Non poteva essere altrimenti, Salman Rushdie ha soddisfatto in pieno le ambizioni degli organizzatori della Fiera del libro di Francoforte, inaugurata ieri davanti ai giornalisti proprio dallo scrittore indiano colpito nel 1989 da una fatwa per l’ormai noto romanzo Versetti satanici.
Per la Buchmesse la sua presenza è un vanto. In effetti, Rushdie sa di cosa parla quando intona il suo discorso sulla centralità della libertà di espressione – lui che per aver assecondato le proprie idee e le proprie ambizioni letterarie si è trovato costretto a vivere sotto protezione e in “esilio”. Non c’era, insomma, figura che potesse incarnare l’ideale di democrazia e società aperta che in Germania è religione civile. Migliore ciliegina non poteva esserci, infine, della scomunica della Buchmesse da parte dell’Iran, che ha ufficialmente deciso di non partecipare alla kermesse. Un assist tutto sommato provvidenziale che dato modo a Jürgen Boos, il direttore della Fiera, di dichiarare in risposta al boicottaggio iraniano che «esiste un aspetto centrale della civiltà umana che non è negoziabile», vale a dire, «la libertà di parola e la libera manifestazione dell’opinione».
La libertà di opinione non è un diritto qualunque. «Senza di esso – dice Rushdie – non esisterebbero neppure gli altri». Ogni limitazione di questo diritto non è solo censura, ma «un attacco alla natura umana». L’uomo è un animale linguistico ed è nella sua natura il bisogno della narrazione. «Gli uomini esistono nella misura in cui si raccontano le loro storie». Come i filosofi illuministi del XVIII secolo hanno conquistato la libertà di espressione con la lotta contro la Chiesa, così «oggi scrittori, editori e cittadini hanno il dovere di riaffermare la libertà di opinione contro nuovi fondamentalismi religiosi».
Ha ragione Salman Rushdie quando però precisa che la libertà di opinione, pur essendo nata come diritto nella specificità storico-culturale dell’occidente, non è messa a rischio solo da ciò che si trova all’esterno dei suoi confini. Non è solo dai fondamentalismi o dalle dittature che la libertà di parola è minacciata. Anche laddove essa sembrerebbe essere di casa, nell’occidente patria e laboratorio storico dei diritti universali, la libera manifestazione del pensiero può incappare – e incappa – in disavventure. A questo punto le coscienze liberali e benpensanti salteranno sulla sedia. Chi può negare, si obietterà, che qui da noi, nelle libere e avanzate democrazie occidentali, tutti possano dire la propria? Non è forse vero che internet, le nuove tecnologie, i social network hanno dato la possibilità a tutti, ma proprio a tutti, di dissentire e manifestare la propria opinione? È sufficiente un giro in rete per rendersi conto dell’estrema varietà dei punti di vista in tutti i campi della vita intellettuale e sociale.
A ben vedere, però, ci sono almeno tre fattori che rendono la libertà di opinione un esercizio spesso solo apparente. In primo luogo, la tendenza a perdere di vista l’essenziale, la disabitudine a discorsi universali – e questo spiega in parte la fortuna comunicativa di Papa Francesco, capace di parlare con semplicità di affetti e inquietudini profonde dell’essere umano. Nella comunicazione quotidiana Internet ha imposto il frammento, l’immagine, l’attimo. In rete ci si imbatte ormai sempre più in siti e blog iperspecializzati. Incontriamo a ogni passo esperti di cucina, di pesca, di app, di uncinetto, di sistemi per piegare i vestiti, specialisti di fotografia e modellismo ferroviario, di riciclo e di giardinaggio.
Non esiste un popolo del web.
Esistono, semmai, tribù, comunità dai confini frastagliati, che a volte si intersecano in sottoinsiemi, che però si riconoscono fondamentalmente al proprio interno in virtù degli stessi interessi e delle stesse opinioni. La tendenza a ritrovarsi tra simili ha ridotto lo scambio di idee tra diversi e spinge a professare le proprie opinioni in ambiti sempre più specialistici, talvolta anche all’irrigidimento, alla produzione di generi letterari complottistici, con scarsa possibilità di incidere nel dibattito pubblico.
L’universo di segni ridondante in cui viviamo è, in secondo luogo, un sistema entropico. La probabilità del disordine aumenta, le opinioni si moltiplicano, il numero delle varianti cresce. Ma questa, che dovrebbe costituire la prova del compimento del diritto alla libera manifestazione del pensiero nelle nostre società, si rovescia nel suo contrario. L’opinione individuale si perde nel magma generale, resta circoscritta in un pubblico ristretto, spesso a uso e consumo di intime cerchie di amici, alla ricerca di iLike.
E poi c’è un terzo fattore che sembra contraddire i primi due. La società della comunicazione di massa è anche uno scenario di inauditi processi di concentrazione dei flussi di conoscenza. Non occorre censura per emarginare eventuali opinioni scomode. Dal rumore di fondo dei social network emerge alla fine soltanto il mainstream. Ha ragione Salman Rushdie quando afferma che il principale avversario della libertà di pensiero è il “politicamente corretto“. Non un’autorità esterna, non un dittatore, non un nemico riconoscibile contro cui si possa combattere, ma una sorta di sentinella interna che rende a ciascuno di noi un meccanismo automatico distinguere fra ciò che è pubblicamente dicibile e accettabile e ciò che, invece, non lo è e può costare la stigmatizzazione. «Negli Stati Uniti si sta discutendo se segnalare sulle copertine dei libri quando il contenuto può scuotere il lettore». Forse ci possono salvare la letteratura e l’arte, il cui compito è «disturbare». A loro non spetta di riprodurre la realtà così com’è, come all’informazione. Gli scrittori e gli artisti devono porre domande, mettere in discussione, interrogare i fondamenti della famiglia, della comunità in cui viviamo, della politica, della religione. «Per questo sono considerati nemici da chi invece vuole mantenere per sé il controllo della narrazione».
C’è però da chiedersi se questa idea di letteratura non sia solo un romanticismo del passato in un’epoca in cui colossi dello stampo di Google, Facebook e Apple sono ormai in grado di decidere cosa far venire avanti dal rumore di fondo e cosa no. Persino gli scrittori scomodi a qualche dittatura – a voler essere maligni – talvolta devono la propria fama al proprio appeal nei confronti dell’establishment della comunicazione.