Quello che segue è un reportage, in tre parti, della giornata del primo maggio milanese del 2015. In quella data cadeva l’inaugurazione del tanto atteso Expo: l’enorme esposizione universale a cui avrebbero partecipato nazioni da tutto il mondo. Per protestare contro quello che veniva percepito come un’ingente sperpero di denaro pubblico e il via libera a nuove pratiche di sfruttamento del lavoro, un ampio ed eterogeneo movimento si era messo in moto. Tantissime realtà e soggetti da tutta Europa si sono ritrovati in occasione della giornata dei lavoratori per imporre il loro “NO” e provare ad oscurare la sfarzosa festa inaugurale presieduta dalle più alte cariche dello Stato. Il risultato è stata una lunghissima giornata di scontri che si sono protratti fino a sera, di una tale radicalità e diffusione da lasciare basiti gli stessi organizzatori della rete No-Expo.
Nelle pagine che seguono – scritte subito dopo i fatti – l’autore intende ricostruire lo svolgimento delle ore più calde, riportando anche l’aspetto emozionale che ha accompagnato il susseguirsi degli eventi, integrando delle riflessioni nate dalla lettura di alcune opere sociologiche, come “Les temps des émeutes” dell’antropologo francese Alain Bertho. Un racconto in presa diretta che mette in evidenza le ragioni e la composizione di un fenomeno molto complesso e, che per un giorno almeno, ha segnato l’agenda politica mondiale.
Cicchino, birretta e via a ballare sotto cassa a ritmo delle sonorità più ignoranti degli ultimi anni. Iniziamolo così il corteo, che se poco-poco mi sbaglio, più tardi si balleranno ben altri ritmi. A birra terminata, Sissi ed io decidiamo di andare a vedere da vicino la componente più arrabbiata.
Lo spezzone “post-disobbediente” si sposta compatto, a muso duro, per mettersi a testa del blocco sociale, aumentando così i metri e le persone che li separano dal cuore arrabbiato del corteo.
Si compattano i primi cordoni tra i vari spezzoni. Riconosco un vecchio amico di Milano, tra le file di ragazzi e di ragazze che si tengono per braccio.
“Bella zio! Come stai? Siamo qui a difesa delle famiglie e dei bambini, nel caso le cose qui dietro dovessero degenerare.”
“Ma il percorso è sempre il solito?”
“No, la questura ci ha fatto cambiare all’ultimo.”
“Spiega allora a lei, che io Milano non la conosco così bene.”
I due si scambiano precise indicazioni geografiche di una città che conosco ancora troppo poco. Sfortunatamente…
Comprendo che si arriverà a Piazza Cadorna e poi si svolterà, per proseguire fino a Pagano che, se tutto mi è chiaro, non è poi così distante da Parco Trenno, dove molti compagni stanno trovando ospitalità in queste notti.
“Ma è previsto qualcosa?”
“Credo ci sarà un bel bordello.”
“Capito… proviamo ad andare un po’ avanti a vedere.”
“Ok! Bella: ci vediamo dopo!”
“Eh: speriamo!”
“…”
Ci salutiamo e ci avventuriamo verso il nucleo caldo della marcia. Pochi gli striscioni, quasi nessuna bandiera, molti curiosi e tanti, tanti ragazzi e ragazze dai vestiti tendenti al nero. Che cominciano la vestizione.
Magliette attorno al viso, con il collo usato come la visiera di una maschera da ninja. Equipaggiamento impermeabile, consistente in giacchetta e pantaloni, che viene attentamente indossato. Chi si allaccia con cura il casco. Chi si infila guanti ignifughi e tiene in tasca una bottiglia riempita ad acqua e Maalox. Chi copre ogni eventuale scritta e simbolo presente sul proprio vestiario, scarpe comprese, con del nastro adesivo nero. E un uomo in sedia a rotelle elettrica sfreccia con disinvoltura tra i gruppi di manifestanti. Porca miseria: ma Lello è venuto fin quassù da Roma?
Ma quanti saranno tutti quanti? Il gruppone funge da calamita sociale per un numero sempre maggiore di persone: giornalisti, curiosi, simpatizzanti, altri compagni attivi. Ben più che un centinaio. Si impiega cinque minuti buoni ad andare oltre quel mare nero. Credibilmente, si va ben oltre il migliaio.
Alla fine del blocco, una manciata di ragazzi regge uno striscione scuro, dai tenui caratteri bianchi scritti con lo spray. All You Need Is Love. E una molotov stilizzata usata come firma.
In un testo ormai datato, ma solo perché gli eventi lo hanno rapidamente superato, l’antropologo francese Alain Bertho nel suo “Le temps des émeutes” analizza e mette in relazione tra loro le numerose rivolte che si sono susseguite in giro per il mondo: dall’esplosione delle banlieue francesi del 2005, alle infuocate piazze greche dell’inverno 2008-09. Fiero sostenitore del metodo dell’osservazione diretta dei fatti, Bertho cerca per quanto possibile di leggere i fenomeni sociali nella loro interezza soggettiva, non limitandoli quindi a un semplice sintomo di congiunture sociali già note (pag. 50).
