Otto mesi dopo l’introduzione del salario minimo orario in Germania è tempo di primi bilanci. La buona notizia che smentisce le previsioni catastrofiche della vigilia, è che non c’è stata la moria di posti di lavoro. Secondo, ne ha approfittato – dati alla mano – la fascia di lavoratori scarsamente qualificati, fanalini di coda nella classifica delle retribuzioni.
Fin dalla sua introduzione, il salario minimo orario di 8,50 euro ha fatto discutere. E’ la riforma che, dopo il tema dell’immigrazione, ha dato più preoccupazioni al governo di grande coalizione di Angela Merkel. Dopo tutto è stato uno dei pochi casi, se non l’unico, nel quale la cancelliera ha dovuto cedere terreno agli alleati socialdemocratici che, in tempo di campagna elettorale, ne avevano fatto il proprio cavallo di battaglia. Solo dopo lunghe trattative la proposta di una soglia retributiva minima è entrata nell’agenda di governo – con molti annacquamenti e compromessi a dire il vero. Senza i correttivi ritenuti necessari, la Cdu di Angela Merkel, soprattutto i settori del partito più legati al credo del libero mercato, mai avrebbe accettato di intervenire a colpi di legge sulle retribuzioni. Alla fine, il salario minimo è passato con un colpo al cerchio e uno alla botte, non per tutte le categorie professionali e con diversi tempi di attuazione. Sono esclusi, ad esempio, una parte di praticanti e stagisti, i giovani inseriti nell’apprendistato professionale e i lavoratori che riprendono a lavorare dopo un periodo di disoccupazione di uno o più anni. Ci sono poi settori economici nei quali il salario minimo non è ancora stato sottoscritto e bisognerà attendere il 2017.
Pur in versione annacquata il Mindestlohn non ha mancato tuttavia di suscitare resistenze accanite. Non si può dire che il mainstream dell’economia lo abbia accolto con favore. Il fronte degli scettici, dagli industriali ai quotidiani paludati, lo ha bocciato prima di subito. L’argomento principe dei critici è che il salario minimo finisca per erodere i margini di guadagno e disincentivare le imprese a investire, con conseguente perdita di competitività e posti di lavoro.
Le cifre rese note in questi giorni dimostrano invece il contrario. Il numero degli occupati non è calato. I vantaggi più consistenti – si diceva – riguardano i lavoratori non qualificati o scarsamente specializzati, soprattutto nei Länder dell’est che soffrono di un divario salariale in confronto al resto del paese. Per loro le retribuzioni, rispetto a otto mesi fa, sono salite in certi casi di oltre il nove per cento. Contento il Dgb, il maggiore sindacato tedesco con sei milioni di iscritti, soddisfatti i socialdemocratici, contenta anche la Linke, il principale partito di opposizione, che però vorrebbe una soglia minima più alta. Ma questo non significa che si siano placati gli opposti schieramenti. La confindustria tedesca continua a temere un calo dell’occupazione, impedito finora solo da «congiunture favorevoli» e dal prezzo del petrolio ai minimi storici. A rischio sarebbero soprattutto i minijobs, vale a dire i lavori part-time e a tempo determinato che negli ultimi anni in Germania sono letteralmente esplosi. Gli imprenditori tedeschi si lamentano dell’eccessiva burocrazia e la loro insofferenza per le «troppe regole da rispettare» trova una sponda nella Cdu. C’è però anche chi, dall’altra parte – la Linke, ad esempio – accusa il governo di fare pochi controlli sull’attuazione della legge, soprattutto nei settori più toccati dal lavoro in nero.
Per completare il bilancio, il salario minimo è il primo segnale in controtendenza in un mercato del lavoro che ha visto una divaricazione crescente tra professioni ben remunerate, in genere altamente specializzate, e lavori che a stento garantiscono l’autonomia economica. E’ una storia che va avanti da quando, dieci anni fa, l’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder volle e attuò – con il plauso dei suoi avversari – la riforma del mercato del lavoro nota con il nome “Agenda 2010”. Detto in breve, la legge abolì il vecchio sussidio di disoccupazione. Da allora, chi perde il lavoro percepisce solo per un anno un reddito erogato dallo Stato, agganciato in percentuale all’ultima retribuzione, dopo di che subentra un sussidio – noto come Hartz IV – vincolato di fatto all’obbligo per il disoccupato di accettare pressoché qualunque lavoro, indipendentemente dalla propria qualifica e dalla retribuzione. Chi non accetta, incappa nelle sanzioni. Ogni anno scattano oltre un milione di provvedimenti contro i percettori dell’Hartz IV. Di colpo, le imprese tedesche si sono ritrovate un nuovo esercito di lavoratori da inquadrare a costi ridotti in nuovi contratti a tempo determinato, in gran parte defiscalizzati – i minijobs, per l’appunto. La tanto nota competitività della Germania nelle esportazioni è non solo il frutto di tecnica ed efficienza, ma anche di un dumping salariale che è andato avanti in questi anni. Per aver sostenuto la riforma la socialdemocrazia tedesca ha pagato un duro prezzo in termini di consenso. Una parte consistente del suo elettorato tradizionale ha divorziato dal partito e si è spostato a sinistra, nel serbatoio della Linke. Da allora, la Spd non è stata più in grado di competere per la guida del paese, né ha più raggiunto le percentuali di un tempo. Da allora, la Merkel regna incontrastata. Oggi i numeri parlano chiaro. Nel dicembre dello scorso anno, quasi un milione e trecentomila tedeschi, pur svolgendo un lavoro retribuito, si trovavano nella necessità di richiedere il sussidio Hartz IV. Il loro salario non garantiva l’autosussistenza economica. A febbraio di quest’anno, il loro numero è sceso di 45.000 unità. Per effetto del salario minimo. Un piccolo segnale.