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L’inconsapevole trinità – un romanzo di Marcello Lippi – settima puntata

Postato il Giugno 25, 2017 Redazione Cultura 0

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L’inconsapevole  trinità:  Settima Puntata del romanzo di Marcello Lippi.  Qui il link della prima puntata, seconda puntata, terza puntata e quarta puntata, quinta puntata e sesta puntata

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PREFAZIONE 

Scritto durante gli anni di permanenza in Cile dell’autore, questo romanzo racconta una storia affascinante e piena di colpi di scena, in cui agiscono fianco a fianco, secondo quella che è l’assoluta normalità nei paesi del Sudamerica uomini e spiriti, ninfe e personaggi letterari, tutti vivi di un’unica vita che da queste pagine prende corpo e significato. La vera protagonista è una donna, o meglio una creatura leggendaria della letteratura cilena, Osilas, la ninfa che oscilla (donde il nome) tra due mondi e che coinvolge, guida, illumina la vita dei protagonisti maschili. La sua voce è talmente potente e meravigliosa da muovere le onde del mare, il suo operare è benefico e potente per la vita di chi la incontra, siano esseri umani o personaggi letterari resi immortali dalla loro condizione e desiderosi invece di umanità. Il simbolo, il segno, le dimensioni dell’essere. La cattedrale nell’oceano è il racconto di tre vite, o non-vite, alla ricerca del significato del mondo: la prima attraverso la negazione della casualità e l’interpretazione estrema del reale come segno, la seconda attraverso la conflittualità dell’amore non corrisposto, la terza attraverso l’abbandono confidente ad un reale che supera i confini della normalità e ragionevolezza. Tre vite che si intersecano: quella di Pierre de Craon protagonista della pièce di Paul Claudel L’annonce faite à Marie , condannato per un gesto maldestro di violenza ai danni della giovane Violaine a peregrinare in eterno per il mondo con una lieve, ma contagiosa, forma di lebbra in corpo. Immortale perché personaggio di teatro, ma reale, più reale di altri personaggi, nella sua avventura fascinosa e ricca di sorprese, nel suo girovagare attraverso i secoli, maledicendo Dio per la punizione che gli ha inflitto, negandogli anche la redenzione, perché un reale tanto evidente nega la possibilità salvifica della fede; quella di un critico teatrale che, alle prese con un evento imprevisto e destabilizzante, il ritrovamento di una ragazza morente per overdose, si lascia coinvolgere, pensando a questo incontro come ad uno squarcio che deve spezzare la sua vita di prima e creare i presupposti per una nuova, nella quale gli si possibile intuire la ragione del suo esistere, operare ed amare; quella di un pensionato vedovo e solo che incontra uno spirito su una scogliera ed accetta di seguirne le indicazioni fino ad avere una nuova meravigliosa vita in Sudamerica accanto ad una giovane fanciulla. Cos’hanno in comune? Forse nulla, forse un mondo di sensazioni e verità che appartiene solo a loro e del quale Osilas, la creatura del mito andino che oscilla tra le due dimensioni e si coinvolge con l’esistenza di tutti e tre, possiede le chiavi. Il lettore è chiamato ad accettare in questa opera non solo l’operare congiunto di creature terrene, di esseri intermedi tra la dimensione della materia e quella dello spirito e di personaggi di teatro umanizzati, ma anche che i personaggi di una storia corrispondano a quelli dell’altra, che un personaggio possa essere nel contempo morto e vivo in uno sdoppiamento che trova le sue ragioni nel suo essere fortemente angelico e nel contempo simbolico.

Redazione Cultura

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L’inconsapevole  trinità

o

La cattedrale nell’ Oceano

ROMANZO di MARCELLO LIPPI

Settima Puntata

13

Finalmente! Pierre respirava a pieni polmoni l’aria umida e malsana che si incanalava negli angusti vicoli del centro e sfociava impetuosa sui “grachten”, la cui acqua era mossa dal vento in superficie in senso contrario al consueto, come sotto l’azione di violente correnti provenienti dal non lontano mare. Non gli importava che quell’aria fosse a tratti resa irrespirabile dai miasmi provenienti da qualche “coffee-shop”, né che l’acqua dei canali fosse di un marrone chiaro per nulla invitante all’ispirazione poetica: quella era l’aria della libertà, quella era Amsterdam, la città del risveglio dall’incubo vissuto a Köln. Tutto si stava lentamente risistemando: da pochi minuti aveva saputo del buon esito dell’operazione di Carlos, che di lì a qualche giorno avrebbe lasciato l’ospedale sotto promessa di osservare rigide precauzioni, e lui poteva così scacciare da sé almeno quel rimorso.

Appena le ragazze erano tornate dalla clinica e gli avevano riferito la buona notizia, anziché festeggiare con loro, aveva sentito il bisogno di stare solo ed era uscito, come era ormai solito fare ogni sera, per una lunga passeggiata lungo i vialetti poco affollati che costeggiano i grachten nel centro della città e ne seguono la curiosa disposizione a semicerchi concentrici aventi per fulcro la zona antica della città. Così, per qualunque via s’inoltrasse, percorrendola fino al termine tornava sempre al mare, a quella piccola porzione di mare malsano dello Oosterdok, imprigionata tra le strutture del porto e violentata dal tunnel sottomarino di collegamento con il nord. Era pur sempre il mare, e questa consapevolezza aumentava in lui la sensazione di libertà e di pace: sentiva sulla pelle la carezza di una maternità dolente, violentata e tuttavia orante.

Come era cambiato Pierre! La sua vena da “burlador” e la sua predisposizione all’ironia e alla derisione di se stesso e del mondo si erano spente, lavate da quel sangue inaspettatamente versato a Köln. Il suo carattere si era raddolcito: non sentiva più avvampare come un tempo il viso alla prima emozione e i muscoli contrarsi nello spasmo feroce dell’ira; la sua allegria si era fatta malinconica e la sua burbera indole non trovava più modo di sfogare con motti salaci un mal celato senso di superiorità. La paternità si era impadronita di quest’anima ribelle e l’aveva piegata, costretta ad arrendersi davanti al fascino antico della famiglia ed all’incombere delle conseguenti responsabilità. Le ragazze stesse ora non lo vedevano più come un possibile amante, ne era certissimo, ma come un tutore amoroso al quale rivolgere un affetto libero ed incondizionato, senza pretese, senza domande, senza paure. Non c’era più il minimo imbarazzo a confidarsi con lui anche su aspetti molto intimi della vita, anzi c’era in loro una strana euforia quando potevano raccontargli episodi del passato: capivano che lui, ora, le ascoltava ed anzi faceva tesoro dei loro racconti e li approfondiva con domande sempre pertinenti. Ora le ascoltava! La sua mente non vagava più lontano alla ricerca di una fuga dalla noia di una compagnia indesiderata, i suoi occhi non cercavano più un particolare insignificante sul quale soffermarsi come in stato d’ipnosi per dimenticare l’insopportabile momento presente. Pierre era cambiato; per lui, ora, le due ragazze erano veramente importanti: ogni piccolo particolare della loro vita era necessario, era materiale da costruzione per la sua nuova esistenza. Spesso, passando dalla Kalverstraat, la strada dei negozi di abbigliamento giovanili che parte dalla piazza del Duomo e finisce in Muntplein, tornava a casa con due pesanti borse cariche di vestiti, che a volte non incontravano assolutamente il gusto delle  due ragazze, ma che esse indossavano per amore, felici che lui avesse pensato a loro anche nei  momenti di solitudine, nelle sue peregrinazioni senza meta per la città nelle quali, loro ne erano certe, concepiva nuove creazioni e meditava sul futuro.

I suoi committenti gli avevano trovato casa nella celebre Oudezijs Voorburgwal, la via in cui si trovano le più caratteristiche costruzioni della città; era un’incantevole casetta proprio in fronte all’ Oude Kerk, il gioiello architettonico della cui ristrutturazione era stato richiesto d’una consulenza.  La casetta aveva la struttura verticale tipica delle case prospicienti ai grachten, cioè limitava la superficie fronteggiante il canale per estendersi in profondità e in altezza per quattro piani, i due superiori abitati da Madame Dorinde Van Oort, una nota pittrice e scrittrice proprietaria dello stabile; i due inferiori, con ingresso privato, destinati a loro.

Al pianterreno si trovavano lo studio di Pierre e la sua camera da letto, nonché i servizi, che prendevano luce da un minuscolo chiostro interno all’appartamento: al piano superiore, collegato da una stretta  scaletta  a  chiocciola,   erano   la   cucina ed una grande sala, provvista di due divani letto, dove si erano sistemate le ragazze. Enormi finestre occupavano la quasi totalità delle pareti che davano sul canale e sul chiostro interno, permettendo ai locali di rubare la maggior quantità possibile di luce al cielo, spesso grigio, di Amsterdam; esse, partendo da un mezzo metro da terra, raggiungevano il soffitto, estendendosi per tutta la larghezza della parete. Così, però, permettevano dall’esterno la visione totale di ciò che avveniva all’interno dei locali; erano per questo, come in tutte le altre case, dotate di enormi tendoni che gli olandesi, assai poco amanti della privacy, tiravano solo poco prima di andare a dormire.

Le passeggiate serali di Pierre si trasformavano così a volte in uno studio divertito delle usanze indigene, perché la luce artificiale interna agli appartamenti, complice l’oscurità della sera, faceva sì che egli potesse vedere gli abitanti come fossero in vetrina mentre svolgevano le normali occupazioni della loro vita, per nulla preoccupati che li si potesse osservare nitidamente dalla strada, perfino quando si cambiavano d’abito o pranzavano.

