Ieri l’altro Hiroshima cancellata dalla Faccia della terra, 70.000 esseri umani, annientati, soluzione finale, domani scomparirà Nagasaki. Sto riposando e pensando su una dozzinale sdraio da discount nascosto in una fetta d’ombra affianco alla mia casetta in Abruzzo, una vecchia casa di tufo, di quelle costruite per i superstiti del terremoto del 1915 che qui nella mia terra in pochi minuti uccise 30 mila persone, 40.000 mila in meno di quelle sterminate in un attimo dal dito del comandante Tibbets, poi promosso a Generale, comandante dell’ argenteo bombardiere Enola Gay, quando ha sganciato muovendo una falangetta della mano la prima Bomba Atomica che degli esseri umani hanno lanciato su migliaia di famiglie alle 8 del mattino di una città civile.
Rimugino o rumino queste cose nel torrido calore che mi attanaglia e in cui persino le mosche desistono dai loro uffici di tortura, sdraiato parallelamente al suolo con gli occhi piantati nel cielo a contemplare le nubi, come un ferito di Guerra e Pace.
Rilfetto cosi sdraiato nel torpore del meriggio che ieri l’altro, si, infine sono riuscito a scrivere un buon articolo , non pessimo insomma, dal titolo “Claude Eatherly: il carteggio tra il filosofo Anders e il pilota di Hiroshima” recensendo il libro dei tipi Mimesis che finalmente ha ripubblicato le lettere, mai cosi necessarie da leggere come oggi, tra Claude Eatherly , il pilota che ha guidato la missione della prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima e il Filosofo Gunther Anders, che è stato tra i fondatori del movimento antinucleare mondiale e il primo marito della mia amatissima Hannah Arendt.
Mentre penso queste cose tra le nubi vedo come un piccolo pesciolino d’argento, minuscolo, nuotare nella sua linea retta assoluta. E’ un aereo e sta tagliando il cielo sopra il cratere del fucino provenendo da Sud Est verso Nord Ovest. E’ altissimo. Se non fossi stato sdraiato e immobile in questa contemplazione non lo avrei mai visto.
Mi torna in mente la scena che descrive il comandante Eatherly quando vola altissimo sui cieli del Giappone per evitare la contraerea, descrive un gruppo di aerei giapponesi che gli passano sotto, lontanissimi dalla sua altezza e che non si avvedono nemmeno di lui. Di nuovo nel ricordare questa immagine ho la sensazione che sia tutto acquatico, come di un mondo minuto di uno stagno, dove a diverse quote passano placidi pesci , larve di odonati , piccole pupe danzanti di zanzare, bisce , non è forse cosi la terra nella immensità cosmica, poco meno che un piccola goccia d’acqua infetta di vita?
Penso alla crudeltà di un gioco infantile nella assordante luce dello zenit. Un qualcosa di mostruoso e infantile allo stesso tempo. Come un bambino completamente assorto e sprofondato nell’azione di sterminio dei girini, o nel crimine atroce dell’omicidio di un cucciolo di gatto o di cane.
Alla fine del pensiero l’aereo pesce argentato è scomparso. Tecnicamente parlando avrebbe potuto lasciare cadere un ordigno nucleare su di noi. Sarebbe stata l’ultima cosa che io e qualcun’altro avremmo visto e probabilmente pur senza il tempo che il pensiero si rendesse immaginabile alla stessa mente come parola avremmo saputo nel lampo disintegrante ogni cosa che era da li che era scesa la fine. Altre migliaia di persone non avrebbero nemmeno saputo di essere scomparse, sarebbero rimaste in un limbo perpetuo di chi non avendo coscienza della fine perde la coscienza del principio.
Ieri abbiamo distrutto Hiroshima, oggi Hiroshima è un letto di cenere dove bruciano tizzoni umani. Intorno, apertosi l’inferno, è un vomito di spettri che danzano come falene accecate senza più luce. Sono i fratelli e le sorelle delle ombre impresse sui muri-carta fotografica della incenerita città. Si spogliano di abiti di pelle bruciante per giacersi con la tenebra.
Domani Bruceremo Nagasaki.
Percorrendo al contrario la rotta su cui prima avevo visto il pesce aereo argentato ecco un altro pesce aereo argentato.
Qualcuno dei sopravvissuti alla cosa, racconta di averlo visto sul cielo di Hiroshima. Esattamente come io sto vedendo nel silenzio vertigine della distanza siderale questo aereo di cui non so nulla se non che potrebbe distruggermi.
