La teoria della pace democratica afferma che uno Stato democratico non causerà mai un conflitto armato nei confronti di un altro Stato democratico. Si tratta di una realtà o di un ennesimo tassello di propaganda politica per far passare il mondo occidentale come il “migliore dei mondi possibili”?
La teoria della pace democratica affonda le proprie radici in un testo del politologo hawaiano Michael W. Doyle, che nel 1983 affermava che le relazioni internazionali tra due o più “Stati liberali” sarebbero state necessariamente pacifiche. Tuttavia, ad una rapida lettura, la teoria di Doyle rivela immediatamente la sua natura – volontaria o meno – propagandistica. Secondo l’autore statunitense, gli “Stati liberali” sono quelli che hanno “una qualche forma di democrazia rappresentativa, un’economia di mercato basata sulla proprietà privata, e protezioni costituzionali dei diritti civili e politici” (pp. 207-208). Passi pure per la democrazia rappresentativa, sulla quale comunque si potrebbe descrivere a lungo, ma l’inserimento dell’economia di mercato e della proprietà privata tra le caratteristiche fondanti della pace democratica dovrebbe essere sufficiente a screditare la teoria come mera propaganda in tempo di guerra fredda, oltre alla significativa assenza dei diritti sociali.
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Altri autori, notando le falle della teoria di Doyle, hanno tentato di aggiustarla nel nome e nelle caratteristiche: un altro autore statunitense, Walter C. Clemens (2009), ha ridenominato la teoria come “teoria della pace liberale”, altri hanno parlato di “mutuo pacifismo democratico” o, ancor meglio, di “ipotesi di non aggressione interdemocratica”. Quest’ultima denominazione, riportata da un economista italiano, Daniele Archibugi (2008), è probabilmente la più corretta, visto che ammette la possibilità che l’ipotesi venga smentita, sia perché due democrazie potrebbero effettivamente farsi la guerra, sia perché non è detto che due stati non democratici non possano mantenere la pace.
Doyle ed i suoi epigoni affermano che alcuni fattori garantirebbero la pace democratica:
- il fatto che l’operato dei governanti negli Stati democratici sia sottoposto al giudizio del voto popolare;
- l’ipotesi secondo la quale gli Stati democratici sarebbero più inclini a risolvere le tensioni internazionali attraverso la diplomazia;
- l’assunto secondo il quale gli Stati democratici non vedrebbero le politiche ed i governi degli altri Stati come ostili;
- l’ipotesi per cui gli Stati democratici sarebbero più ricchi di quelli non democratici, e dunque avrebbero troppo da perdere in un conflitto.
Dal nostro punto di vista, tutte queste teorie possono facilmente essere smentite. Al di là del fatto che gli Stati che si autodefiniscono democratici hanno dimostrato di non farsi problema alcuno nel dichiarare guerra a Stati terzi di cui si presume la non democraticità, spesso proprio con l’intento dichiarato di “esportare la democrazia”, crediamo che la principale debolezza di questa teoria sia nell’assenza di definizioni precise. Per questo, sposiamo la critica formulata da Jeffrey Pugh (2005), che fa notare come l’assenza di un consenso accademico sulle definizioni di “democrazia” e “guerra” rendano questi termini alquanto manipolabili, e dunque la stessa teoria può essere resa sempre vera modificando il valore assegnato a queste parole.
Dal nostro punto di vista, aggiungiamo che l’obiezione più significativa viene proprio dall’esperienza quotidiana degli ultimi anni. Attraverso la propaganda dei mass media, ogni guerra dichiarata dagli Stati occidentali è stata sempre giustificata asserendo la non democraticità dello Stato attaccato o invaso, di conseguenza non è più l’assenza di democrazia a causare la dichiarazione di guerra, bensì la guerra a provocare la dichiarazione di assenza di democrazia, naturalmente ad insindacabile giudizio delle potenze imperialiste occidentali e con conseguente designazione di “dittatore” per il presidente di turno da spodestare.
Inoltre, anche volendo essere politicamente neutrali, ed ammettendo che ciò sia possibile, non è facile dare un significato univoco al termine “democrazia”. Certo, gli autori citati in precedenza, sono principalmente orientati a designare come democrazie gli Stati occidentali liberali, borghesi e ad economia di mercato. Ma, anche volendo prendere per buona questa definizione, resterebbe da capire come verificare se uno Stato sia democratico o meno. Le libere elezioni multipartitiche sono un criterio sufficiente?
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Un altro studioso, John Mearsheimer (1990), fa giustamente notare anche che i regimi democratici in stile occidentale sono troppo recenti nel tempo e limitati nello spazio per poter verificare la veridicità di questa teoria. Utilizzando una definizione restrittiva di “democrazia”, dunque, si avrebbe un campione storicamente e geograficamente troppo circoscritto per trarne una verità. Inoltre – aggiungiamo noi – la maggioranza di questi Paesi è legata da un’alleanza militare come la NATO e, anche considerando la recente democratizzazione dei Paesi dell’Europa meridionale ed orientale, l’Alleanza Atlantica si è preoccupata di inglobare la maggioranza di questi Stati man mano che essi diventavano democratici. Volendo spingere il concetto di democrazia all’eccesso, poi, si arriverebbe fino al paradosso messo in evidenza da James Lee Ray (1993): l’autore spiega che la teoria della pace democratica sarebbe pura retorica e che, seguendo una definizione molto restrittiva di democrazia, si arriverebbe a dimostrare che nella storia non sono mai esistite le democrazie, e che di conseguenza non possono esserci state guerre tra di esse.