La convivenza con le due ragazze si era rivelata, in quella casa di Amsterdam, come una realtà di una bellezza superiore ad ogni immaginazione e l’unico pensiero che turbava la gioia di Pierre era la necessità di non abituarvisi: sapeva benissimo che presto avrebbe dovuto porle fine, prima che la sua nuova “famiglia” potesse accorgersi del fatto che il tempo non lasciava su di lui alcuna traccia del suo passaggio.

Vuoi per la stanchezza del viaggio, vuoi per la preoccupazione della fuga e della salute di Carlos, i rapporti tra Pierre e le ragazze si erano sin dalla prima sera improntati alla più totale consuetudine, come se vivessero assieme da anni. Lo commuoveva l’amorevole cura con cui le ragazze riponevano le sue cose negli armadi e la leggerezza con cui si muovevano per non disturbarlo, quasi sfiorando il fragile pavimento di legno perché i loro passi non risuonassero al piano di sotto dove il maestro riposava; adorava vederle insieme in cucina, come sorelle, intente, conversando vivacemente, a preparargli il pranzo o la cena e, a volte, si soffermava a guardarle vivere, sedendosi in sala a leggere in fronte alla vetrata prospiciente al chiostrino. In questo modo, alzando lo sguardo, poteva osservarle, al di là del chiostro stesso e dell’altra vetrata della cucina, indaffararsi per il suo bene,  per amore suo.

Questa esperienza era per lui totalmente nuova; sino ad allora aveva sempre accuratamente evitato di trovarsi da solo con una donna sotto lo stesso tetto per un tempo più lungo di quello necessario per un caffè: temeva infatti di non riuscire a controllare la propria indole da cacciatore, macchiandosi di un’infame contaminazione. “Vous savez que je ne suis pas un homme tellement sûr”. ( “Voi sapete che non sono un uomo talmente sicuro” P.Claudel: “L’annonce faite a Marie”: Prologo ed.Gallimard )

Quante volte aveva ripetuto quelle parole come un ritornello lugubre, colmo di dolorosa privazione e sconforto!  Ma ora era diverso: lo sguardo che raggiungeva le ragazze attraverso i vetri era uno sguardo amoroso di padre, desideroso di fissare i loro gesti nella memoria, di imprimerli a fondo nel proprio essere, per non dimenticarli più quando avrebbe dovuto, per sempre, abbandonarle. In passato, la fuga era stata per lui sempre una possibilità lieta, una fonte di sicurezza e un valido aiuto nella sua sopravvivenza apparentemente assurda. Davanti a ogni problema pensava: “Non importa: oggi stesso, se voglio, posso reinventarmi un’altra vita e ricominciare!” Ma l’idea del prossimo viaggio ora gli faceva orrore e si sentiva perduto all’idea di non rivederle mai più. Per la prima volta amava ed era in un modo diverso da come aveva sempre pensato potesse essere: non era destinato ad essere amante, bensì padre, padre adottivo di tre ragazzi che aveva dovuto incontrare in quel punto della sua lunga storia e che sentiva di amare come avrebbe dovuto e potuto amare Violaine, se il peccato non avesse dominato la sua carne e smascherato la sua mostruosità. Solo i suoi occhi rivelavano a volte, come già a casa di Catherine, a Lyon, il lupo prigioniero nel suo corpo. Come si era sentito grande, allora, in rue de Colomès, quando aveva represso il proprio istinto e non aveva neppur toccato la ragazza che si era offerta così teneramente ai suoi baci ed alle sue carezze!  Ora sorrideva al ricordo: quella stessa ragazza viveva lì a pochi passi da lui, gli augurava la buonanotte con un tenero bacio sulla fronte mentre era immerso nella lettura, si preoccupava per lui come se realmente Pierre l’avesse generata, lassù, nel piccolo appartamento lionese, ad una nuova vita, come se le fosse realmente padre anche nella carne.

Le due assistenti lavoravano con lui tutto il giorno e poi, rientrate dal lavoro, provvedevano a tutto quanto era necessario per la vita della casa, instancabili, liete, felici di poter apprendere da Pierre i segreti del suo lavoro e di impadronirsi anche solo di una scintilla del suo genio, di    un’ idea, di un istinto, di un gesto di quelli che lui faceva quando non sapeva di essere osservato.

Spesso si concedevano nei suoi confronti quei piccoli moti di tenerezza che ogni figlia sa fare al proprio padre per strappargli un sorriso: non di rado, per esempio, Catherine si metteva a leggere accucciata accanto alla poltrona di Pierre con la testa sulle sue ginocchia e lui l’accarezzava, quasi automaticamente, assaporando il contatto delle sue dita con i biondi capelli fini. Greta, invece, era più donna ed egli non poteva evitare un lieve senso di imbarazzo di fronte alle sue tenerezze: sentiva il corpo agitarsi per ogni contiguità con quello di lei e questo gli dava lo stesso senso di nobiltà provato a Lyon, quando stava abbandonando Catherine; era l’orgogliosa, potente autocoscienza di chi sta vincendo la battaglia con se stesso e antepone la santità della rinuncia al breve piacere dell’infamia. Nel nuovo ruolo di padre si sentiva a proprio agio e lo interpretava con dedizione assoluta, sentendosi fiero di sé e della propria rettitudine. Non che gli fosse sempre facile mantenersi imperturbabile, specialmente in situazioni per lui troppo incresciose e provocanti: le ragazze, infatti, avevano interpretato la familiarità con Pierre in un modo un po’ diverso da come lui la viveva e intendeva. Avendo compreso, in forza del proprio intuito, che Pierre era sostanzialmente innocuo o per volontà o per impossibilità, non lo trattavano con i riguardi tipici della paternità in senso classico, come lui credeva in cuor suo, ma con quella tenerezza affettuosa, mista a pruderie e curiosità, che le donne sfoderano con gli amici omosessuali. Un amico gay, infatti, permette alla donna una libertà assoluta di rapporto perché non pretende nulla sul piano sessuale, come un’amica donna, ma, a differenza di questa, egli non è sentito come un rivale né dal punto di vista estetico né amoroso. La donna non lo considera un suo pari, ma come un uomo al femminile, con il quale si permette le intimità più impensate, gli scherzi più grossolani, gli scambi di confidenze più spinte.  Nello stesso tempo, però, qualcosa dice alla donna che la mascolinità dell’amico non può essere del tutto spenta e che, se ha resistito al fascino delle altre donne non è detto che resista al suo: lo sfida quindi mostrandoglisi nuda senza il timore che le darebbe farlo davanti a un’amica pronta a criticare o a un uomo pronto ad assaltarla o a respingerla.

Pierre non  era  assolutamente  gay,  ma la scarsa esperienza lo rendeva vulnerabile: non era pronto allo spettacolo della nudità, specialmente quella così libera e naturale delle sue due assistenti. In ben poche occasioni nella sua estenuante sopravvivenza, si era trovato a contemplare in tutto il fulgore un corpo femminile nella sua potente libertà e ogni volta questo aveva lasciato in lui un segno indelebile. Ora, questo cimento era divenuto cosa pressoché giornaliera perché le ragazze, pur senza volere in realtà fargli del male, lo provocavano continuamente. Forse semplicemente non pensavano che lui potesse farci caso oppure, al contrario, con quel lieve sadismo che spesso accompagna le donne consce della propria bellezza, godevano del suo muto imbarazzo e della sua stessa impossibilità, che le rendeva, almeno in quel campo, superiori a lui ed assolutamente vittoriose.

A ben pensarci, la loro convivenza era iniziata in un modo del tutto particolare: la via in cui vivevano era infatti all’interno del red-light district, il quartiere malfamato per cui Amsterdam ha voluto rendersi famosa nel mondo rivaleggiando con Hamburg.

L’oltraggio fatto alla Oude Kerk e la sua inglobazione nel quartiere “del peccato” era uno dei motivi per cui Pierre non aveva voluto tornare in questa città, ora se ne era ricordato bene! E proprio sul restauro di una delle torri di questa chiesa era stato richiesto di una consulenza!

La prima passeggiata che avevano fatto nel quartiere, subito dopo essere arrivati ad Amsterdam e prima ancora di disfare i bagagli, avrebbe dovuto essere un’avanscoperta alla ricerca della dislocazione dei negozi di alimentari e dei ristoranti, ma si era trasformata in uno stupito vagabondare nelle anguste vie del quartiere “del peccato”. Appena si erano rese conto di dove fossero capitate, le due ragazze avevano cominciato a nascondere il proprio imbarazzo dietro un’ilarità eccessiva e a soffermarsi davanti alle vetrine dei porno-shop per commentare gli oggetti destinati al piacere solitario in modo incurante del disagio di Pierre, al quale tutto ciò dava una profonda tristezza. Il suo sguardo fissava   le   mattonelle   del   selciato   e non si alzava ad altezza d’uomo per timore di incrociare quello delle prostitute, per le quali provava una pena immensa: come aveva potuto dimenticare che cosa era diventato il quartiere attorno alla Oude Kerk?

