“Scegliamo un elefante in base alla sua dimensione, e uccidiamo quello più grosso” dice Alex, un bracconiere intervistato per conto di BBC News durante un’inchiesta dello scorso aprile sulla “guerra contro gli elefanti”. Alex e i suoi compagni preferiscono usare frecce avvelenate invece dei fucili perché non solo sono più economiche, ma anche più silenziose. “Una volta che spari, l’elefante impiega circa 15-20 minuti a collassare, poi basta trovarlo”, continua Master. “Rimane sempre della carne attaccata alle zanne quando le tagliamo, di solito usiamo l’acido delle batterie per eroderla. Devono essere il più leggere possibili da trasportare, e i compratori vogliono che siano pulite”. La freddezza è spiazzante ma per i bracconieri uccidere è un affare, un lavoro come un altro che permette loro di sopravvivere. Eppure non sono loro a guadagnarci. Chi ne trae davvero profitto se ne infischia che tra 25 anni gli elefanti potrebbero non esistere più.
Questo è, infatti, lo scenario tracciato dai 29 paesi dell’African Elephant Coalition, che si dedica alla salvaguardia degli elefanti e promuove una campagna per vietare il mercato dell’avorio. Il bracconaggio è un fenomeno in aumento, però per lo più ignorato, in parte perché dietro vi si nascondono troppi interessi economici, e in parte perché, come il cambiamento climatico, non viene considerata una priorità. L’allarme è scattato recentemente grazie all’indagine del team di Elephants Without Borders, con base nel Botswana, in collaborazione con il Great Elephant Census (GEC), un progetto sviluppato e finanziato da Paul Allen, cofondatore della Microsoft, che ha investito circa 7 milioni di dollari per censire la popolazione degli elefanti africani, studiarne le minacce ed effettuare ricerche per la loro tutela, a livello locale e globale. “Il nostro obiettivo era capire quanti esemplari ci fossero”, spiega Allen “per poter proteggere questi magnifici animali dai bracconieri che li stanno portando all’estinzione”. Per facilitare lo studio sono state utilizzate delle riprese aeree su 18 paesi africani. Il report finale è stato diffuso all’inizio dello scorso settembre, e i dati sono a dir poco preoccupanti.
Negli anni ‘70 gli elefanti africani erano 1,3 milioni. Oggi il loro numero è sceso drasticamente: ne sono rimasti 450 mila, di cui 352 mila nei 18 paesi analizzati dal GEC. Questo significa che ogni anno vengono uccisi circa 30.000 elefanti. Di solito le cifre isolate rendono poco l’idea. Quindi, immaginate di impilare le carcasse degli elefanti morti in un anno, uno sopra l’altro, come una torre. Raggiungerebbero la mesosfera che, per intenderci, è lo strato dell’atmosfera che tocca i 90km circa, dove ha origine il fenomeno delle stelle cadenti. Infatti, dire che gli elefanti sono stati decimati sarebbe un eufemismo, considerando che in partenza, prima della colonizzazione europea dell’Africa, erano ben 26 milioni. Il Camerun, la Tanzania, il Mozambico e l’Angola sono stati identificati come i paesi dove le condizioni di questi maestosi mammiferi sono più critiche. Ad esempio, il team di Elephants Without Borders afferma che in Camerun hanno visto “più elefanti morti che vivi”.
Il Botswana invece sembra essere tra i paesi più attrezzati contro il bracconaggio, e per questo molti elefanti sono “migrati” proprio lì in cerca di un habitat sicuro. Secondo gli esperti, i pachidermi, come altri animali, percepiscono il pericolo e cercano di allontanarsi il più possibile dalle aree che presentano rischi e minacce per la loro sopravvivenza. “Ospitiamo volentieri gli elefanti in cerca di un rifugio, ma al momento il loro numero è talmente alto che creano problemi di convivenza con gli abitanti dei nostri villaggi”, dichiara Otisitswe Broza Tiroyamodimo, direttore del Dipartimento Nazionale della Fauna e dei Parchi Naturali del Botswana.
Dopo il traffico d’armi, di droga e di esseri umani, il bracconaggio e il commercio di specie a rischio d’estinzione costituiscono la quarta attività criminale internazionale. Secondo alcuni studi dell’università di Washington, l’avorio muove un giro d’affari di circa 3 miliardi di dollari l’anno. Il primo importatore è l’Asia, dove la sola Cina contribuisce per il 70% alla domanda mondiale d’avorio. Un’analisi di National Geographic mostra come il prezzo aumenta vertiginosamente man mano che ci si avvicina alla filiera di distribuzione. Un chilo d’avorio viene pagato ai bracconieri una cifra che si aggira intorno ai 60 dollari, ma una volta che arriva sul mercato asiatico vale fino a 4600 dollari. E se l’avorio viene lavorato le cifre crescono ulteriormente.
