di ROSANNA GADDI
La polvere rossa ha ricoperto ogni cosa: asfalto, guardrail, blocchi di cemento che separano le carreggiate. Nulla si è salvato. Le narici aspirano un’aria pesante, aspra, e la gola brucia dopo appena cinque minuti.
Viverci sarebbe impossibile, eppure la vita persiste, malata, dolorante, ma tenace.
La natura stessa si è adattata: gli alberi circondano l’area industriale dell’Ilva. Il mostro, imponente e impressionante, con le sue ciminiere altissime e le bocche che sembrano fissarti, pare sussurrare: “Vieni, ti ingoierò in un silenzioso frastuono di solitudini e bisogni”.
Secondo le previsioni avrebbe dovuto piovere, eppure il cielo è così luminoso da impedire di tenere gli occhi fissi in alto. Un contrasto stridente con la realtà circostante.
Ho sempre amato la Puglia, mi sono sentita sempre accolta in ogni suo paese o città, ma non ero mai rimasta a lungo nella zona di Taranto.
«Guarda quelle nuvole, come sono belle. Sembrano quelle dei parati da camerette per bambini» esclamo. «Magritte» risponde mio marito. Ti è mai capitato di esclamare «che bel cielo!»? Io lo faccio appena posso, in ogni giornata serena.
Diamo troppo per scontato il quotidiano, e solo quando ci viene tolto ci rendiamo conto che nulla è mai ovvio.
«L’Ilva è un mostro che dà vita e morte a chi lo tocca», dico a voce alta, e Jurij aggiunge: «Come era Bagnoli… siamo tutti figli di questa industrializzazione disumanizzante che sfrutta la fame e la voglia di riscatto».
Il nostro rientro è iniziato, e porto ancora addosso il sale di quel mare meraviglioso.
La terra circostante è generosa: vino, olio, carne, pesce, c’è tutto.
«Qui si sa vivere e si sa anche morire», concludo il mio pensiero a voce alta.
La vita in questo luogo, sospesa tra il mare e l’Ilva, si rivela una lotta silenziosa, quella stessa che tutti portiamo dentro. Da una parte, il mare – calmo, vasto, ancestrale – incarna la nostra parte emotiva, imprevedibile e profonda, capace di carezze gentili, ma anche di tempeste furiose. Dall’altra, l’Ilva, solido monolite di ferro e fumo, rappresenta la mente razionale che costruisce, calcola, domina, ma, a volte, consuma e soffoca. Come il mare che respira lento, invitando la riva ad aprirsi e accogliere, così il cuore pulsa in un ritmo irregolare, intessuto di desideri, paure, speranze.
Eppure, come le ciminiere dell’Ilva che sputano acciaio, la mente deve pur sempre fare i conti con realtà dure, necessità, decisioni fredde che talvolta spezzano il dolce respiro delle emozioni.
Questa terra porta in sé ferita e ricchezza, e allo stesso modo, dentro ciascuno di noi si insinua questa contraddizione ancestrale: il bisogno di sentirsi vivi, vulnerabili, aperti all’incanto e al dolore, e insieme la volontà di sopravvivere, di imporsi, di non cedere a quelle tempeste interiori che minacciano di travolgerci.
È un equilibrio precario e potente, un dialogo continuo tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo costretti a diventare. Un bilico sottile, fragile, ma che dà senso, perché è la vita, con tutta la sua bellezza spezzata, a pulsare in ogni respiro.
L’Ilva è il nostro diavolo mancino, quel mostro che si insinua nelle pieghe della vita quotidiana, una presenza oscura che tenta di invadere lo spazio inviolato della nostra terra e dei nostri cuori. Come nel brano di Battiato, esiste un luogo sacro dentro di noi, un angolo di purezza che vorremmo mantenere intatto, ma il “diavolo mancino” — qui l’Ilva — spinge, preme, si insinua senza tregua, distruggendo la pace e la serenità che si vorrebbero inviolabili. Eppure, come suggerisce il Maestro, questa presenza minacciosa è anche una prova. È lo scontro fra ciò che aspiriamo a diventare e ciò che ci vogliono imporre. L’Ilva è la tentazione-ammonizione, il veleno che ci fa riflettere su quanto valga difendere quel bene incorrotto, quell’identità che, nonostante tutto, continua a pulsare sotto la cappa grigia di fumo e polvere.