Si giustificò pensando alla partenza frettolosa da Köln, ma si sentiva a disagio come solo un padre coscienzioso potrebbe essere portando le sue figlie in un quartiere del genere. Fu Greta ad assumere l’iniziativa ed a prenderlo di colpo a braccetto per sottrarlo al suo isolamento, alla sua fuga da un reale inaccettabile; lo costrinse a fermarsi davanti alla vetrina di un porno-shop e tentò di scherzare con lui, mentre Catherine si aggrappava all’altro suo braccio. Greta si era totalmente disinibita e illustrava forme e dimensioni degli oggetti in vetrina, facendo paragoni e lazzi volgari che imbarazzarono non poco Pierre, ma lo rassicurarono d’altra parte sul fatto che questa visita non avesse in nessun modo scandalizzato le due ragazze. Lo scandalizzato era lui! Lo sentiva bene in quell’oscuro disagio che gli impediva di rispondere con motti salaci alle battute di Greta, nella saliva fattasi acida, come se lo stomaco rifiutasse di accettare ciò che gli occhi illustravano, nella profonda pena che sentiva in fondo al cuore per tutti coloro che incrociava.

“Cosa è diventato l’uomo! Non canta più al cielo la propria solitudine, alla ricerca del Dio assente, non ascolta più le storie degli anziani attorno al fuoco, non tace stupito di fronte al miracolo di una natura infinita: ora ride, sì, ride rumorosamente sotto nuvole grevi di fumo e di rimorso e non alza più nemmeno lo sguardo a contar le stelle o ad immaginar figure tra le nuvole in fuga”- come lui faceva da piccino e come aveva fatto tante volte da grande nel silenzio di Monsanvierge.

Per questi uomini costruiva cattedrali? Per questa ilarità greve e finta? Per lo sguardo spento di questi esseri divorati dalla droga? Per questi schiavi dell’angoscia? Dove era in loro la traccia originale, l’impronta creaturale? Dov’erano la pietà, la mano tesa ad aiutare il fratello in difficoltà, i legami di sangue, i legami di fede? Dov’era il semplice amore degli umili? Come potevano vivere ancora come se una croce fosse stata eretta invano su un anonimo colle? Si rattristò. Pensò che a lui non era stata concessa la fede giustificante, ma un Dio assente e privo di misericordia l’aveva costretto al peso dell’evidenza: per una decisione che solo una volontà superiore poteva aver preso, Pierre era nella natura senza esserne sottomesso alle leggi; non  poteva    negare  l’esistenza  di  questa  Volontà,  ma  non  aveva alcun merito nel riconoscerla. Per questo era senza perdono, senza giustificazione, per sempre!!!

Non riuscì a lasciarsi coinvolgere dall’infantile gaiezza delle sue due assistenti ed anzi le pregò presto di rientrare a casa: si sentiva stanco e provato dai troppi eventi. Acquistarono allora lo stretto necessario per una cena frugale e rientrarono: le due ragazze giocando come bambine ad inseguirsi per i vicoli, lui triste ed amareggiato, faticando a tenere il loro passo come un vecchio claudicante. Per tutta la cena fu di umore tetro, assente, pensieroso, ma si preoccupò di scusarsi con le commensali adducendo come motivazione la stanchezza eccessiva: il vecchio Pierre non avrebbe certo avuto questo riguardo! Le ragazze si occuparono di tutto: disfecero le valigie, gli riposero tutti gli indumenti negli armadi, gli prepararono il letto e lo salutarono ridendo ancora per l’eccitazione e la novità della situazione.

Egli allora sedette sul letto con mosse stanche e faticose: da sempre il suo corpo rispecchiava il suo stato d’animo ed era capace di trasformarsi nello spazio di pochi minuti dal corpo di un vecchio a quello di un giovane o viceversa, se un fatto imprevisto giungesse a dargli nuova linfa o a riempirgli il cuore d’amarezza. Ed un nuovo fatto giunse: aveva deciso di far tirare dalle ragazze solo le tende che davano sulla strada, ma non quelle che chiudevano le finestre prospicienti al chiostrino, perché non amava dormire nella completa oscurità, e fu da lì che un’intensa luce lo colpì, mentre si accingeva faticosamente al sonno. Realizzò quasi subito di che si trattasse e si levò a sedere sul letto, incuriosito: era la luce della sala da bagno che si trovava giusto al di là del chiostro a non più di tre metri da lui. Nessuno aveva tirato la tenda del bagno, sicché gli fu subito chiaro che, se avesse voluto, avrebbe potuto spiare, non visto, l’intimità delle ragazze. Dal suo letto poteva vedere parte della vasca da bagno e la zona del lavandino e della specchiera. La tentazione del voyeurismo durò un istante solo: non poteva fare come quei poveri relitti là fuori in strada, non poteva spiare come un maniaco i gesti privati della loro toilette! Doveva affermare la propria diversità! Accese la lampadina sul comodino e attese di essere notato.

Comparve Catherine. Inizialmente non guardò fuori dai vetri, ma cominciò a riempire la vasca e si spogliò, al di fuori della vista di Pierre, ricomparendo poi vestita di un asciugamani bianco che le copriva solo le parti più intime lasciando libere le belle gambe e le spalle candide, sulle quali cadevano i capelli biondi non più trattenuti dalle mollette. Si accinse a struccarsi e a lavarsi il viso davanti alla specchiera e solo dopo qualche minuto di abluzioni, con lo spazzolino in mano, scorse il sorriso tenero e compiaciuto di Pierre, che al di là del chiostrino le faceva ampi cenni di tirare le tende, perché altrimenti lui avrebbe potuto vederla nella sua intimità. Catherine ebbe un momento di imbarazzo; non le fu subito chiaro cosa avrebbe fatto, ma non si avvicinò alla tenda: gli fece cenno con la mano come per chiedergli: “che problema c’è?” e cominciò a lavarsi i denti. Poi richiamò la sua attenzione in modo birichino e, sempre a gesti, gli chiese di aspettare: scomparve quindi dalla sua vista. Alle orecchie di Pierre giunse una musica: la ragazza doveva aver acceso la radio. Il cuore gli batteva forte: questo gioco lo elettrizzava; poteva aspettarsi qualunque cosa ed era felice di non poter prevedere in alcun modo le mosse dell’amica.

Catherine ricomparve con in mano un altro asciugamani, questa volta rosso, e glielo mostrò attraverso i vetri. Lui le fece cenno di non capire e lei gli chiese ancora di aspettare. Ma cosa stava facendo? La curiosità di Pierre aumentò a dismisura quando la vide armeggiare intorno alla lampada che dava luce al bagno, una bella lampada a stelo con molte lampadine, imitante un salice piangente. Catherine la coprì con l’asciugamano, a rischio che prendesse fuoco, e si voltò sorridendo in modo monellesco verso di lui.

Ora era chiaro! La sala da bagno era illuminata da una soffusa luce rossa, come quella delle vetrine giù in strada e Catherine cominciò a fare, goffamente, e quindi in modo per lui ancora più eccitante, le mosse d’uno spogliarello, manovrando l’asciugamani bianco come una muleta da torero e giocando a coprirsi e scoprirsi per la gioia dei suoi occhi: stava imitando, in modo molto più esplicito dell’originale, la nudità delle girl in strada! Il gioco lo divertì moltissimo; non c’era nulla di morboso: la ragazza sapeva che lui la stava guardando e quelle mosse, più giocose che sensuali, erano dedicate solo a lui. Ancora una volta Catherine gli si donava e ancora una volta una distanza invalicabile lo separava dal corpo di lei.

I suoi occhi avidi ripercorsero il corpo dell’amica, così ben studiato e conosciuto in quella magica sera a Lyon: gli sembrò un po’ più rotondetta di allora, più bella, ma sempre e comunque una giovane donna un po’ acerba nella propria femminilità, eternamente      ragazzina come solo certe donne francesi sanno essere. Ora era completamente nuda davanti a lui e si divertiva a invitarlo a chissà quale gioco erotico, sempre danzando o cedendo ad improvvise mosse di vergogna coperte da una risata argentina: si rispecchiava a distanza nella luce dei suoi occhi di cacciatore, godeva del trionfo che quello sguardo le dava, premiando la sua bellezza e la sua impudicizia.

Pierre non era molto eccitato, come avrebbe dovuto essere davanti ad un simile spettacolo, né infastidito, come davanti alla nudità di una figlia; partecipava semplicemente dell’ilarità della ragazza e nel suo sorriso aperto affondavano le angosce e le preoccupazioni dei giorni precedenti. Ma ad un tratto avvertì una presenza a lato di Catherine ed un corpo che gli parve meraviglioso, incredibilmente ben modellato e rigoglioso nella sua femminilità matura, comparve a lato di quello dell’amica, splendidamente nudo. Egli rimase senza fiato, con gli occhi sbarrati e il sorriso inespressivo, come se la gioia gli si fosse gelata sul viso mutandosi in una smorfia stupita.

Greta gli parve stupendamente bella! Sin dal primo istante in cui la vide comparire alla finestra sentì il respiro bloccarsi ed il cuore impazzire, mentre la sua virilità lo chiamava alla impossibile azione. Non si può dire che Greta fosse perfetta nel fisico, anzi era forse meno bella di Catherine, ma quei chili di troppo che portava con naturalezza davano al movimento del suo seno un’attrattiva insostenibile per Pierre e l’effetto dell’insieme non era la somma di molti particolari, ma qualcosa di trascendente, come se da lei emanasse un fascino speciale. Il suo sguardo non era divertito come quello dell’amica, bensì era di sfida e puntava dritto negli occhi di Pierre come quello di una fiera in attesa di sbranare la propria preda. Nella luce di quegli occhi intensi brillava la selvaggia potenza del senso; il suo corpo gli sembrava quello di un’amante che palpitasse ardente di desiderio al di là dei vetri del chiostro, visibile solo da lui e quindi solo per lui. In realtà, la ragazza stava lottando contro se stessa, contro il proprio pudore, contro le conseguenze imprevedibili sul loro rapporto del suo concedersi allo sguardo di Pierre con tanta totalità e abbandono; provava lo stesso imbarazzo di Pierre ed era evidente dalle sue mosse impacciate, dal suo continuo ritrarsi al di fuori della vista di lui per ricomparire subito dopo, invitata nuovamente dalla giocosità irriverente dell’amica. Pierre e Greta sentivano l’uno l’eccitazione dell’altro e questo moltiplicava il loro disagio, la sensazione  tachicardica,  l’affanno.  Le mani  di  lui si strinsero inconsciamente alla testata del letto come per vincere ogni possibile tentazione di correre nell’altra stanza, spogliarsi come loro avevano fatto per lui ed amarle in un tragico connubio di amore, morte e dannazione.