Il testo è stato pubblicato a metà del 2009: non ha modo di studiare i fenomeni insorgenti e assai più radicali che si sarebbero dati da lì a breve. Non si troverà dunque la descrizione delle primavere arabe, o delle sempre più radicali esperienze territoriali come i No Tav (sebbene ne si faccia cenno) oppure delle ZAD francesi, sempre più diffuse a resistenza della proliferazione delle grandi opere inutili.
Quello che prova a fare il professore francese è di tracciare delle linee comuni tra le diverse esperienze. Ne emerge un quadro dove spesso i protagonisti delle rivolte – che nella stragrande maggioranza dei casi agiscono in un contesto urbano – sono giovani provenienti dalle fasce più escluse delle reti sociali, per la maggior parte originari delle sterminate periferie metropolitane, non-luoghi dove i servizi al cittadino sono inefficienti, scarsi, se non del tutto assenti. Una componente del paesaggio metropolitano che si sente esclusa dalle opportunità che la società attuale sostiene di proporre: il loro furore si rivolge contro le vecchie democrazie che non onorano più le antiche promesse di uguaglianza (pag. 81).
I detonatori di questi complessi fenomeni sociali che prendono il nome di “rivolte” sono i più disparati. Possono andare da una partita di calcio a quello che è percepito come un abuso di potere da parte delle forze di polizia, possono avere una connotazione razziale come possono riguardare le condizioni di lavoro oppure il carovita, o la difesa del proprio territorio da devastazioni e speculazioni. Qualunque sia la ragione di base, ciò che spinge la componente giovanile a scontrarsi con la polizia in un conflitto che sarà certamente condotto ad armi impari, è la percezione diffusa di un profondo senso di ingiustizia. Poco importa se dallo scontro si riuscirà a sanare effettivamente questa prevaricazione: ciò che conta è l’agire, il mostrare che la misura è colma e che così non si può più andare avanti.
I meccanismi di risposta da parte dello Stato tendono ad assomigliarsi in qualsiasi parte del mondo: repressione immediata tramite l’intervento della polizia e silenzio sui fatti da parte della stampa. Bisogna evitare il contagio. Qualora non risultasse possibile ridurre a silenzio le proteste, allora si mettono in funzione i dispositivi di criminalizzazione e di oscuramento delle ragioni delle stesse, con l’artificiosa distinzione tra la componente buona e legittima dei manifestanti e la sua componente criminosa e irrazionale.
Ciò che una volta erano le strutture più autorevoli di mediazione dei conflitti sociali, i partiti e i sindacati, in occasione delle rivolte assumono la qualifica di conservatori dello status-quo, se non di veri e propri dispositivi anti-insurrezionali para-statali che affiancano la polizia nell’opera di repressione. La rivolta irrompe nell’agone politico tradizionale spesso senza preavviso e quando la si prevede, i tradizionali meccanismi di prevenzione – perquisizioni, arresti, intimidazioni … – non fanno che alimentare un clima di tensione già esistente.
La rivolta però non è politica, almeno non nel senso tradizionale del termine. Non chiede allo Stato di fare giustizia, ma tende a rompere ogni meccanismo di delega e cerca di farsi autonomamente giustizia. I giovani nelle strade mostrano che ogni mediazione tra gente e Stato – ciò che si chiama politica – oggi è venuta meno. Si afferma che la rivendicazione delle proprie ragioni e il farsi capire dalle istituzioni non passa più per la tradizionale traduzione politica, ma tramite un faccia a faccia che può essere violento. Essenzialmente si sostiene che la politica non esiste più, perché non esiste alcuna più possibile traduzione tra quello che è il proprio spazio di intellettualità e quello dello Stato. In questo senso, la rivolta è da intendersi più come un atto “post-politico” che “pre-politico” (pag.197).
Altro grande comune denominatore delle rivolte è quindi questo grande e diffuso senso di totale sfiducia verso lo Stato e la politica. Sfiducia che passa per il totale rifiuto di qualsiasi forma di interlocuzione e che si esprime con i mezzi ritenuti più idonei a seconda delle circostanze. Il ricorso a pratiche definite come violente non è che uno strumento in più da aggiungere alla cassetta degli attrezzi.
Si commette però un abbaglio a cercare una regia unica dietro la rivolta. La rivolta ha luogo per tutta una serie di circostanze che spesso sono fuori dalle possibilità di intervento degli stessi protagonisti. E gli attori in gioco non vanno visti come un’unica entità compatta e organizzata, bensì come una rete in continua evoluzione di singoli e di realtà eterogenee che spesso, prima di quell’evento non si conoscono e che faticano a tenere un contatto tra loro al termine dello stesso. Ciò vale pure tra le realtà più politicizzate e militanti.
