Tre ragazzi della periferia di Napoli decidono di aggredire a bastonate una guardia giurata, riducendola in fin di vita e causandone successivamente la morte. Lo fanno per noia, diranno poi agli inquirenti. Lo fanno perché a Piscinola, quartiere di sicuro non “difficile” a nord della città, alle tre di notte non c’è più nulla da fare ed occorre quindi dare una svolta alla serata.
A leggere i dettagli di questa vicenda, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla trama di un film dell’orrore, l’ultimo che in ordine di tempo vede per protagonisti i componenti di una babygang napoletana: hanno dai 15 ai 17 anni, provengono da contesti familiari ridotti a brandelli, vivono per strada la maggior parte del loro tempo, hanno abbandonato la scuola. Un identikit che a Napoli vale purtroppo per molti giovani. Tuttavia, il segno particolare che contraddistingue gli autori degli ultimi episodi che stanno insanguinando le strade della città è la violenza cieca, animalesca; che si auto-alimenta. Una violenza, tra l’altro, che in diversi casi per queste anime perse costituisce addirittura motivo di vanto sui social network, trovando la piena approvazione dei loro coetanei. E così, più di qualcuno, ha iniziato a sostenere che, almeno una parte di responsabilità di queste vere e proprie azioni criminali, sarebbe della mitizzazione di personaggi di fiction televisive come Gomorra, effettivamente molto popolari soprattutto in alcuni quartieri notoriamente flagellati da micro-criminalità, camorra ed alto tasso di abbandono scolastico.
BABYGANG A NAPOLI, NON CHIAMATELA EMERGENZA
Parlare di emergenza babygang a Napoli, però, sarebbe persino riduttivo e di sicuro fuorviante: perché in città le condotte violente dei giovanissimi vanno avanti da anni. Ne sono convinte due donne intervistate da YOUNG, impegnate a combattere la devianza giovanile su due fronti opposti ma allo stesso tempo correlati tra loro: la prima è un magistrato, alle prese tutti i giorni con i casi più cruenti raccontati dalla cronaca nera; l’altra è una docente universitaria divenuta suo malgrado una mamma coraggio, da quando suo figlio è stato aggredito e quasi ammazzato proprio da un gruppo criminale di adolescenti.
Le intervistate pongono l’accento su due questioni fondamentali, sulle quali si concentra il dibattito in città: da un lato l’influenza dei modelli negativi propinati dalle fiction come quella scritta da Roberto Saviano ed in generale dai nuovi media, dall’altro la mancanza di istituzioni in grado di aiutare a decodificare i messaggi.
FICTION E MODELLI NEGATIVI, PARLA IL MAGISTRATO
Per Maria de Luzenberger, da più un anno a capo della Procura della Repubblica per i minorenni del distretto della Corte d’Appello di Napoli, non ci troviamo di fronte ad una emergenza babygang: “Forse in questi giorni ci troviamo di fronte ad una escalation di fatti violenti, perché negli ultimi tempi si sono ripetuti più episodi in maniera ravvicinata. Potrebbe essere riconducibile ad un fenomeno di emulazione o di amplificazione dei messaggi violenti da parte dei media”.
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Possiamo affermare che la fiction Gomorra sia diventata una specie di trait d’union tra le babygang?
“Non mi riferisco solo a Gomorra, ma alla quantità di contenuti violenti che sono alla portata dei minori. I canali televisivi sono monitorati con fasce protette, con orari in cui alcune cose non possono essere trasmesse, e c’è una sicurezza su quello che viene messo in onda e percepito dai ragazzi. Su Internet e Pay tv, invece, le cose cambiano: anche i bambini possono fruire dei messaggi più violenti e senza alcun filtro da parte di genitori troppo impegnati col lavoro o, peggio, distratti, che non sono in grado di controllare quei canali a cui hanno accesso i loro figli. È un problema enorme. Stesso discorso vale anche per alcuni videogiochi le cui caratteristiche sono la violenza inaudita. Non posso credere che questo non incida sulle condotte violente che i ragazzi mettono poi in opera. Così come non posso pensare che certi modelli negativi non influiscano: Gomorra, ma anche con tanti contenuti e serie televisive lanciano messaggi sempre più violenti”.
Per far fronte alla violenza dilagante in tv, l’AGCOM introdusse il Codice per l’autoregolamentazione nei rapporti tra programmi televisivi e minori, con regole ben precise su fasce orarie e “bollini”. Come fare oggi con Internet?
“Esistono già dei filtri per Internet, evidentemente da soli non bastano. Occorre soprattutto una spinta educativa diversa, ma anche una produzione culturale nuova. Dobbiamo offrire qualcosa di diverso rispetto a quello che attualmente i ragazzi vedono e recepiscono. Modelli positivi che in questo momento sono evanescenti. Figure ancora troppo deboli o con poco appeal rispetto a quelle dei boss delle fiction violente”.
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PROBLEMA EDUCATIVO, PARLA LA MADRE CORAGGIO
Maria Luisa Iavarone è invece la madre di Arturo, il ragazzino di sedici anni ferito da un gruppo di coetanei con diverse coltellate alla gola. Lo hanno aggredito in pieno giorno, in una delle strade più trafficate di Napoli, e solo per caso non lo hanno ammazzato. Da allora la vita di Maria Luisa è stata radicalmente trasformata: oltre ad indossare i panni della docente universitaria impegnata nello studio dei fenomeni di devianza giovanile nelle grandi metropoli brasiliane, adesso spende le sue giornate nella lotta ai fenomeni di devianza delle città come Napoli. Lo fa parlandone a convegni e dibattiti organizzati in tutta Italia. E sottolineando che oggi tra i più giovani esiste un problema di ordine cognitivo: “Le immagini violente vengono subite, non più interpretate” spiega Iavarone.
Colpa delle fiction come Gomorra?
“Non credo sia il caso di demonizzare un prodotto culturale. Non possiamo sterilizzare tutto il mondo che ci sta attorno e nemmeno ciò che possiamo trovare in tv o su Internet. Dobbiamo lavorare di più sugli stimoli che nascono da questi contenuti. È piuttosto un problema di tipo educativo: non possiamo censurare le fiction o le immagini sul web, ma dobbiamo far sì che la censura diventi uno strumento cognitivo, come uno scudo nella testa dei soggetti più giovani”.
La violenza delle fiction dunque diventa il male da combattere
“Vale anche per i videogiochi e per tutti i prodotti proposti dall’entertraiment. Non possiamo solo aspettare che il mondo cambi, semplicemente dobbiamo lavorare sulla testa dei ragazzi e su tutti i precursori dell’educazione”.
E dove non ci sono famiglie, come nel caso dei ragazzi di Piscinola?
“Ci vuole Stato. A Napoli manca il sistema formativo integrato, una comunità sociale che faccia anche da famiglia. La scuola dev’essere messa in stretto collegamento con servizi sociali. Questi ragazzi devono essere impegnati in attività compensative. L’importante è che non vengano riconsegnati alla strada. A Piscinola questi ragazzi non avevano le famiglie alle spalle e nemmeno la scuola, ma la società non se n’era mai accorta prima della morte del vigilantes”.
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