Mi chiamo Fulgenzio e sono un angelo. Se mi immaginate alto e bello, capelli biondi e occhi azzurri, spalle larghe e ali dissimulate nel dorso, vi sbagliate di grosso. Non sono giovane, sono basso e tarchiato, pronunciatamente stempiato, naso camuso e occhi scuri senza luminosità. Forse sono stato concepito così per confondermi meglio con le altre persone, per non essere notato e, pertanto, poter svolgere al meglio il mio compito. Quale? Ma è ovvio, proteggere gli uomini dal male, quello procurato da altri uomini o da loro stessi. Gli uomini, o meglio un uomo. Ogni angelo, infatti, ha un solo incarico, un solo protetto. Il mio si chiama Aldo Concina e fa il commerciante.
Ogni mattina lo seguo mentre si reca al lavoro. Esce di casa puntualmente alle 7 e mezzo, si mette alla guida della sua automobile e misurandosi a ogni metro con il traffico cittadino raggiunge un grande magazzino all’ingrosso di articoli per la casa, situato all’estrema periferia. Là si chiude nel suo ufficio e vi rimane per tutta la giornata, trattando tramite il telefono e il computer con i fornitori, i clienti, le banche. Ora, non è che io lo segua materialmente, mi basta chiudere gli occhi e concentrarmi un poco e subito riesco a vederlo, come se una invisibile telecamera agisse per me riprendendo ogni istante, ogni movimento del mio uomo. Fa parte delle mie doti nascoste di angelo. Così, posso essere sempre vicino al mio protetto, posso vedere e sentire tutto, come fossi presente. Essendo un angelo, ho poteri ben più ampi di questi: posso, se mi concentro perbene, percepire anche le emozioni e i sentimenti che si agitano nell’animo del mio protetto.
Vi chiederete, giacché continuo a chiamarlo “il mio protetto”, in quale modo io riesca a proteggerlo. Semplice: poiché ogni avvenimento funesto avviene in un momento ben preciso, collocabile secondo le convenzioni umane in una data e un’ora, precise fino al centesimo di secondo, io faccio in modo che in quel preciso istante il mio protetto sia fuori dal tempo, ovvero che il tempo per lui compia un salto. Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, fu ucciso esattamente il 22 novembre 1963 alle ore 12.30 locali, a Dallas, per mano di un attentatore. Da quell’attentato si sarebbe salvato se la sua vita non avesse incluso l’istante che, sempre per convenzione, definiamo come 22 novembre 1963 ore 12, 30 minuti, 15 secondi.
Dov’era, vi domanderete, il suo angelo in quel momento? Perché non ha messo in atto il “sistema di salvataggio” che ho appena descritto? A questo punto devo spiegare che gli angeli come me hanno sì il compito precipuo di proteggere la persona alla quale sono assegnati, ma che possono, secondo la loro coscienza, decidere come devono andare le cose. Per una curiosa coincidenza della Storia, erano ancora una volta le 12.30 del mattino quel 20 luglio 1944, quando Adolf Hitler sarebbe dovuto morire a causa della deflagrazione di un ordigno posto sotto al tavolo della riunione che stava presiedendo. Ma, come sappiamo, non morì. Uscì dall’inferno di calore e schegge metalliche quasi indenne, come se non fosse stato là in quel preciso momento.
Ora, guardando a questi due, casuali ma non troppo, esempi, qualcuno potrebbe pensare che piuttosto che angeli, noi siamo demoni. Creature diaboliche che salvano dalla morte un dittatore folle e sanguinario e lasciano invece che muoia un presidente democratico che la maggioranza dell’umanità ritiene giusto e saggio.
Oppure, più semplicemente, siamo fallaci, maldestri, ci sbagliamo troppo spesso confondendo persone, istanti, intendimenti. In poche parole, siamo come gli esseri umani di cui abbiamo le sembianze. C’è anche una terza ipotesi, non meno credibile delle altre due: noi angeli potremmo decidere della vita o della morte delle persone in base a criteri che non sono esattamente quelli stabiliti dall’umanità, ma da altre imperscrutabili leggi.