Questo luogo da cui il mio sguardo precipita nell’abisso del cielo ferito dall’argento di quell’aereo, luogo di una antica distruzione naturale, quella di un terremoto di quasi 8 grado della scala richter, impallidisce di fronte alla potenza distruttiva che il desiderio umano ha suppurato, veleno uscito da aritmetiche e geometrie: Appena 30 mila morti, e i sopravvissuti, quelli che il terremoto non ha preso, non sono diventati spettri morenti di cosmici veleni nucleari, che avrebbero dovuto correre solo nelle desolate vastità del cosmo e perdersi senza mai incontrare nessuna creatura, mefitico ansimo di stella assassinata.
“ …una causa effettiva diventa sempre violenta, nel senso pregnante della parola, solo quando incide sui rapporti morali. La sfera di questi rapporti è data dai concetti di diritto e giustizia. Per quanto riguarda il diritto è chiaro in primo luogo che ogni ordinamento giuridico si fonda sul rapporto più elementare tra fini e mezzi. In secondo luogo è altrettanto chiaro che la violenza può trovarsi solo nell’ambito dei mezzi e non dei fini….” risuonano nel nitore profondo di questo crepuscolo atomico le parole dell’inizio dell’Enigma di Benjamin sulla violenza che nessuno ancora ha sciolto, sfinge appollaiata sulla nostra salute, peste che deturpa la luce del mondo.
Improvvisamente, so perché, mi sovviene il grigio triste squallore di un qualche mio primo ministro del momento, uno qualunque, di uno ieri oggi domani fusi nel sempre osceno del vuoto morale come una deformante artrosi spirituale, un non tempo da cui cadono maschere, e lo vedo come una specie di ratto grattuggiante una qualche sostanza stantia alla vita, che ha dato all’Italia l’ignomia oscena, grottesca, fantozziana e immonda di non firmare la messa al bando delle Armi nucleari, che tanti poveri e deboli Stati invece hanno avuto l’umanistico orgoglio di firmare, sfidando il ridicolo della propria impotenza.
Altra classe di spettri, bluastri, lividi, annidati per succhiare un quale incomprensibile resto di senso di esistere nelle pieghe di un potere di cui hanno perso qualsiasi concetto.
A Nagasaki, sono rimaste poche ore da vivere, decine e decine di migliaia di esseri umani stanno scegliendo gli abiti con cui essere assassinati, anzi annientati, le pietanze che stanno preparando tra quelle che mangiarono sono le ultime, qualcuno rimanda a un mai, di fare l’amore con la sposa o lo sposo domani .
Cerco di mettere a fuoco quel pesce aereo d’argento. Ma è cosi alto, sembra la visione di un altro mondo. Sembra una libellula carnivora che vola oltre l’acqua dello stagno, librandosi sopra di noi che siamo immersi nelle sue remote profondità.
Ci siete voi lissù? O gloriosi Victory Boys? Vi immagino fare baldoria, fumare una sigaretta contravvenendo al regolamento, mentre coccolate Fat Boy che a 500 metri di altezza su Nagasaki domani lascerà i suoi atomi unirsi nell’incesto nucleare con la morte, eruttando quel grido imploso che divora esistenza. Steso sulla caldissima stoffa sintetica della mia sdraio economica perdo la vista del cielo, per la visione dell’immaginare questi candori omicidi dei ragazzi che accompagnano su un bombardiere argentato la bara partoriente del male. l’ordigno nostro signore che ridurrà in un microsecondo i bambini di Nagasaki in fatue fiammele e le loro madri in orrori colanti.
Mi tornano in mente le carlinghe di questi pesci aereo bombardiere che distrussero Hiroshima ieri e distruggeranno Nagasaki domani. mi tornano in mente per le loro fusoliere su cui sono disegnati personaggi dei fumetti, immagini inventate per un mondo minorile, questo atroce e osceno infantilismo che non sarà minimamente sporcato dal fiume di sangue che sarà spremuto da Nagasaki domani, perchè come quello delle 70.000 anime di Hiroshima di ieri è diventato un raccapricciante vapore deicida che sale verso le stelle agghiacciando la galassia e convincendo Dio a non ripetere mai più l’esperimento della creatura disumana. I volanti ragazzotti eroi che hanno cancellato Hiroshima riescono a fotografarlo, questo vapore, orrido fungo, mentre il loro argentato bombardiere , il terzo, della missione, addetto alla ricognizione, dall’altisonante ed Hegeliano nome “Necessary Evil” fuggendo goliardicamente l’onda del male prende aria di plancia dell’onda d’urto inclinandosi paurosamente come una tavola di surf su un oceano di sangue. Li vedo. Un terrore infantile disegna loro dei sorrisi ferita nei volti alla visione di Hiroshima arsa viva in un attimo.
