Il referendum è lo strumento di democrazia diretta più importante tra quelli previsti dalla maggioranza dei Paesi occidentali. Trattandosi di democrazie rappresentative, il volere dei cittadini resta spesso nel dimenticatoio nei cinque anni che separano una tornata elettorale e l’altra, ma i padri costituenti di quasi tutti gli Stati che si autodefiniscono democratici hanno inserito questo strumento, che può essere utilizzato in vari ambiti a seconda di quanto previsto dalla Costituzione dei vari Paesi. Negli ultimi anni, abbiamo però assistito ad una serie di esiti referendari che sono stati disattesi, in particolare quelli riguardanti i rapporti tra gli Stati membri e l’Unione Europea.
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Il tema sta tornando d’attualità negli ultimi tempi per via del faticoso processo che dovrebbe portare alla Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, che – lo ricordiamo – i cittadini di quel Paese hanno sugellato con il proprio voto popolare. Nonostante Londra non sia mai entrata con entrambi i piedi nel pantano di Bruxelles – l’esempio più lampante è la mancata adesione all’Euro ed il mantenimento della propria valuta personale – la realizzazione della Brexit si sta rivelando assai complessa, al punto che potrebbe presto portare alla fine del governo e della carriera politica di Theresa May. In molti hanno addirittura paventato una ripetizione della consultazione popolare circa la permanenza (“remain“) o l’uscita (“leave“) dall’Unione Europea, confermando il trend che si è visto negli ultimi anni: i risultati referendari ed il volere popolare sono sacri solo se confermano quanto agognato dalle élite continentali, mentre vengono disattesi, ignorati o ridimensionati quanto questi vanno a ledere gli interessi della classe dominante.
Di esempi, negli ultimi anni, ne abbiamo avuti davvero tanti, e di seguito ne ricorderemo solamente un paio, senza nessuna pretesa di esaustività, ma soffermandoci solamente sui casi più clamorosi e recenti, che vanno ad aggiungersi a quello della Brexit.
IL CASO DEL REFERENDUM GRECO
Era il 5 luglio del 2015 quando i cittadini greci furono chiamati alle urne per un referendum. Lungi dall’essere una richiesta circa la permanenza o l’uscita del Paese nell’Unione Europea e/o nella Zona Euro, il referendum indetto dal primo ministro Alexis Tsipras si riferiva unicamente all’accettazione o meno di due documenti redatti il 25 giugno da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. I due documenti, intitolati originariamente “Reforms For The Completion Of The Current Program And Beyond” e “Preliminary Debt Sustainability Analysis”, contenevano uno stato dei fatti circa la situazione economica greca, naturalmente secondo il parere delle tre istituzioni sopracitate, le cui proposte che furono però seccamente respinte dal popolo greco con un 61.31% di espressioni negative.
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Le successive mosse di Tsipras non hanno però rispettato l’esito del referendum. Già contestato dai comunisti del KKE (Κομμουνιστικό Κομμα Ελλάδας / Kommounistikó Komma Elladás), ma anche dell’ala sinistra del suo stesso partito, SYRIZA (Συνασπισμός Ριζοσπαστικής Αριστεράς / Synaspismós Rizospastikís Aristerás), il primo ministro ellenico fu accusato di aver ammorbidito le proprie posizioni dopo la vittoria delle elezioni, e di essere l’ennesimo riformista socialdemocratico. Pochi giorni dopo il referendum, Tsipras presentò un calendario serrato di tagli e provvedimenti per permettere di ridurre le uscite rispetto alle entrate nelle casse pubbliche, andando così a recuperare parte del debito.
Alla fine, dunque, il compromesso trovato fra le parti fu molto favorevole alle proposte delle istituzioni internazionali e ben poco a quanto espresso dal popolo greco attraverso un referendum, del tutto tradito da quelle che sono state le mosse successive di Tsipras. Il primo ministro è stato probabilmente “costretto” ad agire in questa maniera, non sappiamo con quali mezzi, ma sicuramente con minacce abbastanza serie e convincenti per renderlo mansueto – fatto che naturalmente non serve a scagionarlo dalle sue evidenti colpe. Il referendum, oggi, resta solo un lontano ricordo, mentre il consenso nei confronti del leader di SYRIZA è decisamente diminuito rispetto al successo elettorale che lo portò al governo.