Mentre Catherine continuava la sua danza sgraziata, senza accorgersi degli imbarazzi degli altri, Greta si era fermata davanti alla finestra, coprendo con le braccia conserte il seno, quasi per difendersi dal freddo, e lo fissava ora con tristezza; egli poteva immaginarsi che stesse trattenendo una lacrima di compassione o di mortificazione. Il suo sguardo avrebbe desiderato posarsi su quel pube così meravigliosamente offerto alla sua contemplazione, ma sentiva il peso degli occhi di lei e non osava abbassare i propri: provava quel pudore, quella vergogna che nasce dal non sapersi in alcun modo rapportare a una situazione imprevista e non riusciva a essere naturale, né divertito; sentiva chiaramente di dover reagire in modo conforme al proprio ruolo e al proprio personaggio, ma rimaneva invece immobile, con gli occhi puntati in quelli di lei, quasi implorando misericordia. Come se Catherine, che danzava ignara ed ebbra di allegria, non esistesse più tra loro, si fissarono a lungo, cercando d’indovinare il pensiero l’uno dell’altra, poi Greta aprì le braccia con un gesto talmente semplice da essere irresistibile, e le abbassò al lato del corpo tenendole lievemente discoste, con le palme aperte verso di lui; chiuse gli occhi ed inclinò il capo leggermente all’indietro, come fanno alcuni adepti delle sette orientali quando iniziano una meditazione. Pierre, finalmente libero dall’oppressione del suo sguardo, la poté osservare! Si sentì impazzire di piacere. Era il non-conosciuto che lo eccitava tanto? O era la maturità della sua amica? Perché guardava le due ragazze in modo tanto differente? Catherine era un pasto già consumato dai suoi occhi, lo sapeva bene, e aveva invece molte volte desiderato di vedere nuda Greta, sin dal loro primo incontro, addirittura in cattedrale. Nel viaggio, quando entrambe avevano posato il capo sulla sua spalla per dormire, una per lato, aveva avuto la chiara sensazione di avere da un lato una donna, dall’altro una bambina, eppure erano più o meno coetanee e Catherine era senz’altro più bella, o, meglio, rispondeva di più all’ideale di bellezza vagheggiato da Pierre. Era il suo desiderio represso a mostrargli Greta tanto bella o lei era bella di per sé, anche per altri occhi ed altre storie?

Come   avrebbe   voluto sapersi rispondere! Concluse che Greta aveva una cosa immensamente più potente della bellezza di Catherine: aveva il gesto sacro. Di colpo, con una semplice espressione del viso, un cenno della mano, un’inclinazione del capo, spiazzava l’interlocutore e lo metteva a contatto direttamente con il mistero della sua esistenza. Intelligente come era, in quel momento sapeva l’importanza del gesto che stava compiendo: tra lei e Pierre nulla sarebbe più stato come prima e questo non era conseguenza di un evento fatale e inaspettato come lo spargimento di sangue a Köln, bensì d’un atto volontario e cosciente. Lei gettava una pietra nello stagno senza sapere cosa l’onda avrebbe provocato, ma con determinazione lucida a infrangerne la tranquillità. Pierre la mirò a lungo nella sua posa studiatissima eppur così naturale: il suo nudo era elegante, a differenza di quello dell’amica che era birichino, divertente, scanzonato, assai meno sensuale in quella danza infantile che mostrava ogni sua grazia nell’ebbrezza del movimento. Forse l’eleganza era proprio nella lentezza dell’esibirsi di Greta: gli occhi di Pierre potevano indugiare su ogni particolare del suo corpo senza che alcun movimento di lei ne alterasse il punto di vista; era statuaria e solenne e questo rendeva la sua bellezza sfolgorante. Lei rialzò il capo lentamente e lo fissò ancora, notando con gioia vezzosa il turbamento sul suo viso, poi, al rallentatore, si avvicinò al vetro della finestra e vi posò le labbra come se il vetro fosse la bocca di lui, quindi si voltò, si fermò ancora un lungo istante perché lui potesse ammirare il suo sedere incantevole e fece un piccolo cenno di saluto con la mano prima di entrare nella vasca da bagno, scomparendo così dalla sua visuale. Catherine imitò subito il gesto dell’amica, ma con quanta grazia in meno! Lo salutò come una ragazzina, ridendo ancora, e seguì Greta nella vasca.

Quel gesto della mano! Quel piccolo saluto!

Pierre si sentì colpito dal cenno di Greta nel profondo dell’anima: gli parve fosse lo stesso gesto con cui Violaine, tanti anni prima, lo aveva definitivamente salutato, subito dopo quel terribile bacio con cui si era presa la sua anima e si era dannata a condividerne la pena. Quel gesto apparteneva all’universo femminile o era suo, di Pierre, e destinato solo a lui? Era ripetuto in ogni parte del mondo per milioni di uomini o lo seguiva come un’impronta del suo peccato e della sua speranza? Violaine lo aveva perdonato! Perché dunque la Suprema Volontà gli negava la pace? Le sue labbra cercarono il contatto del vetro e vi rimasero a lungo come se sfiorassero le labbra di Greta o quelle di Violaine, perché in quell’istante le due giovani si sovrapponevano nella sua mente in un gioco crudele.

Posò anche le palme delle mani sul vetro e, lentamente, gli occhi gli si inondarono di lacrime di solitudine e d’impossibilità: dall’anima gli sgorgò un tormento a lungo represso e quel pianto consolatore generò mille rivoli d’acqua salata sul vetro come una pioggia rigeneratrice, una benefica pioggia di primavera. Da quella sera le ragazze sentirono verso Pierre una confidenza nuova ed anche per Greta, che aveva ormai vissuto il proprio battesimo attraverso il fuoco e le lacrime degli occhi dell’amico, divenne naturale girare per casa vestita come se nessun uomo fosse presente, senza ostentazione tranne per quelle rare volte in cui il gioco alla finestra si ebbe a ripetere, senza però avere più il fascino della novità e conservando per questo solo la giocosità iniziale.

Pierre in realtà non riuscì mai ad abituarsi alla visione delle loro nudità, ma non si fece più sorprendere emotivamente impreparato; manteneva sotto controllo il suo corpo con la forza invincibile della responsabilità. Riflettendo sulla nudità si trovò a concludere che, se era stata molto eccitante la novità del gioco la prima sera, ancor più lo affascinava la naturalezza delle sue due amiche ed era di gran lunga preferibile allo spettacolo della “vetrina” del bagno vederle nella quotidianità lavare i piatti in mutandine o pulire il pavimento con addosso solo una t-shirt.

Il segreto dell’eccitazione era dunque tutto nel desiderio di scoprire quanto non è lecito scoprire e non dipendeva dalla quantità di centimetri di pelle esposti, bensì dalla capacità allusiva, anche a un mondo già conosciuto. Giunse così a pensare come tutto nella vita affascini e convinca nella misura in cui è segno, in cui rimanda ad un’altra realtà, di cui quello che si intravede è solo una visione parziale e riduttiva.

Tutto è segno! Questa idea, che già tante volte lo aveva sfiorato o raggiunto, gli piacque molto e ci si soffermò, dilatandola fino a formulare una nuova definizione stessa della felicità: la felicità è la capacità di riconoscere in ogni cosa un segno.

Ecco il problema dell’uomo; non è il peccato, non è la fragilità, non sono nemmeno gli idoli: tutto ciò è conseguenza del vero limite, quello di non saper riconoscere il segno! Perché il corpo di una donna bellissima dopo anni di convivenza viene guardato dal marito con  noia? E’ chiaro: l’uomo si ferma al corpo di lei, che è il già-conosciuto e visto mille volte e non va avanti, non vede più quello che è oltre, ciò a cui quel corpo, ciò a cui ogni corpo rinvia nella sua giovinezza o nella sua vecchiaia, nella sua bellezza o nella sua deformità. Cosa spingeva Pierre a guardare Catherine di nascosto sperando in un movimento della t-shirt che le scoprisse il sedere mentre passava l’aspirapolvere nella sua stanza? Non poteva essere certo la novità: conosceva bene il suo sedere. Ma quel poco che si intravedeva rimandava a qualcosa d’irresistibile e lui poteva immaginarsi un milione di sederi diversi spuntare da quella maglietta; un’intera umanità femminile gli mandava un richiamo che attingeva all’armonia sublime dell’intera creazione e al suo Fattore. Il fascino era nel segno, nel rimando ad un oltre che rimanda ad un altro oltre, infinitamente.

