C’è un confine, tra le parole e i fatti, che si può colmare solo con le immagini. A volte non bastano nemmeno quelle, quando devi raccontare il dolore o la tragedia, fermare la Storia in un fotogramma può sembrare inutile, ma spesso l’eco di una sola fotografia può cambiare le cose, fare la differenza. Le immagini sono un modo per bloccare il tempo, ma in tempi in cui l’abitudine allo scatto ha superato l’emozione di vivere il momento, quanto possono ancora dirci le istantanee di un evento? Se non ci affidiamo alla sensibilità di chi sa guardare, rischiamo di diventare ciechi, definitivamente, e insensibili a ciò che ci circonda.
Per questa ragione la testimonianza di chi comunica attraverso le immagini è preziosa, soprattutto nel racconto dei drammi che stiamo affrontando in questi anni, nel racconto delle migrazioni che ci toccano tutti da vicino, e che non dobbiamo smettere di guardare con occhi nuovi ogni volta, occhi senza pregiudizi, occhi di chi vuole comprendere.
Massimo Assenza e Fabrizio Villa lo fanno da sempre, attraverso una macchina fotografica, per mare e per terra, per lavoro ma soprattutto per passione, la passione d un fotografo e di un fotoreporter che non possono non testimoniare il loro tempo.
Alle cinque c’è uno sbarco, vuoi venire? – Massimo me lo chiede mentre anche lui valuta se andare o no, in una tranquilla domenica di Agosto, proprio all’indomani del Ferragosto.
Massimo Assenza, nato e cresciuto a Pozzallo, in provincia di Ragusa, fotografo da sempre, fotografo da generazioni. Il suo studio, in pieno centro, nel piccolo paesino di pescatori, ha registrato ogni sussulto di questo borgo, dagli eventi più intimi a quelli più eclatanti.
Una volta si fotografava la nascita, il matrimonio, la sagra del paese, oggi si fotografano gli sbarchi.
Non è una cosa a cui ti abitui – mi racconta – ma in un certo senso raggiungi una sorta di assuefazione, diventa quasi una parte della tua vita, e non puoi fare a meno di andare
La cronaca degli eventi che sul molo del porto commerciale si susseguono incessantemente da anni, passa da due estremi, la vita e la morte. In mezzo c’è la macchina ormai rodata dell’accoglienza, il teatro che ogni volta va in scena sulle tv nazionali, che dipingono come eventi quella che qui è routine da ormai 13 anni. In principio fu Lampedusa, poi venne Mare Nostrum, la divisione degli arrivi, i porti diventarono di più. Gli approdi delle varie navi che sbarcano vite, tratte in salvo, o salme, sottratte al cimitero che giace sotto il Canale di Sicilia, si dividono tra Catania, Augusta e Pozzallo nella parte orientale dell’isola e Porto Empedocle più giù, ancora, quasi dall’altra parte.
Sembra un paradosso tutta questa pubblicità, adesso, e per questa ragione. Per anni i pozzallesi sono riusciti a sottrarsi alla marea turistica che portava i vacanzieri invasivi, come cavallette, da Catania in giù. Complici i collegamenti, le lungaggini che rendono la realizzazione di una strada un lungo calvario di cui non si conosce la fine, con l’iter che spesso viene interrotto da cantieri che si spengono come bagliori. Così è stato per anni, ma con la nascita dell’autostrada Catania- Siracusa, aperta seppur senza raggiungere mai la parte finale, ovvero Gela, ma fermandosi a Rosolini, questo sonnecchiare indolente della provincia ragusana si è interrotto per sempre.
Come se non bastasse, al trauma di un turismo voluto, ma non in questi termini quasi “brutali”, e perciò vissuto come un’invasione, si è aggiunto, con maggiore insistenza anche quello degli sbarchi.
Ormai non sono nemmeno più sbarchi – commenta Massimo, lui che ne ha vissuto l’evoluzione – ma arrivi programmati.
Come quello di domenica 16 agosto, che porta sulla banchina del porto 221 persone, tra cui alcuni minori sotto i cinque anni, e che si svolge con una accuratezza da manuale. Forze dell’ordine, Capitaneria, Ong, personale sanitario, giornalisti, protezione civile, pullman per prelevarli, il medico che dà il via alle procedure, salendo a bordo col suo staff, per controllare che stiano tutti bene, poi si mette in moto il resto. Massimo conosce ogni dettaglio di questa procedura, e ogni persona lì sul molo:
Il dottore adesso sale a bordo – mi anticipa – poi sarà il primo a scendere con un bambino in braccio. Quello è il segnale che possono iniziare le procedure
Piccoli riti di vita per annunciare che tutto continua, che si può gioire, stavolta, per queste vite salvate in mare. Ma non è sempre così.