Sono le 8 di sera. Tornano i Trattori dal fondo prosciugato del fucino, sopra ci sono gli uomini come l’esercito di terracotta di un imperatore cinese, bruciati da ore di sole e polvere e vento. Ragazzetti ancora troppo giovani per il fronte del lavoro nel fucino volano biondastri con le lentiggini scoperte dai ciuffi dei capelli alzati dal vento coi loro motorini verso appuntamenti che non dimenticheranno mai più per tutta la vita, con il primo bacio dato tra i rovi, guardando il paese dall’alto, ci sono le donne fuori dalle soglie a prendere il fresco, sono tutte cose che so, non le vedo , sdraiato come sono con gli occhi nel cielo da dove domani noi distruggeremo Nagasaki e ieri abbiamo distrutto Hiroshima.
E’ terribile penso, guardare il cielo vividamente immaginando che da li può scendere un bomba termonucleare, ancora più terribile e ricordarsi che è da li che ne sono scese due, lanciate da nati da ventre di donna, annientando due infiniti mondi e ferendo a morte il tempo per sempre.
Ma come fate a dormire senza disgusto di voi stessi, uomini e donne, a cui abbiamo messo nelle mani il potere per firmare trattati e veti e scrivere leggi , voi che non avete messo questo paese tra quelli che hanno scritto la legge che ha messo l’orrore nucleare fuori da ciò che è umano? Voi, morti viventi, dormirete per il resto del tempo abbracciati a questa orrida infamia, all’orrore della distruzione che state per fare.
Voi domani distruggerete Nagasaki.
Voi ieri avete distrutto Hiroshima.
Continuando a guardare sempre fisso nel cielo, nel torpore del calore assediante, mi risuona in mente il testo che Anders inviò a Claude Eatherly, ” Comandamenti dell’era Atomica” , ecco lo vedo come fosse scritto qui di seguito, in questo testo che scrivo con la mente sulla sdraio, non sapendo ancora se avrò la forza di trasporlo davvero, si lo vedo , perfettamente impresso nel silenzio foglio quasi come se qualcuno potesse vederlo e leggerlo insieme a me, muovendo le labbra contro l’azzurro del cielo da cui domani scenderò la distruzione di Nagasaki recito senza voce… “Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: –Atomo-“. …….
” COMANDAMENTI DELL’ERA ATOMICA
Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”.
Poiché non devi cominciare un solo giorno nell’illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile. Quello che ti circonda e’ qualcosa che domani potrebbe essere già semplicemente “stato”; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo più “caduchi” di tutti quelli che finora sono stati considerati tali. Poiché la nostra caducità non significa solo il nostro essere “mortali”; e neppure che ciascuno di noi puo’ essere ucciso. Questo era vero anche in passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo essere uccisi come “umanità”. Dove “umanità” non è solo l’umanitaà attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni terrestri; ma e’ anche quella che si estende attraverso le regioni del tempo: poiché, se l’umanità attuale sara’ uccisa, si estinguerà con lei anche l’umanità passata, e anche quella futura.
La porta davanti alla quale ci troviamo reca quindi la scritta: “Nulla sara’ stato”, e sull’altro verso le parole: “Il tempo e’ stato solo un interludio”. Ma, in questo caso, il tempo non sara’ stato un interludio fra due eternità (come speravano i nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di ciò che, nessuno potendolo ricordare, “sara’ stato” come se non fosse mai stato, e il nulla di ciò che non potrà mai essere. E poiché non ci sara’ nessuno per distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco quindi la nuova, apocalittica forma di caducità che e’ la nostra, e accanto alla quale tutto ciò che ha avuto finora questo nome e’ diventato un’inezia. – E perché questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”.
*
La possibilità dell’apocalisse.
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: “La possibilita’ dell’apocalisse e’ opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo”. No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono di essa; poiche’ anch’essi sono come noi; anch’essi sono noi; anch’essi sono radicalmente incompetenti. E’ vero che questa incompetenza non e’ colpa loro, ma e’ piuttosto l’effetto di una circostanza che non si puo’ attribuire a nessuno di loro ne’ di noi: la sproporzione continuamente crescente fra la nostra facolta’ produttiva e la nostra facolta’ immaginativa, fra cio’ che possiamo produrre e cio’ che possiamo immaginare.
