La prima volta mi sono fermata. Guardavo la foto, e riflettevo (su cosa, lo tengo per me). Poi ho cominciato a vedere la stessa immagine ovunque, ripetuta su quotidiani e riviste. Primo fra tutti Il Manifesto, che ha accostato l’immagine in copertina ad un titolo a mio avviso indegno (e peccato, ché di solito sono molto bravi con i titoli), La Stampa e a cascata un po’ tutti (che poi c’è chi non pubblica l’immagine diretta, ma quella del poliziotto che l’ha raccolto per fare finta di aver fatto una scelta etica). Poi c’è pure chi, da perfetto i– (non posso scriverlo che poi mi querela), si fotografa in posa a simulare la morte in mare, dice, per sensibilizzare (e non scriverò neanche di chi si tratta, che un individuo del genere meglio che resti nel suo angoletto a riflettere, facciamo per sempre). Ovviamente la scelta di pubblicare o meno non ha esonerato i giornali esteri, primo fra tutti The Independent che, oltre a pubblicare la foto in copertina, diffonde pure una bella carrellata di tutte le altre prime pagine dei giornali britannici che hanno fatto la stessa scelta. Così Aylan, un bambino curdo di tre anni, che scappava con la famiglia da Kobane e ritrovato sulla spiaggia di Bodurm in Turchia, diventava in un attimo tragicamente e riprovevolmente popolare.
Non sono contraria alla diffusione di immagini o video scabrosi in assoluto. Credo, però, che osservare tramite immagini (o video) quello che potrebbe essere raccontato (da intendersi come ben scritto) sia una scorciatoia alla comprensione. Certo, alcune immagini restano nella mente, ma difficilmente raffigurano morti. Almeno nel mio caso. Personalmente ho trovato molto toccanti le foto di un padre che prima ha portato in salvo la sua figlioletta, e poi è stato arrestato mentre gridava di dolore: ha oltrepassato il confine Serbo raggiungendo l’Ungheria, ma ha trovato solo filo spinato e una guardia a fermarlo, davanti agli occhi di sua figlia. Me lo avessero raccontato in un articolo ben fatto, forse non sarebbe rimasto impresso nella mia mente come le foto che ho visto. O forse sì. Ad ogni modo, se un quotidiano sceglie di utilizzare la foto di un bambino che muore su una spiaggia per raccontare una situazione ormai arrivata all’esasperazione, bisognerebbe chiedersi perché lo fa. Cosa aggiunge alla narrazione, al dolore di chi era lì e non è morto, alla compassione di chi osserva da lontano. Il problema della diffusione di immagini come quella di Aylan va letto comunque in chiave contemporanea. Non si tratta più di un giornale, uno solo, che ha ricevuto quella foto e ha il compito di condividerla con i lettori. Oggi la stessa foto la ricevono migliaia di giornali, spesso il lettore la trova anche da solo su Facebook, tramite amici degli amici degli amici. Migliaia di condivisioni nel giro di poche ore. In questo contesto, serve davvero che un giornale pubblichi questa foto? Ha davvero un senso?
Personalmente avrei volentieri evitato di scrollare su Facebook l’immagine di un bambino che non è mai arrivato a destinazione (uso di proposito questo orribile anglismo per enfatizzare il disprezzo. Per chi non lo sapesse, deriva dall’inglese to scroll, ovvero scorrere, usato in pratica per scorrere testi e immagini sul monitor con la rotella del mouse). Abituarmi all’idea di vedere l’immagine ripetuta di un bambino morto. Abituarmi. Sì, perché succede questo. Ci sono studi a dimostrare che la “desensibilizzazione” è un fenomeno reale. Questi studi, condotti tramite il PET (Positron Emission Tomography), ovvero l’analisi dell’attività cerebrale, dimostrano che le immagini visive influenzano effettivamente l’attività del cervello. Nello specifico, Susan Moeller, che è una giornalista, fotografa e intellettuale, parla della “Compassion Fatigue”, un fenomeno secondo cui raccontare fatti che riguardano l’estero (e quindi lontani da noi) comporterebbe una minore compassione da parte dei lettori «perché essi non percepiscono di poter fare qualcosa a riguardo di quella specifica situazione, e trovano difficile capire la complessità dei fattori che sfociano poi in crimini inenarrabili contro l’umanità. E quindi si “spengono”». La stessa Moeller spiegava già nel 2001 che «si cade nella Compassion Fatigue dopo aver visto immagini o ascoltato racconti espliciti che per noi non significano nulla, se non che a qualcuno sia stato fatto del male». Quello che trovo ancora più importante è il seguente passo: «Ciò che motiva le persone a preoccuparsi è molto più complesso di quanto si possa pensare. La pietà da sola non è sufficiente […]. Devi conoscere molto bene un argomento prima di potertene interessare, che sia il golf o la guerra in Sierra Leone. Se si ottengono informazioni distorte, poche informazioni o ancora, informazioni troppo forti, è probabile che non ti interesserai all’argomento». Negli Stati Uniti ci fu un gran dibattito sull’etica giornalistica quando accadde la strage di Columbine. In quell’occasione molti giornalisti catturarono interviste direttamente dai ragazzi della scuola quando si trovavano ancora sul posto. Ovviamente sono due cose diverse, perché in quel caso non si trattava di condividere immagini scabrose, ma il quesito è lo stesso: a cosa è servito intervistare ragazzi impauriti e completamente disorientati mentre uscivano dal luogo in cui era avvenuta una strage? Tra l’altro ci furono molte polemiche perché le loro dichiarazioni, viste giustamente le condizioni in cui furono rilasciate, non erano attendibili al cento per cento.
