Scrivi e cancella, scrivi e cancella, scrivi e cancella, scrivi e cancella. Alla centesima volta, forse, puoi cominciare davvero a scrivere. Forse.
Era questo, più o meno, quello che mi disse la mia editor quando le chiesi, disperato, una mano per partorire il mio terzo libro. Avevo firmato il contratto da più di venti giorni, l’editore era stato entusiasta e apparentemente calmo e fiducioso. Questo, fino al quindicesimo giorno. Allo scoccare del sedicesimo, aveva cominciato a mandarmi una mail al giorno, fino ad arrivare a ben cinque appena quella mattina. Niente, le mie mani non collaboravano, la mia testa era confusa e le mie idee apparivano e sparivano come lampi senza tuono, lasciando dietro di sé solo un abbagliante vuoto, null’altro.
Decisi di seguire il consiglio di Federica, l’editor: scrivere e cancellare. Cominciai proprio quella mattina ricordandomi di indossare le vesti da scrittore con tutti i crismi: caffè in tazza grande, sigarette a portata di mano, telefoni spenti e luci basse. Chiusi proprio le persiane come fosse stata sera, accesi la lampada da tavolo e quella poco distante accanto al divano. Avevo bisogno di sentirmi scrittore maledetto della notte, di quelli che soffrono d’insonnia e, nell’attesa di dormire, scrivono capolavori.
In realtà io dormivo benissimo, in quel periodo, e conducevo una vita di cui tutto si sarebbe potuto dire tranne che maledetta. La mia ex compagna era sparita definitivamente lasciandomi i miei spazi e i miei tempi, gli amici erano forti, solidi, meno stronzi del solito. Mi ero persino prefisso di disintossicarmi dagli eccessi: niente alcool, niente fumo, pochi grassi, pochissimo caffè. Correvo pure. Io, pigro d’eccellenza, avevo preso la mania della corsa mattutina. All’inizio mi sentivo un po’ idiota, soprattutto per l’abbigliamento che mi ero procurato, ma poi cominciò a piacermi: la provinciale era poco frequentata alle 7 del mattino, quindi l’aria era fresca e pulita, un vero toccasana. E poi frutta, verdure, tisane, insomma tutto quello che l’immaginario collettivo riconduce al benessere psicofisico. Stavo bene, in forma. Però non scrivevo più.
Ben equipaggiato, dunque, mi immersi nella mia notte artificiale. Forse scrivere non era altro che il pretesto per riprendere a fumare, in fondo.
Alle 11 circa, dopo aver cancellato l’ennesima frase che mi sapeva di stoppa, decisi di fare una pausa per sgranchirmi le gambe. Fuori c’era sicuramente un bel sole tiepido nonostante fossimo in gennaio inoltrato. Dentro casa, la temperatura era costante: 19°, perfetta per me.
Mi alzai dalla scrivania e sentii l’impulso di allungare le braccia e torcere il busto, come se davvero avessi scritto di notte e ne fossi rimasto intorpidito. Il ticchettio della sveglia rimbombava nel più assoluto silenzio della casa ben isolata dai rumori della vita diurna, quasi complice del mio desiderio di tenebre. Andai in cucina per uno spuntino a base di pane casereccio e prosciutto cotto: l’idea di affondare i denti nella crosta dura del pane mi piaceva più del pane stesso, e dire che quest’ultimo era buonissimo, dono di una vicina a cui avevo fatto un piccolo favore qualche giorno prima.
Una birra avrebbe fatto al caso mio; tanto, nel mio nuovo ritmo biologico, non era certo mattina, quindi non ci sarebbe stato nulla di male a stapparne una. Non tornai però alla scrivania a mangiare, come facevo di solito, piuttosto rimasi in cucina, appoggiato al lavello coi piatti della sera prima, rimuginando sul perché il libro non prendesse forma. I personaggi erano vuoti, piatti, stanchi. Le donne, senza forme; gli uomini, senza forze. Non interagivano, non si parlavano, non vivevano.