O, più semplicemente, i nostri. Un angelo, come un avvocato, deve difendere sempre il proprio protetto, anche se è un criminale. Ecco allora che l’angelo di Hitler non avrebbe fatto altro che il proprio dovere, e bene anche! Almeno in quella occasione, almeno fino a quando egli non ha ritenuto che fosse venuto il momento per il dittatore tedesco di lasciare questa terra. Perché noi angeli dobbiamo proteggere ma non ci è dato alcun potere di immortalità sui nostri protetti, che, quindi, prima o dopo devono cessare di vivere.
Vi chiederete, ora, quante volte io abbia dovuto mettere in atto il cosiddetto “sistema di salvataggio” a favore del mio protetto. Vi risponderò: diverse. Una volta, ad esempio, Aldo Concina stava viaggiando in autostrada, in direzione di Milano dove doveva incontrare un industriale per discutere di una certa fornitura. A un certo punto l’automobile inizia a fare i capricci, il motore perde giri, rallenta, in un modo che Aldo non può non accorgersene. Lui allora decide di accostarsi vicino al guard rail, decelera gradualmente, si ferma, spegne il motore e sta per scendere dalla vettura. Ricordo come fosse ieri, era il 12 aprile 2008, alle ore 9.44 e io sapevo che il 12 aprile 2008 alle ore 9.45, in quel preciso tratto dell’autostrada, sarebbe passato un Tir diretto in Austria il cui autista, assonnato per aver guidato tutta la notte, avrebbe sbandato invadendo con una parte del mezzo la corsia di emergenza. Detto, fatto: dalla vita di Aldo viene cancellato l’istante del possibile impatto, e così il Tir sfreccia veloce accanto alla sua vettura, sfiorandola e facendola dondolare per lo spostamento d’aria, ma senza alcuna conseguenza. Oppure quell’altra volta, ricordo altrettanto bene: ad Aldo Concina piace sciare e ogni anno si concede una settimana di vacanza a Courmayer. Mentre sta scendendo a forte velocità lungo una pista per sciatori esperti, ecco che dal fianco di una montagna si stacca un grosso blocco di neve e inizia a rotolare lentamente verso valle. Aldo non si accorge di niente, ma io naturalmente sì. Sono le 11.30 del 21 febbraio 2010, l’impatto potrebbe avvenire alle 11.31 esatte. Allora cosa faccio? Zac! Taglio via quel minuto dalla vita di Aldo Concina. Cancellato, eliminato, mai esistito. La valanga precede di un nulla quell’uomo che scendeva a forte velocità sugli sci, il quale resta sbigottito pensando al pericolo che ha corso. In realtà, non sa quale reale minaccia stava per abbattersi su di lui, né come abbia potuto sfuggirgli.
Ma basta coi ricordi. Sono le 19.25 del 5 giugno 2012 e come ogni sera il mio protetto sta per lasciare il lavoro. Anzi no. Stasera ha deciso di trattenersi ancora una mezz’ora per finire di elaborare un ordine. Alle 19.30, puntuali, i suoi dipendenti lasciano il magazzino. Aldo Concina resta solo, la luce della lampada accesa a illuminare la scrivania, le dita che picchiettano sui tasti del computer, lo sguardo fisso sul monitor. Ore 20.00, la scena non cambia. D’un tratto, però, Aldo sente distintamente un rumore provenire dal magazzino. Allora si alza e va verso il vetro dal quale è possibile osservare la zona dove sono stipate le merci. I corridoi fra gli scaffali sono poco illuminati, perciò non riesce a vedere se qualcuno si è nascosto proprio lì. Quindi si siede di nuovo e torna al suo ordine. Passano due minuti, altro rumore. Stavolta Aldo Concina è convinto che ci sia qualcuno nel magazzino. Così apre il cassetto ed estrae la pistola, una calibro 7.65, controlla che sia carica e si alza. Apre la porta, scende la scaletta di ferro che dà sul magazzino, si ferma un attimo e si guarda attorno. Nessuno, nessun rumore. Avanza verso gli scaffali tenendo bene in pugno l’arma. Giunto al primo corridoio si ferma per osservare meglio l’ambiente. Ecco che allora, come dal nulla sbuca fuori un uomo vestito di scuro, che gli punta una pistola alla nuca.
– Buttala – gli dice – fa’ come ti dico, altrimenti sei morto.
Aldo ubbidisce, lancia la pistola a un metro dai suoi piedi.
– Bene – fa l’intruso – e ora andiamo di sopra, dove tieni i soldi.
