Il 2 e 3 Settembre scorsi, i 28 ministri della Difesa dell’Unione Europea si sono riuniti nel Consiglio Informale della Difesa in Lussemburgo. Tema centrale dell’incontro – presieduto da Étienne Schneider, ministro della Difesa (vice-premier) del Lussemburgo, e da Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la PESC dell’UE – l’analisi dei risultati e l’attuazione delle conclusioni del Consiglio Europeo del Giugno scorso, che aveva affrontato (con la solerzia nota di una Lega di Stati, qual è l’UE, e non di un Governo Federale…) l’emergenza migranti e, soprattutto, varato l’operazione EUNAVFOR MED.
Lanciata ufficialmente a Luglio, EUNAVFOR MED ha l’obiettivo di combattere il traffico illegale di migranti, condotto da organizzazioni legate – o soggette – ai gruppi jihadisti imperanti in Libia, che gestiscono il lucroso mercimonio di disperazione e impongono condizioni di trasporto tali da rendere inevitabili le tragedie cui tutti noi dobbiamo confrontarci ogni giorno con orrore.
Durante il meeting “informale” della scorsa settimana, Schneider ha introdotto nel dibattito in corso sulla difesa comune europea il tema dell’aumento della spesa militare in ambito comunitario. “Dobbiamo continuare a investire nella nostra difesa: ossia dobbiamo spendere di più, spendere meglio e soprattutto dobbiamo farlo insieme, cooperando più fra gli Stati membri ed evitando la duplicazione delle risorse“, ha detto il ministro della Difesa lussemburghese.
Un’azione ritardata – rispetto al manifestarsi delle minacce – e perfino incompleta, perché sorda all’appello elevato un anno fa dal governo legittimo della Libia (per questo internazionalmente ‘riconosciuto’ tale), presieduto da Abdullah al-Thani (già ministro della Difesa) e riparato a Tobruch.
Per comprendere meglio ogni circostanza e innestarla nel quadro giuridico internazionale, è necessario ripercorrere in sintesi quanto avvenuto dall’inizio del 2014.
CRONOLOGIA DEI FATTI: 2014-2015
In Libia all’inizio del 2014 il governo era detenuto dal GNC (Congresso Nazionale Generale), eletto nel Luglio del 2012 con un mandato di 18 mesi per stabilizzare il Paese, dopo la ‘primavera’ seguita alla detronizzazione di Gheddafi nel 2011. In quel momento, i movimenti islamisti legati ai ‘Fratelli Musulmani’ egiziani (già dichiarati movimento terrorista dall’establishment del Cairo, dopo la svolta del 3 Luglio 2013) avevano il controllo dell’assemblea. La tensione tra le componenti islamiste e quelle laiche ‘centriste’ e liberali era però aumentata già nel Luglio precedente (2013), quando alla presidenza dell’organo era stato eletto Nuri Busahmein – esponente della minoranza berbera di Zuara – che dunque si insediava anche come Capo dello Stato.
Nel dicembre 2013, il GNC aveva votato una legge che introduceva una variante adattata della Sharia, la legge coranica promossa dagli islamisti: allo stesso tempo, l’assemblea prolungava il proprio mandato di un anno, fino alla fine del 2014. Un atto controverso contro cui si coagulavano le forze contrarie alla islamizzazione giuridica e costituzionale della Libia, mai Paese fondamentalista.
Nel Febbraio 2014 comparve (o meglio: ricomparve) sulla scena politica e militare libica il generale Khalifa Haftar, un ufficiale dell’esercito della Jamahiriya libica ai tempi di Gheddafi, riparato negli Stati Uniti nel 1990 dopo essere stato catturato tre anni prima nel corso dell’Operazione Manta (guerra contro il Ciad) e poi liberato grazie ai buoni uffici degli americani. Haftar avviò pressioni politico-militari perché il pericolo islamista fosse sconfitto sul nascere, richiedendo lo scioglimento del GNC e la costituzione di un governo ad interim che indicesse nuove elezioni. Un semi-pronunciamento, concretizzato tre mesi dopo, quando l’ufficiale lanciò l’operazione “Dignità della Libia” contro le milizie islamiste insediatesi in Cirenaica sotto il “Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi”, organo formale eretto da Ansar al-Sharia (partito della sharia), che già aveva dichiarato la propria vicinanza agli insorti islamisti in Siria e Iraq (poi autoproclamato ‘Califfato’, Stato Islamico, a fine Giugno 2014).