Adesso Pierre capiva bene perché un suo caro amico insistesse tanto una volta, in una conversazione, sull’importanza del ritorno alla fanciullezza del cuore nell’approccio alla vita. Allora, in verità, lo aveva frainteso e deriso: aveva visto troppo per illudersi di rivivere un’infanzia dorata della mente. Ora comprendeva! Il bambino guarda tutto con curiosità, tutto lo affascina, persino il pericolo, ed ogni cosa lo rimanda a ciò che per lui è sicuro e stabile: l’amore dei suoi genitori, la maternità e la paternità. E’ l’atteggiamento giusto! E’ l’attitudine che ha davanti al mondo il vero scienziato, colui che lavora non per la fama o per denaro, ma per conoscere le leggi infinitesimali dell’universo, per il gusto di conoscerle e di scoprire cose nuove su di sé e sulla materia; colui che lavora per amore, perché non c’è amore se manca l’interesse e non c’è interesse se manca la curiosità.

“Se gli uomini vedessero in tutto un segno! Se avessero quello stupore con cui hanno mosso i primi passi nel mondo!”

Ma lui stesso non se ne sentiva capace, lui stesso aveva perduto ogni capacità d’approccio alla realtà come segno! Sarebbe stato possibile ritrovarla? E se sì, come? Attraverso uno sforzo di concentrazione? O un’elisione della memoria? O che altro? Qual’era il prezzo da pagare per ritrovare, novello Alberich, questo anello del Reno? E l’Assente?

Pierre sviluppava questi pensieri percorrendo come di consueto i vialetti costeggianti i grachten alla ricerca di suoni e colori, di impressioni che risvegliassero in lui conoscenze sopite in qualche sito recondito della sua stessa anima, conoscenze attinenti all’Essere originale. Cercava la purezza dello sguardo, la nitidezza dell’incorrotta primordialità, capace di ridare slancio e speranza alla sua ricerca della pace e della morte.

Per questo amava particolarmente la parte dell’Oudeijds Voorburgwal compresa tra la sua casa e la Casa dei Tre Canali, dove spesso faceva tardi sfogliando i vecchi tomi della libreria antiquaria, più per amore dei libri come oggetti che per il loro contenuto, data la scarsa dimestichezza con la lingua olandese. Qui, ai margini del red-light district, trovava la concentrazione necessaria per cercare risposte anche parziali alle sue urgenze: in questo dolce tratto della vecchia Amsterdam non giungevano infatti le mandrie di turisti schiamazzanti in cerca di emozioni e trasgressioni ed egli non era ferito ed intristito dallo spettacolo della loro degradazione; grazie all’atmosfera particolare, poteva riflettere con intensità inconsueta avendo la precisa sensazione d’avvicinarsi ad una parvenza di verità, ad una prima risposta sul perché della propria condanna. Si rendeva sempre più conto di amare profondamente questa città e non solo per la lieta situazione che si era creata in casa con le ragazze, né perché quest’ultima certamente aveva rappresentato la liberazione da una situazione insostenibile della quale portava ancora ben viva la sofferenza spirituale, ma per il fascino particolare di Amsterdam, che diventava assai più evidente quando il sole splendeva senza una nube in cielo. Queste giornate di sole, che d’autunno non sono invero molto frequenti a queste latitudini, quando arrivano hanno una luminosità particolare, quasi violenta, e la città si trasforma, con i grachten che riflettono le case baciate dal sole e con le guglie delle chiese ed i tetti della case che si stagliano nel cielo limpidamente azzurro come mani tese all’infinito; perfino il distretto dove vivevano acquistava una gioiosità speciale che sembrava purificarne il malessere e renderlo, a dispetto di tutto, allegro e scanzonato: le ragazze in vetrina, colpite dai raggi di sole che rendevano inutili le squallide lampade rosse, sembravano più vicine a bagnanti che a prostitute e perdevano il loro alone di perversione e di mistero; i mercanti di morte non trovavano antri oscuri e vicoli bui nei quali celarsi; le loro vittime si tenevano alla larga dai raggi del sole, incapaci di sostenerne il nitore con i loro occhi spenti; tutto si trasformava e si santificava.

“La santità è nella luce”- pensava Pierre- “chi vive nella luce è salvo ed è questa luce che io devo fare entrare nei miei templi; devo fare in modo che il fedele se ne innamori e innalzi le mani, commosso, alla sua Origine. Questo è il mio compito! Finché non mi sarà concesso il riposo”.

Il lavoro all’Oude Kerk si rivelò ben presto quasi di nessuna importanza: si trattava di un restauro della torre campanaria, che era necessario ripulire dagli effetti dello smog e si era pensato, approfittando dell’occasione, di verificarne la tenuta strutturale; un lavoro che il collega Walter Kramer, incaricato dell’opera, era perfettamente in grado di compiere senza alcun aiuto esterno, nonostante le difficoltà provocate dalla difficile natura del terreno. Fu chiaro, pertanto, sin dall’inizio, che il compito di Pierre sarebbe stato solo quello di prestare la forza del suo nome a prestigio della città. Il collega fu molto gentile nell’accoglierlo e Pierre, contravvenendo alla propria fama di uomo superbo e burbero, ricambiò questa cortesia, chiarendo da subito che si sarebbe fatto vedere sul luogo del lavoro solo se il collega avesse acconsentito e che non aveva alcuna intenzione di interferire nel suo lavoro, se non offrendo i consigli di cui l’altro avesse avuto bisogno.

Kramer, allora, si sentì in dovere, non essendo in discussione la propria autorità sul campo, di coinvolgerlo in ogni decisione, sfruttando anche la generosità delle sue assistenti. Inoltre, avuta notizia dell’arrivo di Pierre ad Amsterdam, pochi giorni dopo il vescovo lo mandò a chiamare e gli offrì la direzione dei lavori di restauro, questa volta strutturali ed ampi come portata, della chiesa cattolica di S.Nicholas, nei pressi della stazione. Per Pierre fu un’autentica manna, perché ottenne così l’occasione di trattenersi nella città ben più a lungo di quanto avrebbe dovuto fare per l’altro restauro. Ottenne dal comune il permesso di occuparsi anche dell’altro lavoro e creò con le due giovani una squadra affiatatissima ed efficace. Staccavano dal lavoro solo verso sera, per andare a visitare Carlos in ospedale; dopo di che le ragazze pensavano alla casa ed alla cucina, mentre lui, ben contento di sostituire con una familiarità casalinga la necessità di cercare un ristorante, si concedeva la consueta lunga passeggiata nella quale rifletteva sul progetto della scuola di architettura. Ne parlò ben presto con l’autorità cittadina, che ne fu felice: esistevano già strutture simili, ma gli amministratori non si fecero scappare l’occasione di avere, ad ulteriore lustro della città, una scuola che portasse il nome di Pierre. Pertanto si diedero subito da fare per individuare i locali, stabilire la quota di partecipazione della città e quella dello stato; la  regina  stessa  si  mostrò,  ricevendo  Pierre a palazzo, molto interessata al progetto e diede il suo avallo, anche economico, destinandogli un piccolo palazzotto di sua proprietà in centro, vicino alla zona universitaria.

Nel frattempo Carlos aveva lasciato l’ospedale: le due ragazze si alternavano al suo capezzale, lavorando mezza giornata con Pierre e rimanendo a casa per l’altra mezza, occupate nell’assistenza del convalescente. Per far in modo che l’assistenza non venisse meno nemmeno di notte lo misero a dormire nella loro stanza, cedendogli il divano-letto migliore ed arrangiandosi loro in due sull’altro. Pierre avrebbe voluto cedere il proprio letto, ma comprese subito che Carlos non avrebbe mai accettato e che anzi, la sistemazione promiscua gli era tutt’altro che sgradita, anche se le ragazze si guardavano bene dal prendersi con lui le libertà che si prendevano con il maestro e presero anzi a girare vestite per casa e a cambiarsi rigorosamente in bagno con le tende tirate. La fibra di Carlos era molto robusta, nonostante la vita di stenti condotta negli ultimi anni, ed egli fece progressi rapidissimi. Il suo ritorno, però, oltre a provocare un inevitabile cambiamento nella vita degli amici, incise profondamente sul loro umore, che si fece meno disposto allo scherzo, più pensoso: riavendolo con loro, il ricordo di Köln e dei fatti là accaduti era tornato in modo ingombrante nelle loro menti, incidendo sulle relazioni, determinando momenti di silenzio imbarazzato nella conversazione o qualche apprensione nel progettare il futuro.

Anche la città sembrava partecipare di questo cambiamento di stato d’animo e si era fatta greve, oppressa da un cielo plumbeo e piovigginoso e nulla nascondeva lo squallore dei cacciatori di sesso che passeggiavano schiamazzanti ed eccitati sotto le finestre della casa o le urla scomposte dei drogati e degli ubriachi che litigavano fino alle prime ore dell’alba con nemici inesistenti. Infine, a complicare le cose, era giunta una conversazione telefonica di Greta con la sua famiglia a Köln, fatta come sempre rigorosamente da una cabina di strada per non essere rintracciata. La ragazza aveva saputo di essere ufficialmente ricercata dalla polizia, che aveva trovato il cadavere e, avendola vista allontanarsi con Carlos e non credendo al suo viaggio di lavoro, si era già più volte presentata a casa sua ed aveva messo sotto controllo i suoi familiari. Greta fu molto prudente al telefono, pensando giustamente che anch’esso potesse essere sotto controllo e spiegò ancora una  volta  a  sua  madre,  mentendo   per  necessità, che nella casa dove vivevano erano privi di telefono e che la via aveva un nome così difficile da ricordare che non poteva dire l’indirizzo.