Poiché nel corso dell’epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si e’ rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia “esorbitante”, esuberante, eccessiva, e cioè tale che superava e trascendeva l’ambito del reale, oggi i poteri della nostra fantasia (e i limiti della nostra sensibilità e della nostra responsabilità sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si può dire che oggi la nostra fantasia non e’ all’altezza degli effetti che possiamo produrre. Non e’ solo la nostra ragione a essere kantianamente limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e – a maggior ragione – la nostra sensibilità.
Possiamo pentirci, tutt’al più dell’uccisione di un uomo: e’ tutto ciò che si può chiedere alla nostra sensibilità possiamo rappresentarci, tutt’al più, l’uccisione di dieci uomini: e’ tutto ciò che si può chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila persone non presenta più alcuna difficoltà e ciò non solo per ragioni tecniche; e non solo perché l’azione si e’ ridotta a semplice collaborazione e partecipazione, a un “azionare” che rende invisibile l’effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioè perché la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita dall’immaginazione o dai sentimenti. – Le tue verità successive dovrebbero quindi essere queste: “L’inibizione diminuisce progressivamente con l’ingrandirsi oltre misura dell’azione”; e “L’uomo e’ minore (più piccolo) di se stesso”.
Questa e’ la formula della nostra attuale schizofrenia, e cioè del fatto che le nostre varie facoltà operano separatamente, come entità isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra loro. Ma non e’ per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su noi stessi che devi formulare queste verità ma, al contrario, per inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare; per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finché ti e’ concesso di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e rassegnarti alla tua schizofrenia. Ma se non sei disposto a questo, devi cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E ciò significa (questo e’ il tuo compito) che devi cercare di colmare l’abisso fra le due facoltà la facoltà produttiva e la facoltà riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o, in altri termini, che devi sforzarti di allargare l’ambito limitato della tua immaginazione (e quello ancora più ristretto del tuo sentimento), finché sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire l’enormità che sei stato in grado di produrre; finché tu possa accettare o respingere ciò che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste nell’allargare la tua fantasia morale.
*
Non aver paura di aver paura.
Il tuo compito successivo e’ quello di allargare il tuo senso del tempo. Poiché decisivo per la nostra situazione attuale non e’ solo (ciò che ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si e’ contratto, e che tutti i luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai località viciniori; ma che anche lo spazio temporale si e’ contratto, e che tutti i punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunità attigue. Ciò vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale.
Per il mondo orientale, poiché il futuro vi e’ pianificato in una misura senza precedenti; e il futuro pianificato non e’ più un futuro “in
grembo agli dei”, ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere previsto, e’ già visto come parte integrante dello spazio in cui ci si trova. In altri termini: poiché tutto ciò che si fa, lo si fa per quel prodotto futuro, esso getta già la sua ombra sul presente, appartiene già in un senso pragmatico, al presente stesso.
E ciò vale, in secondo luogo (ed e’ il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale attuale; poiché questo, anche senza proporselo direttamente, opera già sui futuri più remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della degenerazione, e forse dell’esistenza o dell’inesistenza dei suoi nipoti. E non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a questo risultato: poiché ciò che conta, da un punto di vista morale, e’ soltanto il fatto. E dal momento che il fatto – l'”azione a distanza” non pianificata – ci e’ noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: “Non esser vile, abbi il coraggio di aver paura! Astringiti a fornire quel tanto di paura che corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!” Anche e proprio la paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e dire che abbiamo già paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo, anzi, nell’ “epoca della paura”, e’ una frase priva di senso, che, se non e’ diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, e’ pur sempre uno strumento ideale per impedire l’avvento di una paura veramente adeguata all’enormità del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. – E’ vero piuttosto il contrario: che viviamo in un’epoca refrattaria all’angoscia e assistiamo quindi passivamente all’evoluzione in corso.
Perciò vi e’ tutta una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacita’ di sentire), che non e’ possibile enumerare qui (1). Ma non possiamo fare a meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono un’attualità e un’importanza particolare. Si tratta della mania delle competenze, e cioè della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra.