L’obiettivo dichiarato di Haftar – appoggiato immediatamente da buona parte delle Forze Armate legali della Libia e, soprattutto, da quanto rimaneva dell’Aeronautica era la liberazione del Paese dalle milizie jihadiste e islamiste: all’inizio “Dignità” fu osteggiata dal Governo Al-Thani (ex ministro della Difesa), che la denunciò come un tentativo di colpo di Stato. In effetti, il 18 Maggio 2014 vi furono scontri (qui la nota della Reuters) attorno al Parlamento, attorno cui si mossero le milizie di Haftar e le Brigate di Zintan, nel frattempo associatesi all’operazione di liberazione del Paese dagli islamisti.
È importante ricordare le date, per ricostruire a posteriori lo scenario informativo che dovette svolgersi dietro le quinte di quest’azione militare, che portò il CNG a indire nuove consultazioni democratiche per l’elezione della “Camera dei Rappresentanti”, un nuovo parlamento di 200 membri.
Tuttavia, come era immaginabile accadesse, i movimenti jihadisti insediati in Cirenaica (attorno a Bengasi) e Tripolitania (a Sirte) avviarono una campagna di delegittimazione delle istituzioni democratiche e delle consultazioni elettorali indette per fine Giugno, sia attraverso pressioni che con atti di violenza tesi a disincentivare la partecipazione popolare, con la gente minacciata di assassinio se si fosse recata ai seggi.
Il risultato finale fu che il 26 Giugno 2014 solo il 18% degli aventi diritto (ossia 630mila persone) poté esercitare il diritto di voto; alcuni seggi rimasero chiusi a causa delle violenze degli islamisti e dei jihadisti, con una dozzina di seggi rimasti non assegnati. Nonostante le premesse, il nuovo Parlamento avrebbe dovuto riunirsi a Bengasi, capitale della Cirenaica, grazie a un accordo pre-elettorale volto alla composizione dei dissidi nazionali e a un nuovo spirito di unità del Paese.
Tuttavia, la presenza del “Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi” – organo rivoluzionario a capo dell’insorgenza jihadista – rese impossibile la riunione dei parlamentari a Bengasi, così da far ripiegare prima sulla capitale Tripoli, poi sulla città di Tobruch, dove i 153 parlamentari centristi e liberali si riunirono il 2 Agosto 2014 in via preliminare, poi in forma solenne due giorni dopo. Assenti i 30 deputati islamisti, che nel frattempo preparavano il completamento dell’insurrezione nella capitale.
Tobruch era stata scelta perché messa al sicuro dalle milizie arruolate già da mesi da Haftar, nel frattempo avvicinatosi all’ala lealista di Al-Thani.
Il 13 Luglio 2014, in attesa che i risultati elettorali fossero resi noti, milizie islamiste, in primis la cosiddetta Camera Operativa dei Rivoluzionari Libici e le Milizie di Misurata lanciarono l’operazione ‘Alba Libica’ (Libya Dawn), attaccando il complesso dell’aeroporto internazionale di Tripoli, controllato fino a quel momento dalle truppe di Haftar, dell’Aviazione Militare libica e delle Milizie di Zintan, che battevano in ritirata dopo sanguinosi combattimenti e nonostante l’intervento aereo degli Emirati Arabi Uniti (e forse anche dell’Egitto, un dato mai chiarito), che il 23 Agosto bombardò le postazioni islamiste senza successo.
Il 25 Agosto 2014, 94 membri del vecchio CNG – tra cui anche i movimenti che avevano boicottato la “Camera dei Rappresentanti” di Tobruch per sfuggire all’annientamento – si riunirono a Tripoli come “Nuovo Congresso Nazionale Generale”, proclamandosi parlamento legittimo al posto di quello regolarmente eletto (e per questo riconosciuto dalla Comunità Internazionale), nominando Nuri Busahmein presidente dell’assemblea (e quindi Capo di Stato) e Omar al-Hasi primo ministro.