Tornando alla foto diffusa oggi, ci sentiamo tutti più sensibilizzati adesso che abbiamo visto quella foto? Pubblicarla ha aiutato a far capire a chi continua, imperterrito, a parlare di gente che “ci ruba il lavoro”, “prima gli italiani” cosa possa portare una madre, un padre, a far viaggiare il proprio figlio con il rischio che gli succeda quello che nessun genitore potrebbe mai sopportare nemmeno di pensare, figuriamoci metterlo nelle condizioni di poter morire? Quella foto farà cambiare idea a Salvini, a Magdi Allam, alla Meloni, a tutti i loro sostenitori? Farà scegliere loro, almeno per un giorno, di starsene zitti? Questa mania di dover pubblicare, tutto, sempre, non ci fa più riflettere. Ci fa assuefare. Al dolore, alla solidarietà, alla morte. Io questa responsabilità non me la prendo. Troppo facile condividere, mettere un like, scaricarsi tristemente la coscienza così.
Raccontare l’immagine di quel bambino, la sua storia, quella dei suoi genitori, di suo fratello di cinque anni Galip, morto anche lui poco distante da lì, di suo padre, sopravvissuto a due figli piccoli e alla moglie, è molto più efficace della reiterazione della foto, perché l’uomo è fatto così. Si abitua, per affrontare cose più grandi di lui, per sopravvivere. Scrivendo, raccontando invece (e qui arriva il bello di questo mestiere) abbiamo il potere di essere originali, ogni testa con i suoi occhi e le sue osservazioni. Ognuno a dare il proprio distinto punto di vista ragionato su questa tragedia costante, quotidiana che questa gente sta vivendo sotto ai nostri occhi. È nostro dovere parlarne, è nostro dovere scriverne. Fortunatamente c’è chi lo fa e curiosamente non ha bisogno di diffondere la foto di Aylan per farlo: Francesco Cancellato su Linkiesta quando parla dei vivi. Parla di quelli che sono arrivati sani e salvi a riva, e che hanno la “colpa” di essere sopravvisuti. Ha ragione quando dice che «piangere i bambini morti è molto più facile che occuparsi dei bambini vivi». E ancora Stefano Iannaccone su Gli Stati Generali quando racconta di come ben 13 milioni di bambini non potranno più andare a scuola, a causa delle guerre nei loro paesi. E non si tratta di cancellare “solo” le loro speranze. Le scuole «si sono trasformate nei bersagli preferiti dai combattenti nelle zone flagellate dalle guerre». Ecco, parliamo di questo.
Certo, ora che la foto si è diffusa, ne parlano e scrivono tutti. Sì, ora se ne parla. Ma di cosa parliamo? Di lui, di Aylan, della sua famiglia, di chi fugge dalla Siria? O parliamo di giornalismo, deontologia professionale e di etica? Basta farsi un giro in rete per scoprirlo. Inoltre, dice bene Federico Ferrazza, direttore di Wired Italia, quando si chiede se la foto rispetti «i suoi famigliari e la loro volontà». Lo fa?
È proprio necessario, per sensibilizzare anche il più nazionalista dei nazionalisti, condividere compulsivamente la foto di un bambino morto? Secondo me no. Siamo giornalisti? Mentre tutti continuano a scrollare, a condividere, a scorrere, almeno noi, torniamo a raccontare.