Roma – Martedì mattina l’Itlos (International Tribunal for the Law of the Sea) – il Tribunale sul Diritto del Mare con sede ad Amburgo – ha emesso la prima sentenza sull’azione giudiziaria promossa dall’Italia sulla controversia che oppone il nostro Paese all’India, in merito all’uccisione di due pescatori al largo della costa del Kerala.
L’Italia – con colpevole ritardo – ha attivato alla fine del giugno scorso l’arbitrato rituale prescritto dall’Allegato VII dell’Unclos, la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, conclusa a Montego Bay (Giamaica) nel 1982 e ratificata sia dall’Italia che dall’India. Il trattato traduce per gli Stati firmatari e che hanno proceduto alla ratifica la norma giuridica internazionale pattizia, sostituendo la norma generale di natura consuetudinaria.
In seguito, il Governo italiano ha adito il Tribunale di Amburgo – forum giurisdizionale istituito dal Trattato di Montego Bay 1982 – perché prendesse misure provvisorie a tutela dei due militari italiani .
Dopo l’avvio dell’esame, il Tribunale di Amburgo si è dichiarato incompetente a decidere sulla richiesta italiana, ma sulla base di un presupposto che dà ragione (indirettamente) all’azione promossa dall’Italia: ogni decisione spetta alla corte arbitrale ex Allegato VII Unclos, motivo per cui la corte (che ha deciso a maggioranza assoluta di 15 componenti contro 6, un dato giuridicamente ininfluente) ha imposto a Italia e India di sospendere ogni ulteriore azione giudiziaria.
In realtà, in modo superficiale, alcuni commentatori hanno rilevato che la sentenza non fosse positiva per l’Italia, mentre al contrario sancisce l’internazionalizzazione della controversia. Indirettamente conferma che l’Italia ha ragione nel promuovere l’attivazione dell’arbitrato internazionale, che non sarà volto a decidere se i due fucilieri della ‘San Marco” siano colpevoli di omicidio o meno, ma piuttosto quale sia il giudice naturale competente a indagare e decidere sui fatti.
Il 15 febbraio 2012, come ricorderanno il lettori, la petroliera italiana Enrica Lexie navigava nell’Oceano Indiano al largo delle coste del Kerala, in acque internazionali, in rotta di trasferimento dallo Sri Lanka verso Gibuti. A bordo della nave italiana 34 membri di equipaggio e sei fucilieri della Brigata Anfibia ‘San Marco’ – il capo di 1ª classe Massimiliano Latorre, il secondo capo Salvatore Girone, il sergente Renato Voglino, il sottocapo di 1ª classe Massimo Andronico e i sottocapi di 3ª classe Antonio Fontana e Alessandro Conte – componenti del Nucleo Militare di Protezione in funzione antipirateria, dispiegato sul mercantile italiano in forza della legge 130/2011 che aveva attribuito alla Marina Militare i compiti di protezione del naviglio civile, al contrario di quanto previsto da altri Paesi della Nato, in cui tale compito è consentito alle società di security privata.
CRONACA DEI FATTI
Intorno alle 16.30 di quel giorno, la petroliera italiana avrebbe incrociato il peschereccio ‘St. Antony’, con 11 persone di equipaggio. I militari italiani, dopo alcuni colpi di avvertimento, avrebbero sparato verso la barca, uccidendo due pescatori, Ajeesh Pink (o Ajesh Binki), di 20 anni, e Valentine, alias Jelastine (o Gelastine), di 44 anni.
La Guardia Costiera indiana contattava via radio il mercantile italiano, chiedendo se fosse stato coinvolto in un evento di tal genere, ricevendone conferma. Successivamente, chiedeva al comandante della nave l’ingresso nel porto di Kochi, capitale del Kerala, con lo stratagemma di chiedere il riconoscimento del peschereccio. Umberto Vitelli, comandante della ‘Enrica Lexie’, dopo aver consultato la società e lo Stato Maggiore della Marina, dirigeva verso le acque territoriali indiane la nave, attraccando.
Nella stessa notte, sui due pescatoti veniva effettuata l’autopsia, cui non partecipavano periti di parte italiani. Il 17 febbraio i corpi dei due poveri pescatori venivano cremati e sepolti. La ‘St. Antony’ veniva poi distrutta.
Il 19 febbraio il capo di 1ª classe Massimiliano Latorre e il secondo capo Salvatore Girone venivano arrestati da militari indiani saliti a bordo della ‘Enrica Lexie’, un atto commesso in violazione del diritto internazionale marittimo per due motivi: anzitutto perché una nave è considerata all’estero territorio nazionale dello Stato di Bandiera; poi perché i due militari italiani erano coperti da ‘immunità funzionale’ perché impegnati in azione militare di protezione su mercantile civile, a seguito di decisione del Parlamento italiano (legge 130/2011) e ordine esecutivo del Governo pro tempore.
