In questi giorni si è parlato di Afghanistan soprattutto dopo che Donald Trump ha annunciato il prossimo dimezzamento del contingente statunitense presente in quel Paese (da 14.000 a 7.000), dopo oltre diciassette anni di permanenza a stelle e strisce. La decisione di Trump, assai contestata da diversi vertici militari, si affianca all’ancor più clamoroso annuncio di voler ritirare completamente i propri militari da una Siria ancora lontana dall’essere tornata alla stabilità. Dare un giudizio sul provvedimento del presidente degli Stati Uniti d’America diventa a questo punto tutt’altro che semplice: da un lato, infatti, sembrerebbe porre fine all’escalation imperialista della presenza statunitense nell’area mediorientale e dell’Asia centrale, dall’altro, però, rischia di lasciare nel caos più totale due Paesi che gli stessi USA hanno contribuito a destabilizzare ed a portare alla guerra interna.
L’Afghanistan, in particolare, può essere difficilmente considerato come un Paese unitario, e questo oramai da moltissimi anni. Ricordiamo che – come ha pubblicamente ammesso Hillary Clinton – la crisi afghana ebbe inizio quando, per limitare l’influenza sovietica in quel Paese, Washington decise di finanziare ingentemente quegli estremisti islamici all’epoca chiamati “mujaheddin” (patrioti), ma che poi sarebbero divenuti di fatto i talebani. Il governo centrale, ancora oggi, ha un controllo talmente limitato che, durante il proprio mandato presidenziale, Hamid Karzai poteva essere considerato più come un “sindaco di Kabul” che come un capo di Stato.
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Uomo di George W. Bush, Karzai si vide consegnare le chiavi del Paese sin dall’inizio dell’invasione statunitense, che il 22 dicembre 2001 venne scelto come presidente ad interim senza nessuna legittimazione, ma semplicemente perché scelto da un congresso di politici afghani in esilio, riunitosi a Bonn. Nel 2004, delle elezioni improvvisate videro Karzai ottenere il primo mandato presidenziale ufficiale, sebbene a votare fu poco più della metà degli aventi diritto, mentre nel 2009 solamente dei brogli permisero all’uomo di Washington di ottenere la riconferma ai danni del leader dell’opposizione Abdullah Abdullah.
Durante la sua presidenza, Karzai fu accusato da molte fonti di avere stretti rapporti con i trafficanti di oppio e relazioni sospette con alcune multinazionali del petrolio, tanto da essere definito “il capo di una mafia senza popolarità tra la gente” da Igor Rodionov, che fu comandate delle truppe sovietiche in Afghanistan. Alla fine del secondo mandato di Karzai, il testimone passò ad Ashraf Ghani, già ministro delle Finanze, ma soprattutto uomo ancora più prono alle volontà statunitensi, tanto da essere accusato di “tradimento della nazione” dal suo predecessore. Anche l’elezione di Ghani avvenne con dei clamorosi brogli ai danni di Abdullah Abdullah, che al primo turno si era assicurato il 45% delle preferenze, prima di subire una inspiegabile rimonta di quattordici punti percentuali al ballottaggio. Per raggiungere un accordo, al quale lavorò John Kerry come mediatore, Ghani propose ad Abdullah il ruolo di “capo esecutivo”, una carica istituita ad hoc che ricopre tuttora, annunciando però che i risultati definitivi del ballottaggio delle elezioni presidenziali non sarebbero mai stati pubblicati (!).
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Questa breve introduzione sulla storia recente dell’Afghanistan ci porta infine alle due tornate elettorali in programma nel 2018 e nel 2019. Lo scorso 20 ottobre, infatti, i cittadini si sono recati alle urne per le elezioni legislative, che prevedevano il rinnovo della composizione della Casa del Popolo, il parlamento unicamerale composto da 250 seggi. I risultati, che dovevano essere ufficializzati entro il 20 dicembre, non sono però mai stati pubblicati, a causa di seri problemi nel sistema di identificazione degli elettori. Di conseguenza, è stato già annunciato che le elezioni presidenziali, inizialmente programmate per aprile, verranno rinviate di “diversi mesi” (si parla di giugno o addirittura novembre). Tale provvedimento andrà però ad infrangere i dettami costituzionali, secondo i quali le elezioni presidenziali si dovrebbero tenere entro e non oltre il 22 aprile 2019. La commissione elettorale, dal canto suo, afferma di continuare a lavorare sul conteggio dei voti delle elezioni legislative, i cui risultati verranno comunque ritenuti validi, ma di essere costretta a rimandare le presidenziali per non andare incontro allo stesso problema.
Il caso dell’Afghanistan, dunque, ci mostra – al pari di Iraq, Siria o Libia – come l’interventismo imperialista statunitense abbia a lungo contribuito a destabilizzare e frammentare interi Paesi, facendone cadere i governi legittimi ed acuendo così le tensioni tra diversi gruppi etnici, religiosi e politici. Se, da un alto, come detto in precedenza, Trump sembra voler rompere con questa tradizione, dall’altro rischia di lasciare due Paesi fragili in balia delle onde (in Siria si aggiunge poi il pericolo di una pulizia etnica del popolo curdo da parte della Turchia). Secondo l’analista politico afghano Haroun Mir, infatti, il ritiro delle truppe statunitensi gioverà unicamente ai talebani, che sembravano pronti ad offrire delle concessioni sul tavolo delle trattative con il governo centrale: “Sfortunatamente – ha dichiarato Mir a The Washington Post – la tempistica del ritiro delle truppe arriva proprio quando si stava cercando di convincere i talebani ad accettare una soluzione, ed in una fase cruciale della transizione politica”, un chiaro riferimento alle delicate elezioni presidenziali di cui sopra. “Ora – ha continuato – i talebani non avranno ragioni per offrire concessioni significative”. Parere condiviso anche da Michael Kugelman, studioso dell’Afghanistan presso il Woodrow Wilson International Center for Scholars di Washington, intervistato dallo stesso quotidiano capitolino: “Con le truppe statunitensi che inizieranno il ritiro, gli insorti otterranno un grande vantaggio sul campo di battaglia, ed i talebani avranno più ragioni per imbracciare le armi piuttosto che per deporle”.