Caratteristica è la scarsa organizzazione che precede la rivolta e una fatalistica adozione del principio “vediamo come si sviluppano le cose”. Lo scontro non è gestito da organizzati servizi d’ordine che si spartiscono competenze, ruoli e territori, ma da gruppi di affinità che agiscono e si muovono secondo le necessità – e le volontà – del momento. Questi gruppi di affinità, unione estemporanea e temporanea di soggetti diversi, così come si sono creati, si vanno a dissolvere: in attesa della prossima occasione.
Nei Paesi occidentali, o per lo meno in Europa, l’unica tattica comune e coordinata è l’adozione di un vestiario nero, o comunque tendente allo scuro. Il nero rende difficile l’identificazione da parte delle forze dell’ordine, permette ai manifestanti di confondersi tra loro, con il duplice effetto di offrire protezione a chi ne fa parte e di attirare l’attenzione di tutti gli altri manifestanti. Un implicito ma ben visibile invito ad andare a ingrossare le fila del “blocco nero”.
Finalmente riusciamo a lasciarci alle spalle il cuore pulsante, frenetico e arrabbiato della manifestazione. Abbiamo avuto premura di lasciarlo prima che evolvesse a livelli di furia cieca. Non perché non si fosse d’accordo, ma perché si è totalmente impreparati. L’unica cosa che si ha di nero è uno zaino in due, con dentro solo un unico, sparuto, solitario limone. Un po’ poco per resistere a una pioggia battente di lacrimogeni.
Sciamiamo per le zone sicure del corteo, cercando di capire meglio il da farsi. Proviamo a raggiungere la testa della manifestazione? Vediamo come vanno lassù le cose?
Girovaghiamo, gettando ogni tanto lo sguardo alle nostre spalle. Ogni volta ci si illude di poter riuscire a vedere qualcosa, di capire qualcosa oltre e sopra quel mare di teste. Ma c’è soltanto fumo. E non si riesce nemmeno a capire se sono fumogeni, lacrimogeni o il prodotto di qualche incendio.
A un certo punto, un vecchio viso amico. Pi! Saranno anni che non ci si vede: irrequieto e poliedrico artista del lato oscuro di questa metropoli schizzata.
Sta con amici e altra gente del suo giro. A quanto sento, non sono l’unico ad averlo riconosciuto …
“Minchia! Stavo a farmi un giro nella zona dei black bloc, quando alcuni cominciano a salutarmi, a darmi pacche sulle spalle, a stringermi la mano. Bella Pi! Ciao Pi! Che si dice Pi? Mentre si vestivano e la Digos faceva foto da tutte le parti. Ma vaffanculo! E dire che rompono tanto le palle sulla discrezione …”
A giudicare dalla sua felpona rossa, neppure lui pare troppo preparato per unirsi alla marmaglia. Si sarà pirati in un’altra occasione.
“Bella Ste! Allora, come stiamo? T’ha detto l’editore che siamo usciti con un nuovo libro? Guarda, ho una copia di ‘re/search milano’ proprio qui nello zaino.”
Senza nemmeno rendermi bene conto, mi ritrovo alleggerito di una ventina di euro, ma arricchito di un mattone che racconta il lato alternativo di una Milano che si conosce poco. Genuine storie di strada.
Dopo l’intermezzo letterario-commerciale si ritorna alla storia attuale. La strada è ancora lunga verso Pagano.
“Consiglio di muoversi veloci una volta arrivati a Cadorna: evitiamo di fermarci in quella piazza.”
Attraversiamo il piazzale a un passo quanto più rapido possibile, nonostante la calca di gente. Si sente sempre di più il peso delle trentamila persone. Osservo tutte le banche che ci sono e non posso fare a meno di pensare a come non ne rimarrà vetro su vetro, tra poco. Cazzi loro!
Il corteo è un continuo accelerare e rallentare. Allungare il passo per evitare di rimanere coinvolti dal bruciante fumo dei lacrimogeni della polizia, per poi fermare il ritmo ed evitare che si creino troppi spazi tra gli spezzoni, sfilacciando il corteo. La cosa peggiore che possa capitare è che la polizia carichi e arrivi a spezzare la manifestazione. Come si ribadisce più volte dagli impianti stereo: state vicini ai camion e non disperdetevi.
Noi, per rimanere uniti e non perderci tra la folla, ci vediamo costretti a improvvisare un cordone. Anche il blocco degli scrittori fa la sua comparsa…
Finalmente si arriva a Pagano, ma la marcia decide di proseguire. Almeno fino alla più vicina stazione della metropolitana aperta, per permettere a tutti di defilarsi in sicurezza.
Una leggera e continua pioggia ha deciso di accompagnare il congedo della manifestazione, ma prima di mollare tutto: pausa pipì. Sempre con la speranza che la polizia non sfondi, trovandoci con l’uccello in mano… Per fortuna i cordoni dei compagni reggono ancora, nonostante il fumo dei lacrimogeni inizii ad arrivare anche a Pagano.
Dobbiamo distendere i nervi. Prima di prendere la metro, ci prendiamo una birra ciascuno. Pi avanza di andare a rilassarci un po’ da lui. La pioggia aumenta sempre di più.