Ricordo quando l’anno scorso arrivò un carico diverso. A bordo della nave c’erano le salme di quel terribile naufragio. Mi avevano allertato già dalle tre del pomeriggio, ma quando dopo quasi due ore, la nave entrò in porto, con il barcone a traino, dove erano ancora stipati i cadaveri, noi fotografi eravamo sulla punta del Molo. Da un chilometro sentivamo l’odore della morte, e non è una cosa che puoi dimenticare
Così come ci sono cose che non gli vanno giù, mentre continua a scattare, e anticipa, raccontandomelo, ogni minuto di quello che vedrò, e intanto, senza distrarsi, come se lasciasse che la mano scatti per lui, mi dice cosa non gli sta bene:
Non capisco come si possa essere così insensibili rispetto a questo fenomeno, come si possano dire certe atrocità senza aver mai assistito nemmeno per un minuto a tutto questo, come possano esserci persone in grado anche solo di pensare di lasciarli morire in mare, di non salvarli, di girarsi dall’altra parte
E poi c’è un’altra cosa a non piacergli, ed è questo creare terra bruciata intorno al suo paese, come se da questo momento, il paradiso di dune, sabbia, acqua cristallina e pietre bianche, siano stati inghiottiti dal tritacarne mediatico, che rende tutto uguale a tutto, mischia vita e morte, non rispetta nulla se non l’idea malata di un raccontare che non corrisponde al vero, perché gli arrivi non deturpano la bellezza di questo angolo. Basta allontanarsi di appena cento metri per capirlo da soli, nella spiaggia che spalleggia il porto, dove il mare piatto e i giochi da spiaggia continuano come nulla fosse, inconsapevoli che lì accanto 221 persone ringraziano il loro Dio per essere approdati qui, in questo lembo di Sicilia, che si chiede quanto sia Italia e che meno che mai si sente Europa; questa terra che intanto li accoglie, questi uomini e queste donne in cerca di un futuro senza stenti e senza terrore, e poi li ingloberà nella sua burocrazia asfittica, nelle sue leggi assurde, nei discorsi dei politici senza idee, che sulla loro pelle nasconderà il vuoto di iniziative della politica italiana.
Ma tanto è così – spiega quasi a se stesso quest’uomo, abituato a parlare con gli occhi e con l’anima – i pregiudizi stentano a morire, me ne sono accorto parlando a Torino con un visitatore della mia mostra – una mostra itinerante che raccoglie quasi 10 anni di scatti sul tema – che mi raccontava ridendo come un suo conoscente temesse la Sicilia per la mafia e fosse convinto che arrivare qui fosse pericoloso ad ogni passo. Ora ne sento dire tanti sui migranti, come il timore che invadano tutto, che rendano le nostre città posti insicuri, ma a Pozzallo, che pure è un centro piccolo, dove c’è un Centro d’Accoglienza, non è cambiato nulla, solo la percezione che hanno di noi i turisti che arrivavano un tempo da fuori, che evitano di arrivare qui, affamando i nostri albergatori e penalizzandoci senza motivo. Ignorare un fenomeno, o viverlo solo per quelle due notizie sentite in tv, alimenta la paura e nutre la cattiva informazione . A volte mi chiedono cosa provo a vedere queste scene, a vivere questi momenti – sottolinea – ma non conta tanto cosa provo io, che li guardo da spettatore, la domanda che mi faccio ogni volta è cosa provano loro, come ci vedono, come ci giudicano, cosa si aspettano da noi”. Mentre ci allontaniamo dal molo, con la volontà quasi di restare per vedere il finale di questa storia, che non ha una fine, in fondo, penso a quanto sia difficile restare e vivere questi drammi, che toccano un’isola come la Sicilia da vicino, ma sono di tutti e di tutto il mondo.
Fabrizio Villa, che su quest’isola c’è nato e ha iniziato a fotografare, prima la cronaca nera, negli anni degli omicidi di mafia e poi altri contesti, all’Estero, in Afghanistan come in Africa,lo sa bene. Da anni Villa vive tra Roma e Milano, esperto di fotografia aerea e di aree di crisi, si è riavvicinato alla sua Sicilia per testimoniare gli sbarchi, quasi sempre da prospettive diverse, a bordo delle navi della Marina, riprendendo scatti intensi e raccontando storie incredibili, poi finite sulle pagine di quotidiani e riviste di tutto il mondo. In questi giorni ha deciso di riappropriarsi della sua terra partendo dai luoghi in cui vive Massimo, che sono poi i luoghi della sua infanzia.