Promise che si sarebbe subito messa in contatto con la polizia e così fece, dopo essersi consultata con gli amici sul da farsi. Si fece passare al telefono l’ispettore che era stato a casa sua e gli chiese perché mai la polizia si desse la briga di spaventare la sua famiglia, cercandola come se fosse una delinquente: protestò che aveva solo fatto il proprio dovere di cittadina soccorrendo un ferito, ma che, se avesse saputo di avere tanti guai, forse non lo avrebbe fatto. Fu molto decisa, molto forte nel tono della voce e nella difesa dei propri diritti: spiegò che stava vivendo l’occasione professionale più importante della sua vita e che non intendeva rinunciarci per rientrare a Köln e farsi interrogare al commissariato.

Che inviassero qualcuno ad Amsterdam, se proprio volevano, ma, in assenza di accuse di qualsiasi tipo, lei non si sarebbe mossa di lì. Quando l’ispettore la informò che non era solo sospettata di aver partecipato ad una rissa nella quale era stato ferito un barbone, ma che avevano trovato un cadavere nascosto sotto il ponte e l’inchiesta era per omicidio, finse egregiamente di non saperne nulla e dovette essere molto convincente, perché l’ispettore, davanti al suo tono deciso, cambiò presto atteggiamento e chiese gentilmente quanto all’inizio della conversazione aveva violentemente preteso di sapere. Greta ribadì ancora la propria versione: stava passeggiando lungo il fiume quando aveva visto trascinarsi a stento un uomo ferito; lo aveva soccorso: pareva essere stato assalito da un cane feroce; aveva chiamato l’ambulanza e poi lo aveva accompagnato all’ospedale.

Infine lo avrebbe voluto ospitare a casa sua, dopo che questi aveva rifiutato il ricovero, ma egli aveva declinato l’invito, ansioso di riprendere il suo vagabondare. Da allora non ne aveva saputo più nulla. La sua attività di volontaria, già a conoscenza della polizia, la aiutò ad essere credibile nel racconto. Poi disse di aver chiamato i compagni dell’associazione di volontariato cattolico per raccomandare una vigilanza per la difesa dei barboni che vivevano nella zona della cattedrale, giacché temeva fosse in corso l’ennesima offensiva xenofoba.

L’ispettore sapeva già tutto ciò, ma la subissò ugualmente di domande apparentemente oziose sull’ora dell’incontro,  su quella della chiamata, sull’identità di altre persone viste con lei sul luogo del misfatto e che lei descrisse come    sconosciuti   passanti.   Cercava    di    farla    cadere    in contraddizione, di avere un qualsiasi argomento che potesse giustificare una convocazione a Köln per testimoniare. Greta non si contraddisse: si era preparata troppo bene. Vedeva chiaramente le trappole che il poliziotto le tendeva, raccontando anche particolari falsi sul giovane morto per studiare le sue reazioni e vedere se lei lo avesse conosciuto. Grazie alla forza che la contraddistingueva, Greta non perse la calma nemmeno per un istante, non si agitò, fu cortese e disponibile, promettendo che appena tornata a Köln si sarebbe subito presentata, ma ribadendo che ora proprio non era possibile: aveva avuto la sua grande occasione professionale e voleva sfruttarla fino in fondo. Non seppe dare indicazioni sui propri spostamenti futuri, parlò vagamente, inventando profeticamente della possibilità di un viaggio in Sudamerica, e non dette alcuna informazione che potesse facilitare la sua individuazione presente: nemmeno il nome del suo datore di lavoro. Per giustificarsi dichiarò esplicitamente di avere paura di poter essere rintracciata da coloro che avevano assaltato quel giovane barbone e che, come aveva fatto la polizia, avrebbero potuto pensare che lei potesse aiutarli a ritrovarlo e a finire il lavoro. Resistette a tutte le minacce e le pressioni: con fermo coraggio osò dire all’ispettore che sapeva perfettamente delle connivenze tra alcuni poliziotti ed alcuni esponenti della destra xenofoba e che non si fidava assolutamente di rivelare alcunché all’ispettore, perché avrebbe dovuto vivere nell’incubo di essere assalita.

L’ispettore, rendendosi conto di non poterla costringere al rimpatrio senza alcuna prova di complicità, le fece promettere che lo avrebbe chiamato dopo una settimana, in modo che lui avrebbe potuto farle ancora qualche domanda, se ne avesse avuto bisogno. Greta, in verità, era stata, per fortuna sua, molto aiutata dall’atteggiamento del ragazzo superstite, il quale, vergognandosi di essere stato sconfitto da un solo aggressore, per giunta più vecchio e meno forte di lui, aveva raccontato, quando era stato finalmente messo alle strette dalla polizia, di essere stato vittima di un agguato perpetrato da molte persone armate di sesso maschile, il che escludeva qualunque partecipazione di Greta alla rissa. Il suo machismo le aveva offerto un’inaspettata ancora di salvataggio: la polizia aveva dovuto escludere qualunque sua responsabilità e, se insisteva ancora per bocca dell’ispettore, era solo per indurre in contraddizione quello che era l’unico testimone presente al fatto,  quindi  l’unica  possibilità  di  risalire al fuggitivo Carlos, indicato dal superstite, falsamente, come il responsabile del delitto. Ma chi era in realtà Carlos? La polizia non era ancora riuscita ad appurare quale fosse la sua identità anagrafica ed il fatto che egli fosse un sans-papiers non facilitava certo il compito degli investigatori: lo stavano cercando, ovviamente senza risultato, nella comunità ispanico-americana di Köln. Avevano solo il suo nome o meglio, come era sempre più evidente, il suo soprannome di battaglia ed una sommaria descrizione fisica, che poteva corrispondere a troppi giovani del luogo.

L’ispettore avrebbe volentieri archiviato il caso come una rissa tra ignoti, sperando poi in qualche avvenimento che potesse far luce sull’accaduto, ma non c’era giorno che il padre del giovane ucciso, al quale per ovvie ragioni non erano state affidate le indagini, non si presentasse alla sua porta con fare minaccioso per chiedere risultati concreti ed accusarlo d’incapacità: stava inoltre alimentando, con interviste altrettanto giornaliere ai quotidiani ed alle televisioni, una pericolosa ondata di sdegno popolare che stava cominciando a generare pericolosi episodi d’intolleranza, specialmente contro la comunità ispanica ed i senza-tetto. Solo per la grandissima opera di presidio compiuta dalle forze dell’ordine si era finora evitato che altro sangue avesse a scorrere in città, ma molti poveracci avevano subito ingenti danni materiali o erano stati percossi ingiustamente da quelle stesse frange xenofobe della polizia che, senza autorizzazione ed anzi sfidando espliciti divieti, svolgevano in borghese indagini parallele.

Il pericoloso criminale era invece proprio lì, in quella casa di Amsterdam, intento a studiare libri di architettura per essere in grado di capire almeno qualcosa del lavoro che desiderava incominciare presto a svolgere accanto al maestro. Il mese lavorativo come assistente che egli aveva promesso a Pierre stava per terminare, ma ognuno dei contraenti dell’accordo era sicuro che l’altro non avrebbe mai fatto cenno alla scadenza; qualcosa di molto profondo ora li legava, e questo qualcosa non era successo sotto quel maledetto ponte, ma nel freddo di quella cattedrale, quando Carlos aveva pianto e Pierre aveva pronunciato le prime parole della sua inedita paternità. Il maestro si soffermava spesso a osservarlo, non visto, sudare sui libri per capirci qualcosa: si era fatto procurare un glossario dei termini d’architettura ed ingegneria e stava rafforzando la propria insufficiente conoscenza dell’inglese, perché tutti i libri che gli venivano portati dagli amici erano in tale idioma.

Doveva di sicuro rivolgere molte domande alle due giovani compagne: Pierre li sentiva infatti spesso parlare fino a tardi la notte; raccoglieva un mare d’informazioni frammentarie da libri e riviste, ma a lui, a Pierre, non aveva ancora rivolto una sola domanda.

Il maestro taceva a sua volta, come per un accordo intercorso, e quando lo raggiungeva per sedersi, come di consueto, a leggere sulla grande poltrona della sala, la conversazione verteva sempre sul quotidiano e non toccava il grande tabù che si era creato tra di loro, ovvero il tema  del profondo cambiamento di Carlos, apparentemente trasformatosi in uno studente modello, rispettoso in casa delle abitudini e dell’educazione, grato agli amici delle loro attenzioni, accurato perfino nell’igiene personale a partire proprio dalla rasatura del viso che era sempre ineccepibile. Era un altro Carlos quello che trascorreva le sue giornate studiando sul divano letto, senza mai lamentarsi delle ferite, che sicuramente gli dolevano ancora molto. Pierre temeva però che, se avesse affrontato in qualunque modo il discorso proibito, avrebbe messo Carlos davanti alla scelta drammatica di rinnegare il proprio passato ammettendo i propri errori o di interrompere il nuovo corso per stringersi di nuovo alla confortante sicurezza datagli dall’ideologia. Lo avrebbe chiuso in un angolo e costretto alla difesa, il che avrebbe di sicuro resuscitato le vecchie muraglie ideologiche: di fronte all’abbandonarsi ai marosi di un mare sconosciuto, qualunque naufrago preferisce il confortante abbraccio dello scoglio, per quanto appuntito e scarsamente salvifico possa essere; no, se Pierre gli avesse fatto notare qualcosa non avrebbe potuto fare errore più grande! Per questo si mortificò e tacque, godendo di vedere l’amico, grazie allo studio dell’arte, recuperare quella passione per la vita che aveva perso molto tempo prima. La curiosità però lo divorava: quali erano le intenzioni di Carlos? Una volta ristabilito sarebbe rimasto con loro o il suo generoso slancio solidaristico gli avrebbe fatto riprendere la strada di qualche ponte periferico? Aveva forse realizzato che avrebbe potuto, con la sua nuova attività, essere molto più utile a coloro che amava che non raccontando storie attorno ad un fuoco o voleva solamente studiare architettura per curiosità intellettuale o per trascorrere il tempo della convalescenza? E perché non gli chiedeva nulla? Lui avrebbe potuto spiegargli molte cose, meglio   di   tanti    libri!  Non    resistette più a questi  dubbi  e  li espose alle ragazze, che tuttavia troncarono il discorso sul nascere:

– “Scusa, ma perché non lo chiedi a lui, direttamente?”