Difendere il nostro inviolato significa allora non arrendersi a questa realtà crudele. Significa riconoscere il mostro, dargli il suo nome, ma non permettergli di spegnere la luce.
E’ un invito a mantenere un angolo di speranza, un angolo di vita, nonostante tutto.
Lungo la strada del ritorno, le pale eoliche si ergono maestose contro il cielo, simili ai mulini a vento che Don Chisciotte scambiava per mostruosi giganti.
Questi immensi giganti moderni, fatti di metallo e vento, incarnano la battaglia eterna dell’uomo contro le forze invisibili e spesso incomprese della natura e dell’esistenza.
Come i mulini antichi che macinavano il grano sfruttando l’energia del vento, oggi le pale trasformano la brezza in elettricità, simbolo di un progresso che prende forza dall’eterna danza tra l’uomo e il mondo che lo circonda.
La metafora dei mulini a vento, così cara a Cervantes, diventa per me una riflessione filosofica sull’illusione e la realtà: ciò che può sembrare un gigante minaccioso è, in fondo, solo una macchina che muove ingranaggi sotto la spinta del vento. L’uomo, spesso, combatte i suoi fantasmi interiori e le sue debolezze come Don Chisciotte, trasformando le sue sfide in guerre titaniche contro entità invisibili.
Mio marito mi chiede a cosa penso e proprio nel momento in cui sto per raccontargli tutte le mie elucubrazioni mentali un’immagine concreta si presenta davanti ai nostri occhi: lungo l’autostrada, il telone di un carico di pomodori si è aperto di colpo. I pomodori, fragili e rossi, sono rotolati sull’asfalto, rendendo l’asfalto una lingua rosso sangue. Sembrano anime disperse, abbandonate tra le ruote delle auto e la polvere della corsia.
In questo quadro, il pomodoro si impone come metafora dell’uomo moderno: coltivato, selezionato, caricato in grandi quantità e instradato verso una destinazione prestabilita, senza voce sul proprio tragitto. Nella società contemporanea si vive spesso compressi tra esigenze produttive, classificazioni e ruoli, trasportati da flussi sociali ed economici che ne determinano il valore solo in base all’utilità e all’efficienza.
Ma, davanti all’imprevisto – il telone che si apre improvvisamente – emerge la vulnerabilità: la vita, come il viaggio del pomodoro, può essere dispersa in istanti spesso trascurati, dove la dignità rischia di perdersi lungo la strada.
Questa visione cruda e improvvisa della strada macchiata è come una tela strappata che squarcia il velo delle nostre illusioni. Mi sovviene il nome di un pittore irlandese, che, chissà in quale modo e in quale vita, devo aver studiato. La poltiglia rossa e le forme indistinte dei pomodori schiacciati sono una perfetta similitudine con le figure contorte e disumanizzate che popolano le tele di Francis Bacon, che non dipinge ritratti, ma l’orrore che si cela dietro la forma, la carne che si decompone, il grido che si deforma nel silenzio.
“La violenza di un corpo che si disgrega, perdendo la propria individualità, è la stessa violenza che vediamo nell’anonimo schianto dei pomodori, anime che si fondono in una massa informe”, esclamo a voce alta. Jurij mi guarda perplesso e mi chiede di spiegare meglio che viaggio ho fatto in quel nano-secondo.
Dico che quel breve viaggio è una breve e compressa metafora della vita.
Bacon, con la sua arte, ha sfidato l’umanesimo tradizionale, quello che celebra l’uomo come centro dell’universo e padrone del proprio destino. Le sue figure sono state spesso prigioniere di gabbie geometriche o di spazi claustrofobici, a simboleggiare la condizione umana moderna: l’uomo è schiacciato e compresso, non da un telone, ma da un sistema sociale che lo deforma e lo annienta.
In questo scenario, l’umanesimo non è più una celebrazione, ma una domanda angosciante mi esce dalla gola: “Cosa rimane dell’uomo quando gli vengono sottratti la dignità e il controllo sulla propria esistenza?”
“Cosa ne rimane a Gaza?” – aggiunge lui.
(Penso che ci siamo scelti decenni fa perché le nostre sinapsi viaggiano più o meno all’unisono e ne sono felice).