Mio padre mi portava su queste spiagge da bambino – racconta Villa – e ora che non c’è più sono venuto a respirare quei ricordi, raccontandoli alla mia famiglia
Così a pochi chilometri da Pozzallo, sulle spiagge che furono teatro dello sbarco degli alleati, a Santa Maria del Focallo, ha preso casa per un mese. Si scambiano le impressioni e i punti di vista, Massimo e Fabrizio, mescolati in un micro e un macro, che è universale, e racconta la storia degli uomini e il loro destino di popolo, così vicino al nostro, che lo abbiamo messo da parte e dimenticato.
Un destino che parla di speranza e di valigie, di orrori da cui scappare o di opportunità da inseguire, di madri e bambini, di figli che hanno lasciato casa e padri che promettono di non scordare. Un destino travestito di speranze, poi inghiottite da un mare che nemmeno avevano mai visto e su cui non sanno come muoversi, mentre il blu così profondo li avvolge e li tira giù. Il fotografo e il fotoreporter, abituati a parlare un linguaggio fatto di immagini, passano in rassegna gli sbarchi e gli eventi più tragici, a molti hanno assistito entrambi, ognuno dietro il proprio scatto.
Raccontare a parole quello che significa vivere quei momenti non è facile. A Maggio ero su una nave aspettando che succedesse qualcosa da fotografare, passavano i giorni, il tempo era interminabile, io leggevo un po’, guardavo il mare, mi chiedevo anche se aspettare avesse un senso. Poi mi ritrovo all’improvviso catapultato nel salvataggio di due barconi, al largo. Ricordo perfettamente il giorno, era il 29. Avevamo questi barconi a destra e sinistra e lì sopra erano in centinaia, stipati in ogni angolo, stremati, ci chiedevano aiuto. Per fortuna il mare era calmo. Ho montato una Go pro sul caschetto, era la prima volta e ho cominciato a riprendere, mentre scattavo come faccio di solito. Poi, con calma, dopo aver visto e scelto le foto, mi sono ricordato delle riprese. Le ho guardate ed è stato come vedermi da fuori, le immagini riprendevano quei volti, il momento del salvataggio e poi il rumore frenetico dello scatto. Faccio sempre tanti scatti quando mi trovo in quelle situazioni, non voglio perdere nessun momento
Poi il discorso si sposta sulle reazioni della gente comune, su come vengano avvertiti questi arrivi, sull’indifferenza che ormai li accompagna:
Ho pubblicato un servizio che avevo realizzato per Gente anche sul mio profilo facebook, ed è iniziata la sequenza di insulti nei miei confronti, quasi minacce, solo perché ho testimoniato quegli eventi. Io non so – riflette Villa – perché siamo diventati così, perché la gente è impermeabile ormai al dolore, a tutto ciò che dovrebbe toccare gli animi, ma so che tra 50 anni noi saremo giudicati per quello che sta succedendo, per questi eventi che sono Storia e che verranno riportati, e non ci faremo una bella figura
Ma dietro la macchina fotografica non ci può essere cinismo, come insegna Kapuscinsky, il mestiere del reporter o del fotoreporter che decide di raccontare i drammi degli altri non può che nascere in un uomo “umano”, nel senso più vero del termine, in qualcuno che prima deve digerire quello che fa, e poi può raccontarlo. Quando si scatta è la macchina a bloccare le emozioni ma non capita quasi mai che Fabrizio resti indifferente:
Quando ho visto, durante uno dei miei tanti sbarchi documentati da una nave della Marina, i bambini così impauriti, così vulnerabili, in una notte col mare in tempesta, e noi tutti lì vestiti di bianco a cercare di salvarli, ho pensato a cosa dovesse significare per loro quel momento. Ho pensato al trauma che resterà impresso per sempre nei loro giovani occhi, e ho chiesto – e ottenuto – poi di avere dei giocattoli per loro, per poter almeno mitigare quel senso di vuoto e di paura che provano
Il pensiero che gli è balenato in mente è stato quello delle scene finali del film di Benigni La vita è bella dove anche di fronte al dramma della morte, un padre riesce a restituire la dimensione del gioco a suo figlio:
Così il sindaco di Catania ha accolto la mia proposta ed è stata istituita una colletta spontanea per raccogliere giochi per questi bambini, a cui hanno aderito anche grandi negozi come Ikea – un piccolo gesto dal grande significato, come la scelta di non fotografare il dolore vero – Ho visto una madre piangere e mi hanno detto che aveva perso il suo bambino in mare, le era caduto dalle braccia in acqua, era inconsolabile. Avevo già l’inquadratura pronta, poi ho abbassato la macchina e ho deciso di non scattare
Ed è la foto mai nata che ci racconta la misura e il valore di chi con le foto racconta la cronaca di oggi, che è già Storia di domani.