Di contro a Tobruch la “Camera dei Rappresentanti” eleggeva Abdullah al-Thani capo del governo della Libia riconosciuto dalla Comunità Internazionale. Al-Thani assumeva i poteri in un quadro di unione delle forze democratiche e tendenzialmente laiche, con un immediato riavvicinamento alle posizioni del generale Haftar, uno scenario nuovo che si manifestava pubblicamente nel mese di Ottobre, quando il Governo Al-Thani aderiva ufficialmente alla piattaforma politica dell’operazione “Dignità della Libia”, mentre Khalifa Haftar si avviava gradualmente verso la nomina a Comandante delle rinate Forze Armate libiche (Marzo 2015).
Nel frattempo la spaccatura all’interno delle istituzioni governative libiche – legittime e sedicenti insurrezionali – riceveva un sigillo di ufficialità: il 6 novembre 2014, infatti, la Corte Suprema di Tripoli cedeva alle pressioni degli islamisti e dichiarava nulle le elezioni del 26 Giugno, sulla base del ricorso di un deputato islamista che contestava l’illiceità delle riunioni del parlamento (boicottato dagli islamisti) a Tobruch.
Da quel momento, in Libia hanno agito due Parlamenti e due Governi, rispettivamente detti “di Tripoli” (per identificare le istituzioni insurrezionali islamiste) e “di Tobruch” (legittime, elette alle elezioni del Giugno 2014, riunite nella città vicina al confine con la Tunisia per sfuggire alla persecuzione islamista.
INTERVENTO EUROPEO 2015: RITARDI, APPELLO DEL GOVERNO LIBICO E CARTA ONU
Nonostante la mediazione del diplomatico spagnolo Bernardino Léon Gross – quale inviato speciale del Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon – Tobruch e Tripoli non hanno mai dialogato, perché le finalità politiche delle due fazioni sono inconciliabili: Tobruch sostiene uno Stato laico e libero, gli islamisti di Tripoli vogliono imporre alla nazione una svolta islamica che non è nelle corde del popolo, ma solo di una sparuta minoranza.
E tuttavia, il 12 Luglio 2015 – dopo molti negoziati – si è pervenuti alla firma di un documento volto alla composizione della crisi interna tra Tobruch e Tripoli e all’avvio di un processo di formazione di un governo di unità nazionale, ma tale accordo è stato firmato da una parte consistente delle tribù e dal governo libico internazionalmente riconosciuto (Tobruch). Il sedicente ‘governo di Tripoli’ si è rifiutato di firmare l’intesa, condannando Léon Gross a un clamoroso insuccesso annunciato. Lo si può percepire dalle parole del negoziatore di Tripoli, Mowafaq Hawas: “noi siamo ancora coinvolti nel dialogo ma non comprendiamo onestamente questa fretta a firmare ( l’accordo, ndr) prima che tutte le parti concordino”.
Insomma, una presa per i fondelli ancor più evidente alla luce della Conferenza delle Tribù tenuta al Cairo il 25 e 26 Maggio 2015, che si è chiusa con una dichiarazione in 15 punti, premessa per la conclusione dell’accordo di unità nazionale. Due mesi dopo sarebbe stato impossibile che il ‘governo di Tripoli’ firmasse l’accordo Léon, perché ai primi quattro punti del documento approvato dalla Conferenza delle Tribù erano stati elencati i presupposti per il disarmo delle milizie islamiste gravitanti attorno al governo insurrezionale di Tripoli, presieduto da Khalifa Ghwell (che il 31 Marzo 2015 aveva sostituito Omar al-Hassi):
- Scioglimento del Nuovo Congresso Nazionale Generale (NCNG, Tripoli) ritenuto dalle tribù illegittimo;
- Abrogazione di tutte le leggi approvate dal NCNG e dal governo perché approvate sotto l’intimidazione e la minaccia della forza armata.
- Rescissione di tutti i contratti e gli accordi internazionali conclusi al di fuori dei limiti della competenza sovrana del governo legittimo della Libia.
- Scioglimento di tutte le milizie, dei militari, dei battaglioni di sicurezza, in quanto tutti illegittimi, con cessione delle armi presso la sede legittimo esercito e della polizia
Con queste premesse è logico che ‘Tripoli’ non abbia firmato e non firmerà alcunché e lasci alla soluzione militare sul campo la soluzione della controversia. Duole rilevare che non lo abbiano capito le diplomazie europee, cieche nel cercare una soluzione diplomatica che gli islamisti non vogliono, perché sarebbe la fine delle loro ambizioni di impossessarsi della Libia.