L’unica misura efficace che ha ridotto parzialmente questo traffico è stato il divieto internazionale del commercio dell’avorio, emanato nel 1989, che ha dato la possibilità agli elefanti di crescere senza pericolo e così di ricostruire lentamente la popolazione.
Ma nel 2007 quattro paesi africani (Sudafrica, Namibia, Botswana e Zimbabwe) ottennero attraverso il CITES – la convenzione sul commercio internazionale di speci della fauna e della flora in via d’estinzione – il consenso per vendere alla Cina e al Giappone i loro “stock” d’avorio, accumulati duranti i vent’anni della moratoria. In questo modo il bracconaggio è ripreso, e in modo ancora più violento. Nel settembre 2015, in risposta alla crescita esponenziale di questo fenomeno, Obama si è accordato con Xi Jinping, presidente cinese, per porre un divieto al commercio dell’avorio in entrambi i paesi, che costituiscono i maggiori bacini mondiali d’importazione e di vendita. Nel giugno scorso, alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Ambiente, gli USA hanno finalmente varato il bando, limitando la vendita dei prodotti d’avorio a poche eccezioni: oggetti antichi, trofei di caccia sportiva e alcuni strumenti musicali.
Qualche mese prima, nel parco di Nairobi, il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta ha dato fuoco a 105 tonnellate d’avorio pari a 16mila zanne, per un valore di 150 milioni di dollari. L’atto è diventato un simbolo della lotta contro il bracconaggio, per dire che “l’avorio per noi è inutile, a meno che non rimanga sui nostri elefanti”. A ottobre il CITES si è riunito a Johannesburg e ha votato per inserire gli elefanti sotto “Appendix 1”, la massima categoria di protezione, che vieta il commercio legato alle specie in via d’estinzione. Purtroppo però il Sudafrica, la Namibia e il Zimbabwe si sono opposti, sostenendo di avere popolazioni di elefanti stabili o addirittura in crescita. “È una tragedia per gli elefanti”, ha detto Kelvin Alie, direttore dell’International Fund for Animal Welfare, “questo era il momento della comunità internazionale per dire basta”.
Come spesso accade però, anche un divieto sul commercio dell’avorio potrebbe avere un rovescio della medaglia. Infatti sono in molti a sostenere che la proposta della CITES potrebbe alimentare il mercato nero. Il prezzo dell’avorio salirebbe alle stelle, incoraggiando ulteriormente il bracconaggio. Per alcuni, il modo migliore per frenare il fenomeno è l’istituzione di un mercato legale dell’avorio che sfrutti le zanne degli elefanti morti per cause naturali ma, per motivi ovvi, questa modalità avrebbe dei limiti significativi.
In media, ogni 15 minuti un elefante viene ucciso. Questo significa che mentre leggete questo articolo un bracconiere ha già massacrato la sua preda, oppure lo sta per fare. Se questo non dovesse bastarvi, provate semplicemente ad immaginare un mondo senza elefanti. I grandi pachidermi hanno un ruolo essenziale nella diffusione dei semi delle piante che trasportano involontariamente per chilometri mentre pascolano, fungendo da fertilizzatori naturali del terreno. Sono chiamati per questo “i giardinieri d’Africa”. Minacciarli significherebbe danneggiare l’equilibrio dell’intero ecosistema in cui vivono, con conseguenti danni ad altre specie, animali e vegetali. Gli elefanti sono riuniti in gruppi secondo un ordine matriarcale, e grazie alla proverbiale memoria, sono proprio le elefantesse più anziane a guidare gli altri membri del gruppo nelle grandi migrazioni e a gestire i pericoli in base all’esperienza. Senza di loro, gli esemplari più giovani perdono un importante punto di riferimento e questo ha ripercussioni sull’orientamento dell’intero branco. Inoltre, uno studio di aprile 2001 dell’Università del Sussex e dell’Istituto di Zoologia di Londra indica che le femmine più “sagge” si riproducono più spesso, aumentando le possibilità di avere più cuccioli.
I motivi per agire concretamente contro il bracconaggio non finiscono qui. Secondo una ricerca pubblicata l’1 novembre sulla rivista Nature Communications, questa crisi costerebbe all’Africa 25 milioni di dollari. Il danno sarebbe causato dal calo delle entrate nel settore turistico. In particolare, nelle aree delle grandi riserve naturali, investire nella prevenzione della caccia illegale risulterebbe più vantaggioso. Dare un frame economico al fenomeno potrebbe incentivare i governi africani non particolarmente coinvolti da ragioni puramente ambientaliste.
È necessaria un’inversione di rotta, e dovrebbe andare di pari passo con una tutela dell’habitat naturale degli elefanti, minacciato anche dalla deforestazione. Di questo passo il simpatico mammut dell’Era Glaciale finirà per essere sostituito con un elefante della savana. Siamo ancora in tempo?