Giovedì sera. Torni a casa dopo una giornata lunga, di quelle piene come non ne vorresti più avere. Al cellulare c’è una chiamata non risposta, è un amico ed ha provato a contattarti più di un’ora fa. Provi a chiamare, non risponde, poi richiama. «Ancora sveglio? – Sì, sto guardando la tv, non hai visto cosa è successo in Francia?». No, non ho visto.
Bicchiere d’acqua e tv. I canali principali sono su una sola notizia. Li scorro, per abitudine, tra i numeri alti del decoder: è zapping tra RaiNews24 e SkyTg24. Sinceramente non vorrei essere in cucina, in questo momento. Non vorrei essere alla tv, forse non vorrei nemmeno aver richiamato il mio amico. Avrei preferito scoprirlo domattina, invece che avere la conferma di qualche vittima in più.
Dovrei sentirmi ferito. Dovrei, forse, arrabbiarmi. Magari, sarebbe più coerente farsi prendere un po’ dalla paura. Sarà che, ultimamente, sto diventando più distaccato… ma non ci riesco.
Provo a farmi le buone domande da giornalista e, mentre il servizio in tv prova a sbrogliarmele tutte, penso che non so come si faccia ad avere un’idea talmente contorta come quella del terrorista protagonista di questo attentato.
Non conosco Nizza. Meglio, ci passo ogni anno diretto a Lourdes con l’Unitalsi. Ho solo un vago ricordo della stazione e di quel tratto del lungomare che si vede dai binari. Non so come si va ad immaginare di poter trasformare quel lungomare in una tomba, attraversandolo ad una velocità folle con un camion solo per defraudare vita a quanti erano lì solo per guardare dei fuochi d’artificio e festeggiare la propria patria. Non so come si faccia davvero a farsi sfiorare da un’idea simile.
I casi sono due, o c’è dietro una grande, insana passione o c’è dietro una grande, insana disperazione. A voler essere sincero, mentre rifletto su Nizza e sulla morte di tante persone, non so se posseggo, dal canto mio, una medesima passione per la vita. Sono i casi come questo che, mentre ti colpiscono, ti impattano in faccia con la loro crudezza, ti fanno pensare che, accanto a tante morti, dovresti rispondere con tanta vita in più, tanta passione in più.
Perché se c’è un modo per combattere il male, non c’è altra strada che il bene. Ma il bene quotidiano, quello che passa innanzitutto attraverso le piccole cose, attraverso quello che faccio e che sono. Non sono gli hashtag ad aprire le porte ma l’abitudine ad aprire il cuore, le mani, ad essere pazienti. Qui si riesce con difficoltà a dire buongiorno al vicino (che occupa costantemente il posto auto) a fare i complimenti al collega per i successi conseguiti. Figurarsi la capacità che potremmo avere, davvero, ad aprire le porte. Zero (o poco più).
Forse dovrei mettermi a piangere per tutte quelle vittime. Ma non ci riesco. È estate e (anche se piove) è più forte la voglia di fare che quella di fermarsi nel dolore. Vi chiedo la cortesia di non trasformare quelle vittime nell’ennesima lastra di marmo contenente l’appello degli assenti e di cui, tra due anni, nessuno ricorderà più nulla. Erano vite e, pertanto, nessuno riuscirà a sfiorarne la profondità. Anche se è difficile, credo che reagirò dandomi da fare, iniziando proprio dal vicino di casa e dal collega d’ufficio. Le lacrime no, per favore, preferisco lasciarle per momenti peggiori, per momenti più freddi. Le lacrime sono per l’inverno.