Esistono personalità nella storia del Novecento che meriterebbero molto più spazio nei libri di storia di quanto non sia loro dedicato. Una di queste è Malcolm X, nato Malcolm Little in Nebraska, nel cuore degli Stati Uniti d’America, nel 1925 e morto oggi cinquantuno anni fa a New York, città che lo elesse profeta e criminale.
Malcolm X è giustamente ricordato come uno dei personaggi politici più importanti della storia americana del secondo dopoguerra, ma probabilmente fu anche molto di più.
Il lascito intellettuale e le azioni di Malcolm X non furono solamente funzionali per l’emancipazione della popolazione afroamericana, furono un simbolo di ribellione legittima, di libertà in una nazione che predicava democrazia e liberà al mondo, mentre al suo interno ruspava diritti umani come se nulla fosse. Malcolm X fu un’icona della razionalità.
Malcolm X ha rappresentato l’altra faccia dell’America, quella che al “porgi l’altra guancia” preferiva “occhio per occhio, dente per dente”, e tuttavia non si rese mai veramente pericoloso, mai fu causa di disordini e soprusi, da quando iniziò la sua carriera politica non fu mai coinvolto in azioni violente.
Nato da un padre predicatore e sostenitore di Marcus Garvey, successivamente assassinato da fanatici razzisti, e dalla madre Louise Little, che finirà in una clinica psichiatrica, Malcolm fu il settimo di undici figli, quasi tutti dispersi in varie famiglie di tutori. Nel 1946 fu arrestato per furto in appartamento e condannato a otto anni di prigione, nel carcere di Charlestown, in prossimità di Boston. Qui conobbe la “Nation of Islam“, un movimento afroamericano, guidato allora dal carismatico leader Elijah Muhammad, che profetizzava la teoria dell’afroislamismo, seconda la quale i discendenti dello schiavismo americano dovrebbero riabbracciare l’Islam, la religione predominante dei loro paesi d’origine e dell’Africa in generale. Vedendo la possibilità di redenzione, Malcolm X aderì senza riserve al movimento, e inizialmente non si preoccupò di verificare se gli insegnamenti di Elijah Muhammad fossero compatibili con l’Islam canonico. Fu durante i primi anni di militanza nella Nation of Islam che Malcolm assunse il cognome “X”, un’incognita che rappresentava il rifiuto di accettare il passato schiavista dei suoi avi e di tutta la popolazione nera d’America. La “X” sarebbe stata svelata con il vero nome nel momento in cui tale condizione di oppressione possa dichiararsi conclusa.
La prigione è stata per Malcolm un vero e proprio luogo di rigenerazione, non solo perché fu il luogo in cui incontrò la sua nuova fede, ma soprattutto perché ebbe modo di recuperare gli anni di studio e di formazione persi. Per sua stessa ammissione, pochi beneficiarono degli anni di reclusione come beneficiò lui stesso. Studiò interrottamente, spesso anche di notte, e ciò gli danneggiò la vista, s’interessò in particolare alla storia dei popoli, al diritto e alla linguistica, arrivò addirittura ad analizzare interi vocabolari. Con le proprie forze arrivò a capire l’ambiguità dell’establishment e delle istituzioni religiose. Senza saperlo stava forgiando la spada con cui avrebbe combattuto fino alla morte.
Quando uscì di prigione si prodigò come nessuno prima di lui nella causa della Nation of Islam, e questa crebbe esponenzialmente. La gelosia che Malcolm X suscitò tra gli stessi membri del movimento fu causa della sua morte, ma, come sospettava lui stesso, nella sua distruzione furono coinvolti addirittura i servizi segreti americani – tesi che ovviamente non fu mai del tutto provata.
Durante i primi anni di militanza, Malcolm X si distinse per la durezza e il cinismo dei suoi discorsi pubblici. La sua rabbia e la sua determinazione erano però sempre soppesate da un uso sapiente e magistrale del linguaggio. Le sue analisi erano chirurgiche e spietate, le sue metafore efficaci, i suoi esempi calzanti, il suo atteggiamento era sempre controllato ed educato.
Malcolm sosteneva sempre che se esiste un linguaggio, questo andrebbe utilizzato per quello che è. Molti dei proclami fatti da leader politici a lui contemporanei rivelavano menzogne, compromessi o semplicemente poca efficacia.
Una delle sue tante battaglie riguardava l’uso del termine integrazione, adoperato quasi sempre con un’accezione sbagliata. Malcolm X sosteneva che tale termine possiede un significato negativo e non di apertura, come invece dichiarava Martin Luther King, paradossalmente suo rivale politico. Se si analizza il verbo integrare, questo significa rendere intero e perfetto ciò che è incompleto o insufficiente, inglobare una parte e annullarla. Per Malcolm X il fatto di voler integrare i neri nella società americana significava di fatto annichilirli, annientare la loro cultura. Non è un caso che oggi chiamiamo integralismo ciò che identifichiamo come il cancro della società islamica contemporanea. É quantomeno curioso che la parola integralismo, di cui ci preoccupiamo, possieda la stessa radice della parola integrazione, che invece invochiamo con tanta convinzione.
Quando era ancora sotto l’egida della Nation of Islam, Malcolm X sosterrà la separazione delle razze, proponendo una sorta di razzismo al contrario. Quando invece si distaccherà dal movimento e si rese autonomo, gridò alla convivenza pacifica, al diritto di vivere con eguali diritti di qualsiasi altro essere umano che calpesta la terra, e di praticare questa via con ogni mezzo necessario, e lo disse con una tale forza intellettuale che tutte le controversie che l’hanno riguardato negli anni appena precedenti potevano disperdersi come nebbia al sole.
Malcolm X ebbe la dignità e la determinazione di rimettersi in discussione, di accusare solamente se stesso per gli errori commessi, di morire per un bene superiore.
Spesso definito “musulmano negro comunista“, più o meno la rappresentazione del diavolo per il repubblicano medio, Malcolm X fu per lo più un rinnegato del suo tempo, ma, proprio per la sue capacità dialettiche immortali, rimane un faro immenso per tutte le generazioni successive alla sua scomparsa.