Cosi’, per esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei militari. E questo “non aver diritto” si trasforma subito e automaticamente in “non aver bisogno”. In altri termini: non c’e’ bisogno che mi occupi dei problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi. E posso fare a meno di aver paura, poiché la paura stessa viene “sbrigata” in un altro ressort. Perciò ripeti dopo il tuo risveglio: “Res nostra agitur”. Il che significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perché ci può colpire; e 2) che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo e’ infondata, perché siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti. Credere che in puncto “fine del mondo” possa aver luogo una competenza maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del lavoro, delle responsabilità e dei compiti) sono diventati politici o militari, e che si occupano della fabbricazione e dell'”impiego” della bomba più attivamente o più direttamente di noi, siano perciò più “competenti” di noi, è una follia pura e semplice.
Chi cerca di farcelo credere (che si tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal momento che la coscienza morale implica una responsabilità, e la responsabilità e’ affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura, con la nostra angoscia morale, invaderemmo – secondo loro – un campo di loro competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto privilegiato, un “clero dell’apocalisse”: un gruppo che si arroghi una competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti. Se ci e’ lecito variare il detto rankiano (“ugualmente vicini a Dio”), potremmo dire che “ognuno di noi e’ ugualmente vicino alla fine possibile”. E perciò ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
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Contro la discussione di carattere tattico.
Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilità e la nostra responsabilità vengono meno di fronte alla “cosa”: ma non siamo neppure in grado di pensarla. Poiché sotto qualunque categoria cercassimo di sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se può esistere in molti esemplari, e’ unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: e’, quindi, un monstrum. Disgraziatamente e’ proprio questa (“mostruosa”) inclassificabilità a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla addirittura.
Tendiamo a considerare come inesistente tutto ciò che non siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa (ciò che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli uomini), tendiamo a classificarla (poiché e’ la soluzione più comoda e meno inquietante) come un’arma, o più in generale come un mezzo. Ma essa non e’ un mezzo, poiché e’ essenziale alla natura del mezzo risolversi nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non accade in questo caso. Poiché anzi l’effetto inevitabile (e perfino l’effetto consapevolmente ricercato) della cosa e’ maggiore di ogni scopo pensabile; poiché questo, per forza di cose, scompare e si annulla nell’effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c’erano ancora “fini e mezzi”. Ed e’ chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola esistenza, lo schema “fini e mezzi”, non può essere un mezzo. Perciò la tua massima successiva sia: “Nessuno mi farà credere che la bomba sia un mezzo”.
E dal momento che non e’ un mezzo come i milioni di mezzi che compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per costruire la quale nessuno ci interpella. – E come non devi credere a quelli che la chiamano un “mezzo”, non devi credere nemmeno ai persuasori più sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla “dissuasione”, ed e’ prodotta, cioè solo allo scopo di non essere usata. Poiché non si sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere usati; o, tutt’al più, vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non furono usati (e cioè quando la minaccia del loro uso, spesso già avvenuto, si era già rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare che la cosa e’ già stata “usata” realmente (e senza giustificazione adeguata) a Hiroshima e Nagasaki.
Infine, non dovresti permettere che l’oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo falso con un’etichetta sciocca e minimizzante. Quando l’esplosione di una bomba H e’ definita ufficialmente “azione Opa” o “azione nonnino”, non e’ solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole. Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui semplice presenza e’ già una forma di uso) e’ discussa da un punto di vista puramente “tattico”. Questo tipo di discussione e’ assolutamente inadeguato, poiché l’idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche presuppone l’esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto stesso della loro esistenza.
Ma questa e’ una supposizione affatto irreale, poiché la situazione politica (l’espressione “era atomica” e’ perfettamente giustificata) e’ definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli avvenimenti politici a svolgersi all’interno della situazione atomica; e la maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all’interno di questa situazione.
I tentativi di utilizzare la possibilità della fine del mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale, indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento. L’epoca delle astuzie e’ finita. Perciò devi farti un principio di sabotare tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull’umanità di un’apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere deriso come persona priva di realismo politico. In realtà, ad essere poco realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di significato dall’uso (anzi, dalla semplice possibilità dell’uso) di questi mezzi.
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La decisione e’ già stata presa.
Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle esperienze dilaboratorio. Poiché questa e’ solo una frase. E non solo perché abbiamo già’ gettato delle bombe (ciò che molti stranamente dimenticano), e l’epoca “in cui si fa sul serio” e’ quindi già cominciata da un pezzo; ma anche perché (ed e’ la ragione più Importante) non e’ possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima sara’, quindi, questa: “Per quanto felice possa essere l’esito degli esperimenti, e’ lo sperimentare stesso che fallisce”.