Così passarono altri giorni di lavoro e il pensiero di Carlos era diventato un chiodo fisso per Pierre, l’oggetto di tutte le meditazioni serali, quando passeggiava sotto l’immancabile pioggia serotina alla ricerca d’un poco di pace e silenzio. Stava cominciando a pensare, e forse a sperare, che Carlos potesse essere l’erede che aveva sempre sognato, la persona cui consegnare il proprio sapere, perché lui avrebbe potuto, ne era sicuro, farne l’uso migliore. Ma se glielo avesse chiesto era altrettanto sicuro che avrebbe ricevuto in risposta una risata di scherno ed un rifiuto. Troppo forte era stata ed era la rivalità intellettuale tra loro, troppo distanti le loro posizioni perché uno potesse di colpo abbandonare le proprie e sposare le tesi dell’altro.

Doveva aspettare! Ed aspettò finché un giorno fu Carlos a portare finalmente il discorso su qualcosa d’importante. Era stata una buona giornata, produttiva sul lavoro, e Pierre era tornato a casa più luminoso del solito. Si erano scambiate le solite due chiacchiere sulle ultime notizie del telegiornale e sulla giornata trascorsa, quando Carlos disse:

– “Non riesco a trovare in questi libri nulla della tua concezione artistica.  Non hai  fatto  scuola, vero? Sicuramente per il tuo carattere d’orso selvaggio!”

– “Ehi,  bada   a   come   parli! Proprio tu,  poi,  che   come  un selvaggio vivevi davvero!”

– “Se non ricordo male,  mi  hai  detto  a  Köln che per te non è importante  solo  il  tempio  come  struttura,  ma l’anima della pietra, la forza  d’ispirazione che  essa  è  in   grado di dare al fedele nel momento dell’orazione e della solitudine con Dio!

Per questo curi sempre tanto la disposizione interna, la scelta degli arredi e soprattutto la luminosità di certi anditi!”

– “Bene, la lezione è stata appresa!”- provò a scherzare Pierre con curiosità di sapere dove il discorso dell’amico andasse a parare.

– “Ma  allora  perché  stai lavorando per una chiesa  protestante come la Oude Kerk? Non è contrario ai tuoi principi lavorare per chi non professa il tuo credo?”

Pierre colse subito la provocazione nascosta nella domanda dell’amico, ma non si mise in guardia: sentiva impellente il dovere della chiarezza e, forse, il desiderio di confidare   finalmente qualcosa di sé lo dispose in modo aperto ed interessato a tutte le possibilità d’evoluzione del discorso. Gli rispose, innanzitutto, che l’Oude Kerk era nata come tempio cattolico e precedeva di circa due secoli l’epoca scismatica, ma comunque non era questo il problema! Aveva più volte confessato, e non lo negava, di provare ogni volta un vivo dolore entrando nella Oude Kerk : ma questo dolore non era a causa della sua ormai secolare “Alterazione”, come la chiamano in Olanda, bensì per la quasi totale assenza degli arredi, mai ricomparsi dopo il furore iconoclastico del 1566; per quel senso di vuoto, di abbandono che le pietre emanavano nella loro nudità; per il freddo che assaliva il visitatore, dovuto al fatto che la chiesa era usata, secondo il costume protestante, solo una volta la settimana per il servizio e poi lasciata ai visitatori a pagamento e quindi non vissuta come “casa”, ma prevalentemente come museo, e i musei sono una realtà morta, dove conta solo il passato di cui si vuol dare testimonianza.

Tutto lì dentro evocava la seriosa integerrima essenzialità dei mercanti calvinisti del 16° secolo; era l’esatto opposto della concezione del tempio propria di Pierre, cioè come “casa” da vivere e luogo di gioia e luce. L’incompletezza delle vetrate, una tristissima mostra sulla fame nel mondo e l’assenza voluta di sedie e panche che non fossero quelle del coro centrale davano ancor più l’idea di un luogo di non-vita, d’austera privazione. L’esterno, invece, a parte la contiguità con i templi del porno, evocava un’immagine di gioiosa speranza e di slanciata bellezza, come doveva essere nell’intenzione dei molti architetti che nei secoli vi avevano lavorato fino al grande restauro terminato nel 1979; questa immagine era in tutto corrispondente ai festosi costumi tuttavia perpetrati, come l’usanza del concerto di campane del sabato pomeriggio. Non erano quindi le differenze teologiche a creargli imbarazzo, oh no! Egli era un servitore di Dio  e pertanto offriva la sua opera a chiunque questo Dio riconoscesse ed amasse. Sul piano squisitamente religioso disse che era finito il tempo delle guerre di religione (che non avrebbero, secondo lui, mai dovuto cominciare: erano state pura follia!) e che occorreva che i cristiani si concentrassero sui punti di convergenza e cercassero il positivo nell’altro, non fossilizzandosi come alcuni facevano sui punti di disaccordo per alimentare la contrapposizione.

Carlos annuì pensieroso e disse:

– “Bella lezione d’ecumenismo! Chissà quanto sincera, però! I protestanti per te sono pur sempre degli eretici!”

– “I loro padri fondatori sicuramente sì, per quanto alcuni, almeno inizialmente, mossi da giuste  preoccupazioni,  ma  chi  oggi è nato, vissuto e cresciuto  in  una  certa  chiesa sentendo sin dall’infanzia parlar male  degli  altri  cristiani, non  penso  che possa essere incolpato di alcunché. “

– “Cioè non è colpa loro se sbagliano! Ma secondo te sono pur sempre nell’errore, quindi   inferiori, se   non   addirittura demonizzati o peggio uccisi, come avveniva nel passato.”

– “Mettimi alla prova: vedrai se considero i protestanti come degl’inferiori o dei diavoli.”

 – “Subito! Scommetto che ti stupirà molto saperlo, ma la mia famiglia era protestante  avventista  ed  io,  una  volta,  molto tempo fa, sono stato dei loro !”

– “Scommessa persa! Ho visto sin dal principio che c’era in te una storia simile, fatta magari  di  delusione e  amore non corrisposto e  forse  terminata  in  modo  doloroso,  ma che ha lasciato   in   te  germi  incancellabili.  Comunque”-  aggiunse ridendo-  “non occorre che tu lo dica con quel tono, come se confessassi una colpa, come se fosse un delitto essere religiosi!”

-“E se invece lo fosse? Non è forse un illudere consapevolmente e quindi colpevolmente il  popolo  per   renderlo   ancor  più  succube, ancor più vittima del  potere  con  frasi come “porgi

l’altra guancia”-  o –” dà  a  Cesare  quel  che  è  di Cesare”- senza spiegare nemmeno perché perfino l’aria che respiriamo debba essere di Cesare e non nostra?”- lo stuzzicò l’altro.

– “Allora sarei ben più colpevole di te, non ti pare?  Costruisco cattedrali per un Dio che  non  conosco, che   tace  da  tanto tempo e  che  più  cerco  più  si  allontana  da   me,  facendomi

cosciente della sua alterità ed incommensurabilità, come della mia penosa miseria.”

– ” Gli uomini sono il trastullo degli dei.  Sono come mosche nelle mani di fanciulli crudeli, che le uccidono per divertirsi”

– “Ed eccolo citare Sofocle! Decisamente sei il tipo più pazzo di ideologo comunista che abbia mai conosciuto! I tuoi colleghi di solito hanno più confidenza con le piazze e gli slogan

preconfezionati che con i banchi di scuola!”

– “Senti chi parla di pazzia! E come la spieghi la tua ricerca di qualcosa che, per tua stessa  ammissione, non potrai mai trovare? Perché cerchi? Per farti deridere?”

Pierre si alzò, come per cercare le parole esatte che potessero esprimere il suo tormento senza scoprire la sua vera condizione.

– “Perché io sono fatto per cercare: questo è il mio istinto, la linfa che muove il mio pensiero, l’ultima ragionevolezza di ciò che sono.  Sono   un   cercatore   ed   un   predatore, un lupo solitario che canta alla luna la sua disperazione di non poter volare fino lassù e possederla, perché non ha le ali per farlo.”

– “D’accordo, ma la luna la vediamo tutti, sta lì in cielo! Alcuni di noi ci hanno addirittura già messo piede. Stai parlando di qualcosa d’innegabilmente reale”

– “Esattamente, hai detto benissimo: “innegabilmente”!”

Il viso di Pierre si chinò verso il basso e si fece pensosamente dolente.

– “Stai cercando di dirmi che Dio ha per te la stessa evidenza che ha la luna per tutti noi?”

Pierre annuì tacendo.

– “Dài, non essere irragionevole: hai appena detto che è un Dio che non conosci e non puoi  conoscere:  come  può  essere evidente l’inconoscibile?”

– “Conosci l’Assenza che è più potente della Presenza?”