Aldo e l’uomo che lo tiene in ostaggio salgono la scaletta ed entrano nell’ufficio.
– Apri la cassa, – intima l’uomo – aprila e prendi tutto quello che c’è dentro.
Aldo esita, prende tempo, cerca di elaborare una strategia per ribaltare la situazione a suo favore.
– Dai, muoviti, o vuoi che ti sparo? – gli grida concitato l’uomo.
Aldo allora capisce che non c’è più tempo da perdere. Apre la piccola cassaforte dove custodisce l’incasso di quei giorni. Agli occhi dell’uomo con la pistola appare una pila di banconote tenute insieme con gli elastici, a occhio devono essere circa quarantamila euro. L’uomo è eccitato alla vista del denaro.
– Prendi i soldi e mettili in questa borsa – ordina.
Aldo ubbidisce impotente. Prende le banconote e le infila lentamente nella borsa che l’uomo gli porge aperta.
– Ecco, ora chiudi la borsa e stenditi a terra, le mani bene in vista sulla testa… sennò… pum! – e fa il gesto di alzare la pistola. Aldo allora fa per chinarsi ma improvvisamente si rialza e cercando di cogliere di sorpresa l’aggressore gli si scaglia contro. I due iniziano una violenta lotta, un corpo a corpo in cui Aldo tenta di disarmare l’uomo per allontanare da sé la minaccia di morte, con l’obiettivo finale di sventare la rapina.
Ecco che i loro corpi rotolano sul pavimento, fin quasi a raggiungere la scaletta di ferro; Aldo trattiene con forza il braccio del rapinatore, impedendogli di mirare contro di lui. Anzi, per un momento sembra riuscire a orientare la pistola in direzione opposta, basterebbe un altro sforzo per far partire un colpo e neutralizzare l’aggressore. Restano così per lunghi, interminabili minuti, gemendo entrambi per lo sforzo. È a questo punto che io dovrei intervenire. Come ho già fatto altre volte, al momento fatidico dovrei fare in modo che Aldo Concina non esista, non sia presente all’istante esatto stabilito per la sua morte, in questo modo evitandola. Anzi, potrei fare di più. Potrei fare in modo che sia Aldo a colpire il rapinatore, salvando così al tempo stesso la propria vita e i propri soldi. Ma a noi angeli questo non è concesso. Non possiamo causare la morte di qualcun altro per salvare i nostri protetti e non possiamo mettere in atto salvataggi per scopi che non siano meramente quelli di preservare la vita, tanto meno quindi per denaro. Intanto i due contendenti stanno per esaurire le forze, molto presto uno di loro prevarrà sull’altro e, molto probabilmente, lo ucciderà. Cosa aspetto? Mi comporterò come l’angelo di Hitler, fedele fino in fondo alla sua missione, oppure come quello di Kennedy, che spinto da chissà quale motivazione personale (a suo tempo si parlò anche di cospirazione…) lasciò morire l’uomo che avrebbe dovuto proteggere? Mentre faccio questa riflessione, ecco che sento partire un colpo. Poi il silenzio. Nella penombra della sera vedo un uomo vestito di scuro fuggire di corsa dal magazzino tenendo in mano una borsa. Ecco, viene verso di me, che lo attendo nell’ombra, mi raggiunge.
– Tutto a posto – mi dice – secondo i nostri piani.
– Bene – faccio – li hai contati?
– No, ma a giudicare dal volume e dal taglio delle banconote devono essere almeno quarantamila.
– Ventimila per uno – faccio.
– Dividiamo e non cerchiamoci più, non voglio più incontrarti – dice.
– Neanche io – rispondo.
– Rimorsi? – fa poi con un sogghigno.
– No, perché dovrei? Perché ho lasciato che Concina morisse? Lo ha voluto lui.
– Che vuoi dire?
– Se ti avesse lasciato prendere i soldi senza reagire, ora sarebbe ancora vivo. Si è comportato in modo davvero insopportabile, per me: mettere a repentaglio la propria vita per denaro… un mucchietto di pezzi di carta. Un gesto incomprensibile e inaccettabile anche per un angelo protettore come me.
– Un angelo che, però, i soldi non li disprezza affatto…
– Basta, ognuno per la sua strada – dico spazientito.
– Sì, ma prima di lasciarci per sempre voglio farti quella domanda che ho in serbo da tanto tempo.
– Fa’ pure.
– Dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?