E fallisce perché si può parlare di esperimenti solo dove l’evento sperimentale non esce e non spezza l’ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non si ritrova in questo caso. Poiché fa proprio parte dell’essenza della cosa, e dell’effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali, accrescere il più possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo dell’arma; e cioè, per quanto contraddittoria possa essere la formula, provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Ciò che e’ prodotto dai cosiddetti “esperimenti” non rientra più, quindi, nella classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell’ambito della storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal fall-out) e perfino della storia futura, poiché e’ il futuro stesso ad essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si può quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di Jungk, “è già cominciato”. E’ quindi del tutto illusoria e ingannevole l’affermazione a cui si ricorre cosi’ volentieri, che l’impiego della cosa non e’ stato ancora deciso. – E’ vero, invece, che la decisione e’ già avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi doveri denunciare e distruggere l’apparenza che noi si viva ancora nella “preistoria” atomica: e chiamare per nome ciò che e’.
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Siamo manipolati dai nostri apparecchi.
Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo comandamento: “Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le tue massime e quindi le massime di una legislazione universale”. E’ un postulato che può lasciare interdetti: l’espressione “massime delle cose” può sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perché è strano e paradossale e’ il fatto stesso designato dall’espressione. Ciò che vogliamo dire e’ solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla natura degli apparecchi).
Ma poiché, d’altra parte, siamo gli utenti di questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo per trattare il nostro prossimo, anziché secondo i nostri principi, secondo i modi di operare degli apparecchi, e cioè, in certo qual modo, secondo le loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di fatto); che la nostra coscienza morale, anziché dedicarsi all’esame di se stessa (che e’ ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello degli “impulsi nascosti” e dei “principi” dei nostri apparecchi.
Esaminando scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente peccaminoso; ma esaminando la “vita intima” dei suoi aggeggi, vi troverebbe niente meno che l’erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiché erostratico e’ il modo in cui le armi atomiche trattano l’umanità. Solo quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale (“l’analisi del cuore degli apparecchi”), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la conservazione del nostro essere.
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Impossibilita’ di non-potere.
Il tuo principio successivo sia: “Non credere che quando saremo riusciti a compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli allori”. Poiché la fine degli esperimenti non significa ancora quella della produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che sono già stati sperimentati e che sono pronti per l’uso.
Vi possono essere varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si può risolvere, ad esempio, perché ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo, dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe esistenti bastano già per ogni eventualità; insomma, perché sarebbe assurdo e antieconomico uccidere l’umanità più di una volta. Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l’arresto della produzione di bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la distruzione di tutte le riserve).
Anche in un mondo completamente “pulito” (e cioè in un mondo dove non ci fossero più bombe A o H, e dove quindi, apparentemente, non “avremmo” bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle, poiché sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata dalla riproduzione meccanica non si può dire che un oggetto possibile non esista, poiché ciò che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro tipi, i loro “modelli”. Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l’umanità potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora, che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo e’ impossibile, poiché i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica.
Insomma, anche se ci riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro “modelli”, e di salvare cosi’ la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua paura. D’ora in poi l’umanità dovrà vivere, per tutta l’eternità, sotto l’ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva, insufficiente.
Poiché la meta che dobbiamo raggiungere non può consistere nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sara’ mai un giorno in cui non potremmo adoperarla. Ecco quindi il tuo compito: far capire all’umanità che nessuna misura fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potrà mai rappresentare una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sara’, in un certo senso, sempre possibile. Se non riusciamo – si’, tu, tu ed io – a infondere questa coscienza e questa convinzione nell’umanità, siamo perduti… ” (*)
Si è fatto buio , stasera è l’ultima notte di vita di Nagasaki . L’ultima notte d’agosto, ecco che inizia il placido canto dei grilli, anche per loro che mai dichiararono guerra a nessuno e sempre resero lieto e amico il buio a ogni creatura , è arrivata la fine mandata dagli uomini attraverso lo stupro del cielo .
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(*) testo di Gunther Anders presente nella corrispondenza tra Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima. “la coscienza al bando”, Einaudi, Torino 1962, e poi “L’ultima vittima di Hiroshima” mimesis edizioni 2016 a cura di Micaela Latini , traduzione di Renato Solmi, il testo era allegato alla lettera 4 (di Anders a Eatherly, del 2 luglio 1959), apparso nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” il 13 luglio 1957.