Carlos ammutolì nello sforzo di seguire l’amico nel suo ragionamento. Pierre proseguì:

– “Ho molto cercato la verità di me e più cercavo più diventavo cosciente di me stesso e questo  mi  ha  dato  e  mi  dà  tuttora sofferenze  inimmaginabili,  per  ciò  che vorrei  essere  e  non

sono. Al punto supremo della parabola ho avuto, per alcune circostanze che non ti posso ora  raccontare, la rivelazione che esiste un mistero,  un’incognita  che  sfugge  a  qualunque

mio tentativo di comprensione, che non mi apparterrà mai, né mi ubbidirà.

Essa si è manifestata in modo  talmente  evidente,  con  segni inequivocabili e secondo  circostanze  precise,  che  non mi ha lasciato la possibilità  ristoratrice  del  dubbio. Capisci?  Mi  è stata negata  la  possibilità  della  fede  salvifica, perché non si ha alcun merito nel riconoscere l’evidenza di un fatto,  né  ciò può   essere  computato  a   giustizia. Gli   uomini   si   salvano perché con  atto  libero  e  potente affermano di credere in ciò che non vedono!

Ma io ho visto e la mia non è fede, è riconoscere d’aver visto!

Non  mi  è rimasto che porre la mia lunga vita ai suoi piedi, ai  piedi di  questa  assenza  senza  volto, perché ne faccia ciò che vuole, purché un giorno  ne  ricomponga  i  pezzi  ed  io  possa

vedere, libero e  lontano, i contorni  d’un disegno che ora  non posso nemmeno intuire. “

– ” Siamo nei discorsi impegnati?”- la voce di Catherine, che era entrata gaia e gentile con un gran vassoio in mano con il the per l’infermo, fu come una frustata per Pierre che si scosse come risvegliandosi da un sogno; le sorrise (davvero non era più il burbero orso di poco tempo prima), le fece una fuggevole carezza e disse che sarebbe uscito per la solita passeggiata, visto che il cielo sembrava essersi fatto un poco più clemente e non rovesciava più i torrenti di pioggia di poco prima.

Si  mise  il  cappotto e disse a Carlos che, se gli fosse piaciuto, avrebbero ripreso il discorso più tardi. L’amico sorrise e disse:

– “D’accordo!  Ho  tante  altre cose da chiederti, specialmente di architettura!”

Questa frase riempì Pierre di una gioia strana: uscì con il cuore leggero, pregustando le future conversazioni e contento perché il suo ruolo di maestro era ristabilito. Doveva però fare più attenzione! Ancora una volta aveva la precisa coscienza che gli era capitata una di quelle misteriose circostanze in cui l’Assente (o era solo il caso?) interviene direttamente nella sua esistenza e getta un seme dal quale si sviluppano poi conseguenze imprevedibili: se Catherine non li avesse interrotti, ne era sicuro, avrebbe rischiato di svelarsi troppo se non addirittura di confidarsi all’amico. Tra loro due doveva rimanere un muro; ciascuno ignorava deliberatamente il passato dell’altro e sapeva di non potervisi permettere alcuna incursione: erano due misteri in relazione ed in azione nella propria piena potenzialità; dal confronto, ne era certo, sarebbe potuto scaturire qualcosa di veramente grande per entrambi!

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FINE SETTIMA PUNTATA

prossima puntata Sabato 8 Luglio 

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Marcello Lippi.

Baritono. Nato a Genova, si è diplomato presso il conservatorio Paganini; e laureato presso l’istituto Braga di Teramo con il massimo dei voti. E’ anche laureato in lettere moderne presso l’Università degli studi di Genova. La sua carriera comincia nel 1988 con La notte di un nevrastenico e I due timidi di Nino Rota e subito debutta a Pesaro al Festival Rossini in La gazza ladra e La scala di seta. In seguito canta in Italia nei teatri dell’opera di Roma (Simon Boccanegra, La vedova allegra, Amica), Napoli (Carmina Burana), Genova (Le siège de Corinthe, Lucia di Lammermoor, Bohème, Carmen, Elisir d’amore, Simon Boccanegra, La vida breve, The prodigal son, Die Fledermaus, La fanciulla del west), Venezia (I Capuleti e i Montecchi), Palermo (Tosca, La vedova allegra, Orphée aux enfers, Cin-ci-là, Barbiere di Siviglia), Catania (Wienerblut, Der Schulmeister, das Land des Lächelns), Firenze (Il finanziere e il ciabattino, Pollicino), Milano ( Adelaide di Borgogna), Torino (The consul, Hamlet, Elisir d’amore), Verona (La vedova allegra), Piacenza (Don Giovanni), Modena (Elisir d’amore), Ravenna (Elisir d’amore), Savona (Medea, Il combattimento, Torvaldo e Dorliska), Fano (Madama Butterfly), Bari (Traviata, La Cecchina), Lecce (Werther, Tosca), Trieste (I Pagliacci, Der Zigeuner Baron, Die Fledermaus, Al cavallino bianco, La vedova allegra), Cagliari (Die Fledermaus- La vida breve), Rovigo (Werther, Mozart e Salieri, The tell-tale heart, Amica), Pisa (Il barbiere di Siviglia- La vedova allegra), Lucca (Il barbiere di Siviglia) eccetera. All’estero si è esibito a Bruxelles (La Calisto), Berlin Staatsoper (Madama Butterfly, La Calisto), Wien (La Calisto), Atene (Il barbiere di Siviglia- Madama Butterfly), Dublin (Nozze di Figaro, Capuleti e Montecchi),  Muenchen (Giulio Cesare in Egitto), Barcelona (La gazza ladra, La Calisto, Linda di Chamounix), Lyon (Nozze di Figaro, Calisto), Paris (Traviata, Nozze di Figaro), Dresden (Il re Teodoro in Venezia, Serse), Nice (Nozze di Figaro, The Tell-tale heart), Ludwigshafen (Il re Teodoro, Serse), Jerez de la Frontera (Nozze di Figaro), Granada (Nozze, Tosca), Montpellier (Calisto, Serse), Alicante (Traviata, Don Giovanni, Rigoletto, Bohème), Tel Aviv (Don Pasquale, Elisir d’amore, Traviata), Genève (Xerses, La purpura de la rosa), Festival Salzburg (La Calisto), Madrid (La purpura de la rosa, don Giovanni), Basel (Maria Stuarda), Toronto (Aida), Tokio (Traviata, Adriana Lecouvreur), Hong Kong (Traviata), Frankfurt (Madama Butterfly), Dubrovnik (Tosca), Cannes (Tosca), Ciudad de Mexico (La purpura de la rosa), Palma de Mallorca (Turandot e Fanciulla del west), Limoges (Tosca), Toulon (Linda di Chamounix) ed altre decine di teatri in differenti nazioni del mondo.
 
Dal 2004 al 2009 ha ricoperto l’incarico di Direttore Artistico e Sovrintendente del Teatro Sociale di Rovigo. Nel 2010 è stato direttore dell’Italian Opera Festival di Londra. Dal 2011 al 2016 è stato direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Dal 2015 firma come regista importanti spettacoli operistici in tutto il mondo: ha appena terminato il Trittico di Puccini ad Osaka (Giappone), Cavalleria rusticana di Mascagni, Traviata di Verdi, Don Giovanni a Pafos, Tosca, Rigoletto e sarà presto impegnato in altre importanti produzioni estere ed italiane come Jolanta e Aleko. Ha firmato la regia anche di opere moderne come Salvo d’Acquisto al Verdi di Pisa e barocche come Il Flaminio con il Maggio Formazione di Firenze
Docente di canto lirico in conservatorio a La Spezia, Alessandria, Udine, Ferrara e ora a  Rovigo
Ha insegnato Management del Teatro all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.
Ha fatto Master Class in varie parti del mondo, per esempio Kiev (accademia Ciaikovski), Shangai, Chengdu, Osaka, San Pietroburgo, San Josè de Costarica ed in moltissime città italiane.
Musicologo, ha pubblicato molti saggi: Rigoletto, dramma rivoluzionario    2012; Alla presenza di quel Santo   2005 quattro edizioni e 2013; Era detto che io dovessi rimaner…   2006;  Da Santa a Pina, le grandi donne di Verga   2006 due edizioni; Puccini ha un bel libretto   2005 e 2013, A favore dello scherzo, fate grazia alla ragione   2006 e 2013; La favola della ”Cavalleria rusticana”   2005; Un verista poco convinto  2005; Dalla parte di don Pasquale  2005; Ti baciai prima di ucciderti    2006 e 2013;  Del mondo anima e vita è l’amor   2007 e 2014Vita gaia e terribile   2007; Genio e delitto sono proprio incompatibili?   2006 e 2012; Le ossessioni della Principessa  2008 e 2012; Dal Burlador de Sevilla al dissoluto punito: l’avventura di un immortale 2014; L’uomo di sabbia e il re delle operette    2014; Un grande tema con variazioni: il convitato di pietra  2015; E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor        2015; Da Triboulet a Rigoletto   2011;  Editi da Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Verdi di Padova, Teatro Comunale di Modena, Festival di Bassano del Grappa, Teatro Verdi di Pisa.
Ha pubblicato  “una gigantesca follia” Sguardi sul don Giovanni per la casa editrice ETS. Nel 2012 Ha edito un libro di poesie “Poesie 1996-2011” presso la casa editrice ABEdizioni. E’ nell’antologia di poeti contemporanei “Tempi moderni” edito da Libroitaliano World. E’ iscritto Siae ed autore delle versioni italiane del libretto delle opere: Rimskji-Korsakov  Mozart e Salieri; Telemann  Il maestro di scuola; Entrambe rappresentate al Teatro Sociale di Rovigo ed al teatro Verdi di Pisa. Dargomiskji Il convitato di pietra  rappresentata al teatro Verdi di Pisa

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