È lei che gira all’alba tra i rumori di una città sconosciuta.
Ti sarà capitato di vederla bella e luminosa raccogliere i sogni degli estranei. Accompagnata dal silenzio che si porta dentro e che pesa più degli anni di solitudine, Penelope comprende che ogni angolo di strada la riporta al ricordo di Ulisse.
Lei non riesce a sopportare quest’assurda assenza che ha dovuto accettare.
Dal pontile guarda il lago calmo e immobile e vorrebbe essere come lui.
Immagina che Ulisse spunti all’improvviso tra le pietre della città vecchia e che le accarezzi il viso mentre si tocca l’anello rigirandolo nervosamente intorno al dito. Lei sogna a occhi aperti e aspetta qualcosa che possa riaccendere la sua voglia di reagire all’ovvia competizione tra uomini indegni di un suo sguardo. Vorrebbe perdersi ancora tra le sue ciglia nascoste da occhiali scuri, bruciare libri e fare rivoluzione tra le bollicine che risalgono il calice colmo di vino bianco.
Penelope non ha più un posto dove andare, né un luogo da difendere o da lasciare. Vorrebbe solo dimenticare tutto l’amore confuso che ha provato per lui e che non riuscirà nuovamente a provare.
Penelope avrebbe voluto più forza per proteggere quei sogni e prendersene cura, ma li ha gettati nell’acqua con una pietra al collo per ogni partenza di Ulisse, seguita da coppie di germani reali. Continua a girare alla ricerca del nulla, nella speranza che questo silenzio che ha dentro si estenda all’intera città nuova fino ad arrivare a tutto il mondo, sigillando con due solchi la sua anima venduta a pezzi.
Com’è che gli anni sono passati così alla svelta nonostante la lentezza dei minuti?
Un’ennesima follia fatta nel nome della mancanza di una cura a quello che ha vissuto con lui.
Lei ha impegnato la sua vita per sopportare le notti senza lui in un letto troppo pesante, grande e vuoto. Un’intera esistenza che si è mossa senza pace in un equilibrio tra la profondità e la leggerezza, accarezzando l’inganno del tempo al sapore dei suoi baci nascosti.
Penelope era seduta sulla panchina del parco dove ogni mattina portava il suo fedele Argo a correre e pensava ininterrottamente che non lo aveva avuto mai davvero.
Chi sarebbe stato Ulisse se non fosse stato solo un uomo?
Lui era il re e quella era una storia messa in pausa troppe volte con lei ferma nell’attesa.
Aveva gli occhi grandi, limpidi e lucidi, invasi dal vento e dalle lacrime. Guardava la gente impegnata nell’imitazione della felicità. Indossava il suo ricordo e si sentiva appesantita e molto, molto vintage.
Erano trascorsi mesi, anni e lei era rimasta lì, al lago, in bilico, al margine di un giorno breve e intenso trascorso con lui, senza aver mai pensato nemmeno per una volta che fosse stato inutile e sbagliato, ma percepito semplicemente come l’invisibile impossibile, il più bello mai vissuto.
Lei non aveva mai dimenticato i suoi baci lunghi e profondi, mai dimenticato le sue mani sul suo corpo e l’amore fatto senza sosta, al margine del confuso rumore del vivere. Penelope aveva scelto di saziarsi di quell’istante in cui aveva sentito salire lungo la sua schiena un brivido formare il denso sapore della sua bocca.
Milioni di libellule leggere e dorate avevano scelto di posarsi accanto a lei e Argo si era fermato a osservarle.
A volte si era sentita inutile e stupida, ma chi ama non è mai né inutile né stupido. L’amore fa sperare, confondere, ridere e piangere… l’amore fa vivere.
È stupido chi non ama.
Penelope si era cucita addosso quella storia per non dimenticarla mai e l’aveva portata con sé, nelle altre storie vissute, l’aveva riempita di sospiri e di altro amore, l’aveva fatta avanzare nell’economia dei sentimenti e, infine, aveva trovato pace accanto ad Anfinomo, sebbene vi fosse carestia nel suo cuore.
Si sentiva succhiata dell’anima.
Argo si era accucciato ai suoi piedi stanco delle corse.
Negli angoli di una realtà soffocata e distrutta dalla cenere della finta guarigione, lei non voleva essere amata da chi si lasciava invecchiare.
Voleva essere finalmente libera.
Mentre il vento soffiava, sognava cieli sereni e milioni di stelle a osservarla. Cambiando la realtà in una favola sciolse tutte le paure e formò milioni di preghiere da intonare in memoria di quella notte consumata e divorata con Ulisse.
Argo aveva ripreso a correre nel parco. Aveva guarito già tante volte i suoi occhi e leccato amorevolmente le sue ferite e avrebbe continuato a farlo fedelmente.
Penelope aveva vissuto due storie strette tra vittorie e fallimenti, due sguardi schiusi alla luce e al buio figli del sole. Aveva sorriso e camminato un percorso salvifico verso l’equilibrio dell’anima.
Anfinomo era lì, pronto a scivolare sulle sue pillole di passione e sarebbe stato lì ogni volta che lei avrebbe voluto.
Penelope non smetteva di ringraziare tutto quell’amore che, seppur infinitesimo e incostante, aveva avuto la fortuna di stringere tra le dita.
Lei stava sorvolando il tempo e si era fermata all’interno di qualcosa di inaccessibile e unico.
In un raggio di sole appena accennato, ferma nel silenzio, mentre osservava l’acqua limpida e calma del lago, pensava che c’è qualcosa di peggio dei sogni svaniti: perdere la voglia di sognare ancora.
Il mostro della solitudine silenziosa si era sgretolato in una danza sotto il temporale.
Penelope ha concesso la possibilità di raschiare il ricordo per far uscire luce bianca e senso di vertigine e proteggere i mondi che si scontrano in una meravigliosa implosione.
La verità e la sua bellezza vola oltre lo sguardo di Ulisse impresso sul suo corpo.
Penelope gira ancora all’alba per raccogliere i sogni degli estranei e trasformarli in favole.
Avrebbe potuto chiudersi nel dolore e trasformare il suo ventre in un’asettica nave, invece nelle sue vene scorre miele, un nettare divino che rigenera il mondo.