Due delle principali potenze economiche del continente sudamericano stanno vivendo un momento politico ed economico difficile: si tratta del Brasile, Paese che conta oltre duecento milioni di abitanti, e del Venezuela, il primo produttore di petrolio di quest’area geografica. Nonostante ciò, non possiamo esimerci dal notare il diverso trattamento che i principali media occidentali riservano alle due situazioni, canalizzando l’opinione pubblica in una direzione di opposizione al governo bolivariano di Nicolás Maduro, tale da far cadere nell’ombra la situazione brasiliana.
IL TEMPO DEI GOVERNI PROGRESSISTI
Era il 1999 quando Hugo Chávez veniva eletto per la prima volta come presidente del Venezuela, ponendo fine ad una lunga successione di capi di stato di centro-destra, quasi sempre genuflessi agli interessi statunitensi. Con l’inizio della cosiddetta Rivoluzione Bolivariana, si apriva una grande opportunità di rivalsa per le classi meno abbienti, per i sin tierra e per le minoranze etniche. Per quasi due decenni, la Rivoluzione ha portato i suoi benefici alla popolazione, come dimostrato dalla progressiva diminuzione della diseguaglianza e del tasso di povertà nel Paese. Allo stesso tempo, il Venezuela ha acquisito un ruolo sempre più rilevante nello scacchiere internazionale, non solamente per le sue riserve di petrolio, ma per la posizione di leader del fronte anti-statunitense che Chávez è stato bravo a guadagnarsi. Alla morte del leader venezuelano, le elezioni premiano il suo braccio destro Nicolás Maduro.
Dall’altro lato, abbiamo il Brasile, un vero e proprio gigante dal potenziale immenso, dotato di risorse naturali e demografiche tali da poterlo rendere una vera potenza economica mondiale. Nel 2002, le elezioni vedono vincitore Luiz Inácio Lula da Silva, da tutti chiamato semplicemente Lula, che quando sale al potere cerca subito di rompere con le precedenti politiche neoliberiste, seppur in maniera meno netta rispetto a Chávez, instaurando uno stato sociale. Nonostante la complessità di uno stato federale così grande, Lula riesce a portare il Brasile nel ristretto gruppo dei BRICS, quei Paesi troppo avanzati per essere considerati in via di sviluppo, ma non ancora del tutto industrializzati. Al termine degli otto anni previsti dalla costituzione, Lula lascia il Paese in mano alla sua erede designata, Dilma Rousseff, regolarmente eletta.
Per quanto entrambi i governi si siano schierati nel variegato fronte del progressismo latino-americano, la Rivoluzione Bolivariana si è sicuramente dimostrata più vicina alle idee del socialismo e smaccatamente anti-statunitense, mentre le posizioni dl governo brasiliano sono sempre state più moderate da questo punto di vista. Sia Chávez che Lula, ad ogni modo, sono riusciti ad ottenere dei miglioramenti negli indicatori macroeconomici riguardanti diseguaglianza e povertà, in due dei Paesi più colpiti da queste piaghe, oltre a contribuire all’ascesa dell’America Meridionale nelle gerarchie delle relazioni internazionali.
BRASILE: LA DESTITUZIONE DI DILMA ROUSSEFF
Con un continente sudamericano quasi tutto in mano a governi progressisti, che si oppongono in maniera più o meno evidente all’imperialismo statunitense, gli interessi delle grandi multinazionali e della borghesia finanziaria a stelle e strisce erano stati messi a repentaglio. Il primo golpe orchestrato contro i legittimi governi sudamericani passò quasi nel silenzio in Europa: era il 22 giugno del 2012, quando il presidente del Paraguay, Fernando Lugo, subì una procedura di impeachment.
All’alba dei Giochi Olimpici di Rio 2016, un ottimo volano mediatico, ed in occasione di un periodo di crisi economica subita dal Brasile, iniziò l’offensiva contro il governo brasiliano di Dilma Rousseff. L’ormai ex presidente e molti dei personaggi di spicco della politica brasiliana furono incolpati di corruzione e di aver falsificato il bilancio dello stato. La carica di capo di stato venne così assunta dal vicepresidente Michel Temer. Ora, non sta certamente a noi determinare quali siano state le effettive colpe di Dilma Rousseff, ma non possiamo mancare di notare il passato di Temer: l’attuale presidente brasiliano è stato citato ventuno volte nell’inchiesta “Operaçao Castelo de Areia“sulla corruzione all’interno dell’Impresa di costruzioni Camargo Correa, ed è stato coinvolto nell’inchiesta “Caixa de Pandora“, riguardante alcune tangenti destinate ai deputati di Brasilia. Appare evidente, dunque, come la trasparenza del governo non sia certamente il vero motivo della destituzione di Dilma Rousseff con Michel Temer.
Ma c’è di più, un elemento che non possiamo tralasciare: secondo i documenti top secret svelati da WikiLeaks, Temer svolge dal 2006 il ruolo di informatore per conto di Washington, avendo passato molte informazioni riservate all’ambasciata statunitense in Brasile. Ecco svelato, dunque, il vero motivo del golpe contro Rousseff: portare al potere qualcuno che proteggesse gli interessi economici delle multinazionali statunitensi, e dare vita ad una serie di manovre per riportare i Paesi sudamericani nell’orbita di Washington.
