Quando sono arrivata in Italia per studiare, a 18 anni, mi sono resa conto che qui il fatto che i miei non avessero un cognome illustre, non fossero docenti universitari o proprietari di una grande azienda, mi avrebbe reso la vita più difficile.
Nonostante il mio 110 e lode, nonostante l’impegno e la passione, infatti, non sono mai riuscita ad ottenere il lavoro che mi ‘spettava’. Ho vissuto di stage, di contratti a termine, di periodi di attesa fino al prossimo rinnovo, fino a mollare tutto con la nascita di figlio per sperare, in un futuro, in un impiego diverso da quello per il quale ho tanto studiato. A 31 anni e con un figlio piccolo da crescere, l’incazzatura che mi tormentava a 25 mi ha abbandonato e ha preso il suo posto la preoccupazione per quello che non potrò dare a Riccardo.
Io e mio marito, infatti, non siamo di “famiglia importante”, non abbiamo creato un’azienda, non abbiamo fatto una carriera politica influente e viviamo per comprare il pane quotidiano.
Nostro figlio, quindi, dovrà partire da zero. Senza spintarelle, senza un “posto” già assicurato, senza un nome che gli farà da garanzia. E questo, nel paese dove la meritocrazia non esiste, significa restare indietro. Come è successo a noi. Significa accontentarsi di quello che arriva, non realizzare i propri sogni e lottare tanto per ottenere poco.
Quando metti al mondo un figlio la prima cosa alla quale pensi è quella di proteggerlo, garantirgli un presente e un futuro felice, sereno, completo. Dargli tutto. Se da piccolo gli basta un bacio e un giochino colorato, da grande le sue esigenze cambieranno e si passerà dall’ultimo modello di cellulare, al motorino, fino ad arrivare al corso universitario ambito e all’appartamento dove vivere da solo. Certo puoi insegnare a tuo figlio che deve farcela da solo. Ma quei “figli di”, anche da soli hanno tutto facilitato: un lavoro assicurato, una carriera promettente, un futuro sicuro. Mio figlio no. Studierà tanto e io saprò bene che quasi sicuramente non farà mai quello per cui si è ipegnato. Farà stage, tirocini non retribuiti, vincerà borse di studio e magari lavorerà tanto per potersi permettere un master. Ma poi, quando le bollette inizieranno ad arrivare si renderà conto che con i sogni non si mangia e allora scenderà alla pizzeria d’asporto sotto casa e chiederà un lavoro serale.
Con l’età i suoi sogni cambieranno. Si innamorerà, avrà una famiglia e anche lui diventerà genitore. E allora capirà come si possono sentire una madre e un padre che non hanno potuto dare al proprio bambino tutto quello che lui desiderava e meritava, solo perché questa nostra società impone che non ci sia solo “quello per cui hai studiato, ti sei impegnato, hai lavorato”, ma ci sia prima molto prima, quello che sei, quello che sono i tuoi genitori, i tuoi nonni, la tua famiglia. E questo a me, mamma di un bimbo di quasi 2 anni, mi fa proprio schifo. Perché io sogno di poter dire a Riccardo: “avrai quello per cui ti impegnerai”, “studia e sarai premiato”, “sii onesto e verrai ripagato con la stessa moneta”, “impegnati e vedrai i frutti”. Frasi che i miei genitori hanno detto a me. E invece sono false, e invece non le penso perchè non ci credo più. Forse gli mentirò e le dirò comunque, ma dentro me, nel dirle, penserò: “piccolo mio, non è vero…”. E questo è triste.