Al contrario, se volessimo allargare la definizione di “democrazia”, rendendo meno stringenti i criteri per poter dichiarare uno Stato come democratico, sarebbe possibile stilare un elenco abbastanza importante di guerre e piccoli conflitti avvenuti tra Paesi di questo tipo. Thomas Schwartz e Kiron Skinner (2002) hanno stilato un elenco di conflitti tra Paesi democratici, mettendo in evidenza anche il fatto che le democrazie sono molto inclini a provocare guerre soprattutto nei primi anni. Proprio per designare le “nuove democrazie” che non hanno ancora una forma democratica consolidata, Tod Robert Gurr, studioso recentemente scomparso, ha coniato il termine di “anocrazia” (cfr. Ze’ev & Abdolali, 1986), andandole quindi ad escludere dalle vere e proprie democrazie.
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Infine, Douglas Gibler ed Andrew Owsiak (2017) hanno confutato la teoria affermando che sarebbe la pace a permettere la nascita delle democrazie, invertendo dunque il rapporto di causa-effetto: prendendo in considerazione diversi Paesi, i due studiosi hanno dimostrato come solamente una volta sedati i conflitti e risolte le dispute con altri Stati i Paesi tendono a sviluppare forme di governo democratiche. Tale punto di vista è stato appoggiato anche dal politologo tedesco Christian Welzel, teorizzatore dello “human empowerment process”, secondo il quale “la trasformazione umanistica della civilizzazione rende le società progressivamente in potere del popolo” (2013, p. 6).
Ad ogni modo, sia gli studi di Schwartz e Skinner che James Lee Ray hanno portato ad una stipulazione di numerose guerre o piccoli conflitti avvenuti tra Stati democratici. Alcune di queste riguardano il mondo antico o secoli come il XVIII ed il XIX in cui il concetto di democrazia era forse troppo lontano da quello comunemente utilizzato oggi, anche se resta significativo l’esempio della guerra messicano-statunitense (1846-1848). Tuttavia, possiamo evidenziare l’esistenza di diversi conflitti tra democrazie dopo la seconda guerra mondiale:
- i conflitti armati tra Israele e Libano, entrambi Paesi nei quali si tengono elezioni multipartitiche;
- i conflitti armati tra India e Pakistan;
- la cosiddetta “guerra del calcio” tra El Salvador ed Honduras, nel 1969, avvenuta in occasione di una partita di qualificazione per i Mondiali del 1970;
- il conflitto tra Turchia e Cipro nel 1974;
- le due guerre tra Ecuador e Perù, nel 1981 e nel 1995, quest’ultima di maggior importanza in quanto a quell’epoca entrambi i Paesi avevano certamente regimi democratici abbastanza consolidati.
In conclusione, riteniamo di dover confutare la veridicità della teoria democratica, in quanto basata su definizione eccessivamente vaghe ed aggiustabili caso del caso, trasformando questa teoria in un tipico caso di profezia autoavverante. Inoltre, abbiamo motivo di crede che la teoria della pace democratica sia piuttosto uno strumento propagandistico per diffondere l’idea della superiorità del modello politico ed economico occidentale oggi vigente, mettendo dunque a tacere qualsiasi opinione dissenziente con il pensiero dominante, bollandola come anti-democratica o utopistica.
BIBLIOGRAFIA
ARCHIBUGI, D. (2008), The Global Commonwealth of Citizens. Toward Cosmopolitan Democracy
CLEMENS, W. C. (2009), “Complexity Theory as a Tool for Understanding and Coping with Ethnic Conflict and Development Issues in Post-Soviet Eurasia”, International Journal of Peace Studies.
DOYLE, M. W. (1983), Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs.
GIBLER, D. M. & OWSIAK, A. (2017), “Democracy and the Settlement of International Borders, 1919–2001”, Journal of Conflict Resolution.
MEARSHEIMER, J. J. (1990), “Back to the Future: Instability in Europe after the Cold War”, International Security.
PUGH, J. (2005), “Democratic Peace Theory: A Review and Evaluation”, CEMPROC Working Paper Series.
RAY, J. L. (1993), “Wars between democracies: Rare, or nonexistent?”, International Interactions.
SCHWARTZ, T. & SKINNER, K. K. (2002), “The Myth of the Democratic Peace”, Orbis.
WELZEL, C. (2013), Freedom Rising: Human Empowerment and the Quest for Emancipation
ZE’EV, M. & ABDOLALI N. (1986), “Regime Types and International Conflict, 1816–1976″, Journal of Conflict Resolution.