Ogni relazione è un atto di cura. È una reciproca attenzione, un ascolto profondo, un sentire con il cuore. A dirla così, la sensazione è che stia affermando qualcosa di banale, di ovvio ma se una relazione non innanzitutto è cura, allora sarei davvero tentato dalla difficoltà di dire cos’è una relazione.
Il problema fondamentale, non solo di ogni relazione, ma della stragrande maggioranza di quello che diciamo è che diamo tutto troppo per scontato. È un atteggiamento naturale, un vizio della quotidianità. Eppure proprio la quotidianità che ci scorre addosso è il problema più grave. Riparafrasando de Saint-Exupéry, direi che gli uomini dimenticano il valore delle cose perché non sanno dare un nome alle cose. Perché dimenticano di dare un nome alle cose, le vivono e basta. Come se tutto fosse dato.
Certo, dare un nome a quello che si vive non è la cosa più semplice del mondo. Spesso è più facile capire quanto si è vissuto solo nel momenti in cui si è perso, quando la mancanza fa un’eco forte e sorda nella rumorosa quotidianità. Il valore delle cose viene alla luce solo quando sono state perdute.
Cura deriva da una parola sanscrita, kavi, letteralmente osservare, guardare ma anche stare in guardia, conoscere, ascoltare. Kavi è un gesto personale, attiene alla responsabilità ma anche al desiderio ed all’attenzione. È il movimento di chi dà ma resta in guardia, di chi si spende e scommette nella spesa ma ragiona con il senno del padre: dà la mano ma tiene saldo il percorso.
Se chiedessi a chiunque quanti curi, quanto si prenda cura di chi gli è accanto, di chi ama, tirerei giù tanti di quei discorsi da poterci riempire kilometri cubi di spazio (e non è sarcasmo). Ovviamente riceverei esempi su esempi, casi su casi, fatti su fatti. Cura profonda, immensa, particolare, innegabile. Cura speciale per momenti speciali e persone speciali e contesti speciali e sentimenti speciali. Ma è quella la sola?
La cura è un gesto sottile, un sospiro del cuore che si sente appena, il battito segreto di uno sguardo che lascia per un istante il percorso, si ferma a dare attenzione e prosegue. Mettendolo in termini teatrali e cinematograficai, direi che è come un effetto speciale: funziona bene quando non si vede.
Eppure è il gesto quotidiano il nido della cura. È nella carezza, nel desiderio di essere accanto, nella mano tenuta nella notte in auto sulla strada di casa o quella tenuta sul divano mentre si guarda la tv o in biblioteca mentre si studia o nascosta nel segreto sotto un tavolo, mentre tutto il mondo scorre. La cura è in un abbraccio, nella forma del cuore che accoglie come la spalla accoglie la testa dell’altro e nel sonno di due anime che si tengono strette come fossero una sola. Insieme.
La cura è tra le righe di un discorso, nella buonanotte, nel come stai, nello stai attento prima di un viaggio, anche se è solo quello che separa casa da scuola. La cura è nella preghiera segreta, quella che nessuno sa, nella candela accesa di nascosto, nella speranza franta in quante sono le stelle del cielo e ricondotta in un sorriso quando si sta male. La cura è sperare e risolvere, soprattutto quando si sta male. Perché una lacrima che scorre lungo il viso, anche se forte di dolore, è forse quanto più si avvicina ad una carezza di Dio in un giorno in cui la tempesta che hai dentro è tanto forte da temere che anche il cuore possa annegare.
Ci insegnano i teorici della comunicazione che un messaggio non è nelle parole ma in quello che le parole dicono. Così la cura non è nei gesti ma in quello che i gesti dicono. L’incapacità di dare un nome alle cose fa perdere valore alle cose stesse. Un abbraccio nato per abitudine è un gesto tanto vuoto quanto inutile, un intercalare che ha lasciato le parole per consumarsi a furia di gesti automatici.
Spesso chi ha cura di noi ci passa accanto, ci attraversa e si allontana. Ma c’è anche chi resta per tutta la vita. Assumiamo per cura il bisogno di avere, di sentirsi parte, di essere al centro ma non di essere dentro. Se spesso si definisce l’amore come un dialogo profondo tra due persone, tra due cuori, o come una danza, io credo che amare non sia altro che il profondo desiderio di avere ognuno il cuore dell’altro dentro di sé, di volerlo custodire e proteggere. E il desiderio continuo, l’impossibile soluzione di avere contemporaneamente il cuore di uno nell’altro non è altro che il motore dell’amore, il motivo per cui tutto si muove e tutto ha un senso. Amare è rincorrere il desiderio di curare ritrovandosi oggetto di cure.
Sono sempre stato scettico nei confronti di chi dà troppo per gli altri e poco per sé. La cura nasce e si impara tra le mura di casa. E non voglio intendere solo la famiglia, quanto quel piccolo confine del nostro corpo che fa di noi stessi casa. L’attenzione verso di sé è il più grande gesto di cura che si possa avere verso gli altri, perché la base dell’aver cura è esserci. Non esistono attenzioni che non siano attente, che non abbiano cura di sé stesse, «colui che amo / mi ha detto / che ha bisogno di me / perciò / bado a me stesso» citando Bertolt Brecht. Eppure c’è chi si annulla, ma quella non è cura.
Un detto degli indiani d’America dice che con il tempo il cacciatore impara a guardare lontano ed a guardare vicino, a scrutare l’orizzonte così come i cuori. Non esiste un viaggio senza un punto di partenza e senza un punto di partenza non esiste nemmeno il viaggiatore.