Esistevano, e basta.
Avrei cancellato ancora e ancora, ma prima o poi avrei dovuto tenere qualcosa sul foglio; quel qualcosa sembrava non arrivare mai. Dalla parete di fronte il lavello, mi guardavano ridendo i fantasmi dei miei personaggi: li vedevo lì, con la faccia beffarda, quasi a dirmi “Non ci avrai mai”. Erano figli miei in rivolta, sfuggenti, adolescenti chiusi dentro i loro sorrisi di sfida e per nulla disposti a lasciarsi comprendere. Eppure li avevo visti nascere, ne avevo curato la crescita, li avevo amati, cullati e nutriti. Loro, ingrati, si burlavano della mia apatia e si pascevano della loro, desiderosi proprio di mandare a monte ogni mio barlume di progetto.
Presi il telefono, lo accesi e chiamai Federica, un po’ timoroso per quella che io davvero credevo fosse un’ora inopportuna. Solo la sua voce squillante mi ricordò che, in fondo, per il resto del mio mondo di riferimento era mattina. Avrei voluto avere dieci anni in quel momento per permettermi il lusso di scoppiare in lacrime gridando un patetico “Non ce la farò mai!”.
Lei avrebbe compreso, mi avrebbe consolato e forse io mi sarei sentito fiducioso e pronto ad afferrare i miei personaggi, scuoterli un po’ e rimetterli in sesto anche contro la loro volontà. Non piansi, ma fu come se lo avessi fatto. Federica mi ascoltava in silenzio, interrompendomi solo ogni tanto con un dolce “Capisco” e lasciando – per il resto – che tutta la mia frustrazione si riversasse senza troppe cesure. Dopo circa quaranta minuti, prese un respiro profondo e mi disse: «Fermo, fermo. Credo di aver capito dove stia il tuo problema. Fa’ una cosa: molla tutto, lascia perdere, non scrivere. Non forzarti, hai ragione: non ce la farai mai». Salutarci subito dopo fu l’unica cosa possibile, dato che le sue parole mi avevano gelato il sangue; non sarei riuscito a dire null’altro che un ciao biascicato e piagnucoloso, esattamente come feci.
Rimasi con il telefono in mano per un tempo indefinito a fissare la parete di fronte a me. I personaggi, spariti. Doveva essere già l’ora di pranzo, ma non avvertivo certo fame dopo il pane con il prosciutto, nonostante buona parte di questi giacesse su un tovagliolo di carta adagiato sul tavolo. Sembravano i resti di una tragedia, la stessa tragedia che si consumava nel mio ego. Paralizzato e spaventato, non riuscivo a muovere un passo, nemmeno per ritornare nello studio a spegnere il computer così come mi era stato consigliato. Io, colpito e affondato dalle mie stesse incapacità, in quel momento provavo forte rancore per chi mi aveva appena assecondato.
Poi, mi mossi.
Come in un sogno, tornai nello studio e, invece di spegnere tutto e dedicarmi ad altro, cominciai a scrivere – senza cancellare – per un tempo lunghissimo. Non so esattamente quanto fu lungo quel tempo, forse furono giorni, non meno di tre. Mi alzavo poco, andavo in bagno, bevevo acqua, tornavo a scrivere: era tutto facile, scandito, automatico, dettato da una forza che non era mia ma che in quel momento mi possedeva. Domai i miei personaggi, li costrinsi a diventare adulti e li incastrai fra le pagine che avevo creduto perse per sempre.
Il demone della prosa, stanco forse della mia inettitudine, mi prese per i capelli e mi buttò in mare, costringendomi a nuotare per salvarmi dall’inedia e da me stesso. Imparai a nuotare, quindi, poi raffinai lo stile. E non fu più mattina che dovesse sembrare notte perché le parole restassero ferme, non fu più notte che dovesse sembrare giorno perché io fingessi di saper scrivere.
Scrissi, e basta.