“Questo è un piccolo martello, ma può fare grandi cose”, annuncia Laurent Fabius, presidente della Cop21 di Parigi, riferendosi al martelletto usato in plenaria durante le trattative dello scorso dicembre alla conferenza sul clima.
A soli dieci mesi dall’adozione dell’accordo di Parigi, 76 paesi (che rappresentano il 59,9% delle emissioni mondiali di carbonio) su 197 che hanno aderito, hanno ratificato il testo. “Un successo incredibile” ha commentato Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, sottolineando che spesso ci vogliono anni, o anche decenni per l’entrata in vigore di un accordo internazionale. La condizione per l’entrata in vigore del trattato prevede la ratifica del testo da parte di 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di carbonio globali.
È vero, l’accordo di Parigi è un punto di svolta per il pianeta, che finalmente riconosce l’urgenza e la necessità di avere una risposta collettiva al problema del riscaldamento globale. Si pone inoltre degli obiettivi a dir poco ambiziosi, il principale tra questi contenere l’aumento della temperatura globale della Terra sotto i 2°C. Ma l’accordo non soddisfa tutti, e alcuni ne hanno evidenziato le debolezze. Secondo la ONG britannica Oxfam, il trattato costituisce un importante punto di partenza che tuttavia non sembra sufficiente ad evitare un surriscaldamento globale inferiore ai 3°C entro il 2050. In particolare, la ONG teme che l’accordo non stanzi fondi sufficienti ai paesi in via di sviluppo, il cui costo di adattamento per il cambiamento climatico, secondo un rapporto dell’ONU dello scorso maggio, potrebbe essere di cifre pari a $500 miliardi l’anno entro il 2050. Nell’ottica economica l’accordo è sicuramente un’indicazione fondamentale del fatto che gli investimenti economici futuri dovranno indirizzarsi verso energie rinnovabili e sostenibili. Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace, ha affermato che le trattative di Parigi sul clima mettono alle strette le industrie di carboni fossili, che si ritroveranno sempre più “sul lato sbagliato della storia” man mano che la comunità internazionale va verso una decarbonizzazione planetaria e la creazione di una cosiddetta green economy.
A dare la “green light” all’accordo di Parigi è stata la ratifica dell’UE alla fine di settembre, che con i suoi 28 stati membri costituisce il 12% delle emissioni.
Prima ancora della notizia europea, abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando Cina e USA hanno annunciato la loro ratificazione. Infatti i due paesi da soli emettono il 37,98% del carbonio mondiale. Tra gli altri “top global emitters” che hanno dato il via alle procedure di ratificazione ci sono l’India con il 4,1% delle emissioni, il Brasile con il 2,48% e il Canada con l’1,95%. Rimane da vedere cosa decideranno paesi come la Russia, al quarto posto per emissioni mondiali (7,53%), l’Indonesia (1,49%), fondamentale nell’equilibrio planetario degli ecosistemi per la significativa presenza di foreste che ricoprono il territorio, e l’Australia (1,46%) che con le sue miniere costituisce uno dei più ricchi bacini di carbonio sulla Terra.
L’urgenza di affrontare il cambiamento climatico attraverso un impegno internazionale si è fatta più pressante nel corso di quest’anno. Infatti il 2016 è un anno fondamentale nella storia del clima perché per la prima volta le emissioni di carbonio hanno superato 400ppm, una soglia limite che non andava oltrepassata e che aumenta la probabilità di conseguenze irreversibili per il nostro pianeta. Tradotto in altri termini, secondo gli scienziati ci sarà il rischio di fenomeni come la siccità, ondate di caldo più frequenti, inondazioni delle zone costiere con gravi implicazioni per le piccole isole, e l’estinzione delle barriere coralline.
Da un punto di vista politico, le elezioni americane e la potenziale presidenza di Trump hanno sicuramente contribuito ad accrescere le preoccupazioni attorno all’accordo di Parigi. Secondo Trump il cambiamento climatico è un “hoax”, una truffa, un inganno, e il candidato repubblicano alla Casa Bianca ha più volte rimarcato che se diventerà presidente si sottrarrà all’impegno internazionale deciso alla Cop21. In questo senso l’accelerazione delle procedure di ratificazione per l’entrata in vigore dell’accordo sono fondamentali, soprattutto da parte del senato statunitense, che secondo i meccanismi costituzionali americani avrà l’ultima parola sull’approvazione della ratifica.
Ma la vera sfida è appena cominciata. Per proteggere e salvare il nostro pianeta gli impegni della comunità internazionale dovranno trasformarsi in azione concreta, non solo a livello nazionale, ognuno tra le mura di casa propria, ma anche attraverso la creazione di un sistema di coordinamento globale. L’accordo di Parigi è una rampa di lancio, e stabilisce criteri di “trasparenza rinforzata” che tengono conto delle differenze socioeconomiche e politiche dei diversi paesi.
Inoltre, secondo le dinamiche della “giustizia climatica” attribuisce ai paesi industrializzati e ai maggiori emittori la responsabilità delle emissioni di carbonio accumulate finora, ma chiede anche ai paesi in via di sviluppo un contributo relativo alle proprie capacità economiche e al proprio sviluppo nazionale. Un test fondamentale per verificare l’efficacia dell’accordo sul clima sarà il suo meccanismo di controllo. Tale procedura prevede che ogni 5 anni la Cop revisioni i progressi dei singoli paesi e degli impegni nazionali individuali. I paesi che hanno ratificato l’accordo dovranno presentare regolarmente dati ufficiali sulle emissioni prodotte e assorbite in relazione agli obiettivi previsti, uno status dei progressi tecnologici per lo sviluppo di energie sostenibili e un rapporto sul trasferimento di capitale investito.
Il trattato sul clima entrerà ufficialmente in vigore il 4 novembre, 30 giorni dopo il 5 ottobre, il giorno in cui l’accordo ha soddisfatto le condizioni di entrata in vigore superando la soglia dei 55 paesi che rappresentano il 55% delle emissioni. La prima conferenza dei paesi membri si terrà in occasione della Cop22 a Marrakech, in Marocco, che si svolgerà dal 7 al 18 novembre.
L’accordo di Parigi costituirà una reale inversione di marcia per il nostro pianeta? Sarà finalmente la concretizzazione di anni di negoziati fino ad oggi disattesi? O si rivelerà l’ennesimo buco nell’acqua, solo un altro esempio di “all talk, no action”?