Da quel momento si innescava la controversia tra Italia e India, perché il Governo italiano contestava la giurisdizione dell’India sull’accaduto, avvenuto in acque internazionali, quindi al di fuori della potestà giudiziaria dell’India per reati avvenuti su una nave.
Circostanza acclarata dalla stessa Corte Suprema indiana con la sentenza del 18 gennaio 2013, la quale riconosceva che i fatti si erano svolti al di fuori delle acque territoriali (seppur all’interno della “zona contigua” di 24 miglia e della “zona economica esclusiva” di 200 miglia), ma con una interpretazione giuridico ritenuta dubbia da molti esperti, sosteneva che non fosse regolata dall’articolo 97 dell’Unclos, negando così la giurisdizione italiana (anche con il richiamo a un precedente del 1926, in un periodo in cui però non vigeva la Convenzione di Montego Bay approvata nel 1982) e allo stesso tempo alla magistratura del Kerala, avocando la competenza di un tribunale speciale da istituire a livello federale.
Viceversa l’Unclos più volte citato è chiaro sulla competenza giudiziaria su fatti avvenuti in mare aperto, secondo il disposto dell’articolo 86:
Le disposizioni della presente parte si applicano a tutte le aree marine non incluse nella zona economica esclusiva, nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato, o nelle acque arcipelagiche di uno Stato-arcipelago. Il presente articolo non limita in alcun modo le libertà di cui tutti gli Stati godono nella zona economica esclusiva, conformemente all’articolo 58
Va tuttavia evidenziato che al momento in cui l’incidente è avvenuto, le autorità indiane erano nella legittimità di richiedere all’Italia – Stato di bandiera della petroliera – l’applicazione delle norme stabilite dal successivo articolo 94 (Obblighi dello Stato di bandiera) e, in particolare, dei commi 6 e 7:
[…] Qualunque Stato che abbia fondati motivi per ritenere che su una nave non sono stati esercitati la giurisdizione e i controlli opportuni può denunciare tali omissioni allo Stato di bandiera. Nel ricevere la denuncia, lo Stato di bandiera apre un’inchiesta e, se vi è luogo a procedere, intraprende le azioni necessarie per sanare la situazione. 7. Ogni Stato apre un’inchiesta che sarà condotta da o davanti a una o più persone debitamente qualificate, su ogni incidente in mare o di navigazione nell’alto mare, che abbia coinvolto una nave battente la sua bandiera e abbia causato la morte o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato, oppure abbia provocato danni seri a navi o installazioni di un altro Stato o all’ambiente marino. Lo Stato di bandiera e l’altro Stato cooperano allo svolgimento di inchieste aperte da quest’ultimo su uno qualunque di tali incidenti
Da questa norma si evince che la giurisdizione per ogni fatto penalmente rilevante accaduto su una nave in mare aperto è dello Stato di bandiera. L’Italia prestò la cooperazione richiamata dall’ultimo periodo del comma 7 dell’art. 94 UNCLOS, cosa che invece non fece l’India. A tal proposito, a niente vale sostenere che quello indiano sia uno Stato federale e che la competenza sia stata esercitata dalle autorità di uno Stato membro dell’Unione Indiana, perché il Kerala non è un soggetto della comunità politica internazionale e non esercita la sovranità territoriale che consentì all’India di firmare il Trattato di Montego Bay (e di ratificarlo).
La violazione del diritto internazionale da parte dell’India fu ancora più evidente se si analizza il disposto dell’articolo 97 dell’Unclos, che stabilisce esplicite norme sulla Giurisdizione penale in materia di abbordi o di qualunque altro incidente di navigazione :
1. In caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza
2. In ambito disciplinare, lo Stato che ha rilasciato la patente di capitano o un’idoneità o licenza è il solo competente, dopo aver celebrato un regolare processo, a disporre il ritiro di tali documenti, anche nel caso che il titolare non sia cittadino dello Stato che li ha rilasciati
3. Il fermo o il sequestro della nave, anche se adottati come misure cautelari nel corso dell’istruttoria, non possono essere disposti da nessuna autorità che non sia lo Stato di bandiera
Il dettato del trattato è di tale chiarezza che non necessita di alcun commento.
Sotto il profilo giuridico, in un certo momento l’India era effettivamente presunta parte lesa per aver patito la morte violenta di due suoi cittadini, con il sospetto che la causa fosse il comportamento di due militari di scorta a una petroliera italiana. Nel solco del trattato Unclos, il governo indiano federale avrebbe dovuto:
1) astenersi da intraprendere azioni penali o disciplinari contro il personale a bordo della “Enrica Lexie” (a prescindere che si trattasse di militari con le insegne e i gradi dell’Italia), in quanto nave italiana soggetta alla giurisdizione del proprio Stato di bandiera;
2) attivare la procedura prevista dal comma 6 dell’art. 94 (denuncia allo Stato di bandiera), per vie diplomatiche;
3) rinunciare a fermare o, addirittura, a sequestrare la petroliera, neanche come misura cautelare, aderendo alle disposizioni del del comma 3 dell’art. 97 UNCLOS.