Ciò detto, appare a posteriori evidente che la Comunità Internazionale è stata sorda, cieca e muta di fronte alla tragedia libica, peraltro in piena illegalità internazionale e, nello specifico, per la violazione (per inazione) del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (articoli 39-51), “Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione”.
Di fronte al ripetuto appello al sostegno internazionale lanciato dal primo ministro legittimo della Libia, Abdullah al-Thani, l’Unione Europea ha fatto orecchie da mercante, non ha reagito e ha deciso di agire solo (molto lentamente) per fronteggiare il traffico di immigrati dalle coste della Libia, gestito da migranti senza scrupoli e per effetto di tragedie in mare evitabili: se solo l’azione militare fosse partita prima.
Alla base della legalità internazionale dell’intervento l’articolo 51 della Carta Onu, che salvaguarda il diritto all’autotutela individuale o collettiva di uno Stato:
” Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”
È pacifico che il diritto di cui all’articolo 51 debba essere esercitato dal governo legittimo dello Stato la cui sicurezza nazionale sia messa in pericolo. Nella fattispecie, dunque, ovvio che tale diritto spettasse ab initio al Governo al-Thani, che fin dal 25 Agosto 2014 (conferenza dei Paesi del Nord Africa al Cairo: si veda articolo su ‘Il Foglio’, nell’immagine a sinistra) chiese un intervento internazionale di sostegno, proprio nello stesso momento in cui le Milizie di Misurata avevano preso il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli.
Non rispondere all’appello della Libia ha significato abbandonare un Paese strategico per gli equilibri mediterranei (e ancor di più per gli interessi italiani) alle milizie jihadiste legate al cosiddetto Stato Islamico.
Così, per incredibile leggerezza si è consentito un rafforzamento di queste milizie jihadiste e, allo stesso tempo, si è negato uno dei principi cardine dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, espresso nell’articolo 49 della Carta – “I Membri delle Nazioni Unite si associano per prestarsi mutua assistenza nell’eseguire le misure deliberate dal Consiglio di Sicurezza” – proprio lasciando cadere nel vuoto l’appello del governo libico, che invece si è mosso sempre nel solco della legalità internazionale.
L’Unione Europea ha di fatto confutato il fondamento della chiamata internazionale di assistenza ex articolo 39 Carta Onu, che stabilisce:
” Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”
Le misure da intraprendere, in questi casi, sono “non militari” (articolo 41) o “militari” (articolo 42). Nella fattispecie, le azioni non militari – quali il disarmo delle fazioni – sono fallite prima ancora di essere tentate. Non sarebbe rimasto che adottare le misure militari, descritte dall’articolo 42 Carta Onu, che stabilisce:
“Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”.
Dalla decisione di attivare EUNAVFOR MED da parte del Consiglio Europeo sono passati tre mesi: un’eternità rispetto al fluire magmatico della situazione in Libia e in tutto il Nord Africa. Ma a ben vedere, se un anno fa l’UE o uno degli Stati membri dell’Unione si fossero mossi per rispondere alla richiesta di aiuto internazionale del governo libico – nella piena legalità internazionale e con l’integrale rispetto della Carta e dei principi delle Nazioni Unite – probabilmente alcuni problemi avrebbero potuto essere affrontati con forze minori.
Oggi invece lo scenario è drammatico e una forza di 1.000 uomini non appare sufficiente a contrastare un traffico (quello di migranti) che è diventato strategico per le milizie jihadiste operanti in Libia e, allo stesso tempo, mostra la debolezza dell’Europa di fronte alla madre di tutti i problemi: la capacità di difendere in modo veloce ed efficace i confini esterni. Tipica competenza di Stato Federale.
E infatti questa debolezza e questa lentezza decisionale sono i prezzi inevitabili da pagare per un’Unione Europea che stenta ad evolvere verso l’approdo federale, mantiene un assetto confederale non più funzionale ad affrontare i problemi contemporanei e le sfide alla sicurezza internazionale e alla pace
Una debolezza che potrebbe risultare perfino esiziale per la stessa Europa.