivederlo. Per ridere di come siamo fatti, di come siamo comici ma anche tragici e sublimi.