L’immagine dei pomodori sulla strada ci interroga sulla reale possibilità di autodeterminazione e ci offre una possibile risposta.
Ci mostra che la vera umanità non risiede nella perfezione o nell’efficienza, ma nella vulnerabilità esposta, nell’essere fragili e imperfetti. L’umanesimo che dobbiamo riscoprire è quello della cura, della compassione per ogni singola vita, non solo in quanto merce o ingranaggio, ma in quanto esistenza irripetibile, anche se finisce come un pomodoro disperso sull’asfalto. L’uomo, come il pomodoro, merita cura non solo nella destinazione, ma lungo tutto il percorso, dove il caso e l’imprevisto mettono a nudo l’essenziale umanità che ci accomuna, e l’unica via di salvezza è recuperare un senso di appartenenza e rispetto per ogni singola esistenza.
Riprendiamo il viaggio e la musica suona ancora indisturbata per un po’. Ma la mente cammina più veloce dell’automobile.
In questo paesaggio, i mulini eolici sono croci viventi che si stagliano sul mondo, testimoni della fatica umana e della sua aspirazione a trasformare il dolore in nuova energia.
Come i chiodi nelle croci, il vento che spinge le pale è una forza sottile eppure implacabile, capace di muovere la vita e la morte, di segnare la sofferenza e la speranza. Dopo la domanda su Gaza, la metafora delle croci del Golgota si fa ancora più carica di sofferenza e tragedia, evocando le tante croci invisibili dei palestinesi crocifissi dall’odio e dalla violenza israeliana. Come il Golgota originario, luogo di suprema ingiustizia e sacrificio, queste croci moderne si ergono silenziose e dolorose nel paesaggio, testimoni di un dolore collettivo che attraversa la storia e il tempo.
Ogni pala eolica, al contempo simbolo di progresso e di battaglia, diventa allora un monito crudele: la croce non è solo redenzione, ma anche vessillo di oppressione, di divisione e di ferite aperte.
Il vento che muove le pale è come un sospiro soffocato, un lamento che attraversa gli oppressi, che resta sospeso tra speranza e disperazione. In questo scenario, le croci non sono più solo segni di fede o di sacrificio accettato, ma diventano emblema della grande ingiustizia che pesa su chi è crocifisso da un odio che sembra senza fine.
Così, la strada non è solo un percorso tra passato e presente, tra mito e realtà, ma diventa il cammino doloroso di chi, agli occhi del mondo, resta ancora appeso a quelle croci, in attesa che il vento cambi direzione e porti finalmente la pace.
In questa visione, le croci si moltiplicano, non solo sul Golgota antico, ma in ogni angolo dove l’umanità si crocifigge nella divisione e nel conflitto, invitandoci a riflettere sulla necessità di spezzare queste catene di dolore e rigenerare la speranza.
Questo pensiero si fa prepotente durante il ritorno a casa, mentre ancora dentro di noi echeggia l’aria pesante di ferro dell’Ilva, segno tangibile di un’umanità che consuma il proprio respiro e il proprio futuro.
È un contrasto doloroso: abbiamo appena trascorso momenti spensierati nell’acqua limpida e meravigliosa del mare pugliese, dove la natura sembra ancora pura e accogliente.
Eppure, noi, che viviamo in un angolo di mondo dove l’acqua è limpida e il vento può essere trasformato in energia, non siamo superiori ad altri popoli oppressi o soffocati dalla guerra e dall’ingiustizia: siamo soltanto più fortunati.
Non c’è merito in questa fortuna, solo un fragile privilegio che ci impone responsabilità e consapevolezza.
In questo cammino, tra paesaggi di contraddizioni, si apre una domanda etica e profonda: “come onorare quella fortuna, se non con l’impegno a non restare indifferenti di fronte alle tante croci che ancora punteggiano il mondo, invisibili eppure così reali?”.
Jurij mi guarda, sorride, mi bacia la fronte.
Continuo a guardare fuori dal finestrino.
Una nuvola a forma di drago ci accoglie, affacciandosi dalla schiena della nostra tanto amata montagna.
Si sveglia anche la nostra cagnolona.
Profumi di casa.
Profumo di vita che scorre.