IL REFERENDUM OLANDESE SULL’UCRAINA
Dopo il colpo di stato del 2014, il nuovo presidente ucraino Petro Porochenko ha notoriamente optato per un riavvicinamento nei confronti dell’Unione Europea, proponendo l’ingresso del suo Paese nell’Unione. Poco dopo, le parti hanno segnato un accordo di libero scambio, in piena linea con quella che è la natura economicista dell’UE, ovvero dell’economico che assume la supremazia sulla politica. L’accordo è stato ratificato dal parlamento e firmato dal presidente ucraino il 16 settembre dello stesso anno.
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Naturalmente, affinché l’accordo entrasse in vigore, era necessario che a ratificarlo fossero anche i parlamenti dei singoli Paesi membri dell’UE. Il 6 aprile 2016, venne invece indetto un referendum nei Paesi Bassi, unico Stato ancora mancante all’appello, circa l’accordo: il referendum aveva carattere consultivo, ma il governo olandese assicurò di voler rispettare l’esito qualora venisse superato il quorum del 30%. A votare è stato il 32.2% degli aventi diritto, superando dunque la soglia prevista con un esito nettamente contrario all’accordo: 61,1% per il “no”, 38,1% per il “sì”.
Ad oltre un anno di distanza dal referendum, tuttavia, il parlamento dei Paesi Bassi decise di ratificare l’accordo. Il pretesto è stato rappresentato da una dichiarazione vincolante e modificabile solo all’unanimità: “L’accordo non conferisce all’Ucraina lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione né costituisce un impegno a conferire questo status all’Ucraina in futuro”, vi si legge. Il testo prosegue affermando che lo stesso accordo “non costituisce un obbligo per gli Stati membri dell’Unione a provvedere garanzie per la sicurezza collettiva o altri aiuti militari o assistenza all’Ucraina” e che “non garantisce ai cittadini ucraini e dell’Unione, rispettivamente, il diritto di risiedere e lavorare liberamente nel territorio degli Stati membri o dell’Ucraina”.
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Il tutto è stato così giustificato: i cittadini olandesi hanno votato contro l’accordo perché spaventati da una possibile ondata migratoria nel caso di libera circolazione di persone tra Unione Europea ed Ucraina. A nessuno è venuto in mente che gli olandesi abbiano voluto esprimere il proprio dissenso nei confronti di un governo salito al potere con un colpo di stato illegittimo e che si sta caratterizzando per politiche di forte repressione nei confronti degli oppositori politici e delle minoranze etniche, oppure che gli elettori volessero porre fine alle mosse dell’Unione volte a destabilizzare la zona di confine con l’area di influenza russa e ad indispettire Vladmir Putin. E, comunque sia, l’esito del referendum è stato ancora una volta disatteso, nonostante la promessa fatta da parte del governo olandese.
CONCLUSIONE: DEMOCRAZIA SOSPESA? L’UE HA L’ULTIMA PAROLA
Sono oramai sempre più gli analisti che parlano di sospensione della democrazia in Europa, e non solamente per i referendum disattesi (ciò che sta avvenendo all’Italia in questi giorni ne è un altro lampante esempio). Dall’imposizione, in passato, dei governi tecnici in Italia e Grecia, fino ai referendum che vengono rispettati sempre più raramente, appare evidente come l’Unione Europea e le istituzioni internazionali abbiano sempre l’ultima parola rispetto ai governi dei singoli Stati membri ed alla volontà popolare. Si tratta di un altro caso di attentato alla sovranità nazionale degli Stati da parte delle organizzazioni sovranazionali: in ultima analisi, i regolamenti e le volontà dell’Unione Europea sono sempre più prevaricanti rispetto alle leggi, e perfino alle costituzioni, degli Stati membri. Eppure, questa constatazione cozza decisamente con la regola giuridica che fa della Costituzione la legge suprema del diritto statuale, con supremazia assoluta nei confronti di qualsiasi altra fonte interna od esterna.