L’India invece intraprese tre azioni contrarie diritto internazionale, realizzando un ribaltamento delle posizioni giuridiche tra Stati.
Ancora, nel marzo 2013 l’India violò la Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche del 1961, limitando la libertà dell’ambasciatore italiano Daniele Mancini, quando il Governo italiano aveva manifestato l’intenzione di non rimandare in India Latorre e Girone, tornati in Italia a seguito di un permesso ottenuto per esercitare il proprio diritto di voto alle elezioni politiche del mese precedente.
L’India violò le prerogative diplomatiche del personale italiano e il Governo Monti, dopo consultazioni con il Capo dello Stato pro tempore (Giorgio Napolitano), decise incredibilmente di ritornare sui propri passi e di rimandare in un Paese straniero in cui vige la pena di morte due militari in servizio di Stato accusati di un reato (eventualmente commesso per conto dell’Italia).
In quella occasione il governo indiano si comportò – con pochi precedenti analoghi – anche violando lo spirito e i principi generali del Trattato di Montego Bay, espressi dagli articoli 300-304, secondo cui le parti dell’Unclos sono obbligate alla cooperazione per dirimere le controversie, adempiendone le norme in buona fede e senza abuso di diritto.
Va ricordato che allora il Governo Monti non era nel pieno del mandato, ma nell’esercizio degli affari correnti, in vista della composizione di un nuovo governo coerente con il risultato della consultazione elettorale. Tuttavia, per manifestare la propria opposizione alla decisione di far ritornare i due militari italiani in India, il ministro pro tempore degli Esteri – Giulio Terzi di Sant’Agata – si dimise, argomentando in Parlamento le motivazioni del grave gesto. Motivazioni che da allora hanno trovato più di una conferma documentale, attraverso la pubblicazione di pareri e di indirizzi giuridici emessi dal ministero della Giustizia e dalla Presidenza della Repubblica.
CONCLUSIONE
L’India ha sancito la sospensione di ogni azione giudiziaria sui due sottufficiali della Marina Militare Latorre e Girone fino al 13 Febbraio 2016. Mentre Latorre rimarrà fino a quella data in Italia per curare i postumi di una ischemia, Girone resterà in servizio presso l’ufficio dell’addetto militare italiano a New Delhi.
L’Italia potrebbe anche forzare la mano, utilizzando le prerogative diplomatiche del militare e inviandolo in missione in uno Stato dell’Estremo Oriente, per provocare la reazione indiana che sarebbe in contrasto con la sentenza emessa dall’Itlos martedì scorso. Tuttavia l’attuale Governo non sembra mostrare il carattere necessario per una svolta del genere, che metterebbe in difficoltà l’India e la esporrebbe anche ad azioni in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Occorrerà aspettare dunque l’avvio delle attività della Corte Arbitrale sancito dall’Allegato VII dell’Unclos per capire quale misura provvisoria possa essere presa sui due militari. Nel frattempo, Girone resterà in India.
Ci sono però due certezze.
La prima è che due persone sono state uccise in un incidente probabilmente legato a una campagna internazionale antipirateria (in cui l’India non ha mostrato cooperazione e correttezza giuridica internazionale). Va però ricordato che a favore delle famiglie dei due poveri pescatori – per precisa iniziativa delle famiglie e degli amici dei due militari italiani coinvolti in questa vicenda – sono stati già versati risarcimenti cospicui (in relazione al costo della vita in India) dell’ordine di oltre 100mila euro ciascuno.
La seconda certezza è che le istituzioni italiane hanno peccato di iniziativa diplomatica e perfino giudiziaria. Sarebbe bastato che – in applicazione dell’articolo 97 Unclos in precedenza richiamato – la procura di Roma, competente per i reati commessi o subiti da italiani all’estero, ordinasse il fermo di Latorre e Girone perché sospettati di omicidio e imponesse il relativo divieto di espatrio.
Secondo l’ex ministro Terzi (diplomatico di elevato spessore esperienziale, con incarichi in sedi strategiche per il Paese), dopo la concessione del permesso per votare in Italia il Governo si aspettava che la magistratura competente (Roma) operasse in quel senso, in applicazione indipendente delle proprie prerogative giudiziarie. Invece quel fermo non avvenne, con ampio sconcerto anche alla Farnesina.
A tal proposito, il generale in congedo Fernando Termentini presentò nel 2014 un esposto denuncia (firmato da oltre 300 cittadini italiani) per ipotesi di reati contro lo Stato e le Forze Armate contro ignoti. Quell’esposto si è arenato nelle secche giudiziarie romane. Di indebite pressioni per rimandare i due militari italiani in India Terzi ha accusato – apertis verbis – l’ex ministro dello sviluppo economico del Governo Monti, Corrado Passera, nonché lo stesso Mario Monti.
A dimostrazione che l’intreccio di interessi economici dietro questa vicenda farà perdere la faccia a molti personaggi e personaggetti del retrobottega governativo nazionale.