VENEZUELA: ORA TOCCA A NICOLÁS MADURO
Dopo una prova in scala ridotta in Paraguay e l’operazione riuscita in Brasile, il prossimo obiettivo è chiaro: abbattere la Rivoluzione Bolivariana e riportare il Venezuela nella lista dei Paesi genuflessi agli interessi di Washington. La petroliera del Sud America non può continuare a restare in mano ad un governo fortemente contrario all’imperialismo a stelle e strisce, e, con la fine della Rivoluzione Bolivariana, si assesterebbe un colpo decisivo anche agli altri governi progressisti ancora presenti sul continente.
Il passaggio di consegne dopo la morte di Chávez, il crollo del prezzo del barile e la conseguente crisi economica in cui è piombato il Paese rappresentano un’opportunità più che ghiotta nel tentativo di destituire Maduro, esattamente come è stato fatto con Rousseff. Proprio come accaduto in Brasile, si cerca di delegittimare il più possibile il governo in carica agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, in maniera da rendere accettabile un colpo di stato o, in extrema ratio, un intervento diplomatico (o più difficilmente militare) da parte di potenze straniere. Anzi, per dirla tutta, ciò che sta accadendo in Venezuela ricorda quasi il caso della Libia, che portò all’intervento militare occidentale, con le conseguenze che ancora oggi il popolo libico subisce.
Al di là di quelle che possono essere le responsabilità effettive del governo venezuelano, l’operazione mediatica antibolivariana appare molto chiara ad un attento osservatore. È sufficiente sottolineare come, in molte occasioni, atti di violenza vandalica ed omicida da parte dei manifestanti siano stati attribuiti al governo di Maduro, mentre invece le vittime erano proprio militanti bolivariani o “chavisti”, come vengono ancora oggi chiamati in Venezuela. Il governo, del resto, ha dichiarato di recente di aver smantellato alcuni gruppi armati in possesso di esplosivi non convenzionali. Allo stesso tempo, le grandi multinazionali hanno deciso di boicottare il Paese, diminuendo il flusso di alimenti e medicine, e peggiorando dunque artificialmente la situazione economica del Paese, al fine di far detonare ulteriormente il conflitto.
L’OSA, COMITATO D’AFFARI DI WASHINGTON
Considerata da tutti come una marionetta degli Stati Uniti, l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha ancora una volta dimostrato di rappresentare il comitato d’affari di Washington. L’organizzazione sovranazionale, infatti, non ha tardato a scoprire le carte, attraverso il proprio Consiglio Permanente, che si è rifiutato apertamente di discutere sulla situazione brasiliana, mentre ha concentrato tutte le proprie energie sul caso venezuelano, condannando la “repressione orchestrata dal presidente Maduro”.
Da sempre, le posizioni e le dichiarazioni dell’OSA possono essere considerate come un rivelatore di quelli che sono gli interessi statunitensi in gioco, ed anche in questo caso abbiamo avuto una conferma di ciò. Il silenzio sulla decisione di Temer di schierare l’esercito per contrastare le ondate di proteste, dimostra come la vera preoccupazione non sia affatto quella delle eventuali violenze subite dai manifestanti, ma semplicemente di perseguire gli interessi della borghesia finanziaria internazionale, di quelle multinazionali che vogliono tornare a trattare il continente sudamericano come il proprio serbatoio di risorse naturali ed umane a basso costo. Poco importa dei 49 feriti registrati a Brasilia nella sola giornata di mercoledì, dal momento che Temer è al potere proprio con il fine di difendere questi interessi, il male può e deve rappresentato unicamente da coloro che non si prostrano ai piedi di Washington.
CONCLUSIONE: I GOLPE DEL XXI SECOLO
In risposta al Socialismo del XXI secolo lanciato da Chávez, anche i colpi di stato sudamericani hanno cambiato volto, trasformandosi in quelli che possiamo chiamare “golpe del XXI secolo”. Non avremo più golpe militari in stile Argentina o Cile, per citare alcuni casi celebri, ma piuttosto rovesciamenti del governo legittimo che si fanno passare per buoni e giusti, attraverso procedure di impeachment e contemporanea propaganda mediatica. Si cerca di convincere tanto la popolazione locale quanto l’opinione pubblica internazionale che sia il governo in carica quello illegittimo, e che dunque il golpe sia in realtà un modo di ristabilire la pace e la legalità. Nulla di più falso.
Oggi il potere militare non svolge più un ruolo fondamentale: è piuttosto una commistione di potere giudiziario, economico e mediatico a decidere le destituzioni dei governi eletti dai cittadini. Non è neanche più importante l’uomo al potere, in quanto il vero potere è rappresentato dagli interessi economici in ballo: non c’è più bisogno dell’uomo forte come poteva essere, ad esempio, Augusto Pinochet in Cile, ma di un burattino che semplicemente esegua quanto gli viene detto. Dopo il golpe contro Lugo, in Paraguay è salito al potere Federico Franco, poi sostituito da Horacio Cartes. Ancor prima, nel 2009, lo stato centroamericano dell’Honduras aveva subito un trattamento similare, con la destituzione di Manuel Zelaya, ed il susseguirsi di Porfirio Lobo e Juan Orlando Hernández alla presidenza. Tutto apparentemente nelle regole, con tanto di elezioni, ma con il vero ed unico fine di proteggere quegli interessi economici che i governi progressisti avevano messo a repentaglio.
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