Con la conquista del potere da parte della Fratellanza Musulmana nel 2011 e l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza della Repubblica l’anno successivo, l’Egitto sembrava destinato a scivolare in una spirale infinita di violenza interna, praticata con il fine di islamizzare l’intera società. Nel 2013, invece, il movimento Tamàrrud ha rappresentato la reazione della popolazione, che con la più imponente petizione della storia contemporanea chiese alle Forze Armate di fermare il jihadismo di Stato di Morsi e della ‘Fratellanza’.
Da allora, pur con le contraddizioni di ogni transizione, l’Egitto ha avviato una vera rivoluzione, che ha subito un’accelerazione nella coscienza nazionale dopo la barbarica decapitazione dei 21 martiri copti, sacrificati sull’altare di una falsa interpretazione religiosa dalle milizie del sedicente Stato Islamico in Libia. Oggi la prospettiva – seppur calata dall’alto – è di fare dell’Egitto un esempio di convivenza per tutto il Medio Oriente e il mondo musulmano.
Il Cairo - Che cos’è una rivoluzione?
Potremmo scrivere, dibattere, sviscerare per ore, senza giungere a una definizione oggettiva, condivisa, chiara. Senza ricorrere al pensiero del visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville – che nell’Ancien Régime et la Révolution spiegò quella francese come una mezza rivoluzione, tra Robespierre e Tomasi di Lampedusa – potremmo tentare di definire cosa non è una rivoluzione: di certo una rivoluzione non mantiene in vita i paradigmi interpretativi della realtà, non lascia immutate istituzioni e regole, non mantiene inalterate prassi e procedure, non trascura costumi, vita quotidiana e routine comune.
In questi termini, in Egitto è in corso una rivoluzione, che è anche una contro-rivoluzione anti-islamista ma non anti musulmana. Una rivoluzione anzitutto religiosa che imporrà – in un tempo ancora non chiaro, perché la transizione possa dirsi conclusa (per lo più) – la radicale sovversione del sistema politico e sociale per effetto dell’azione di una classe governativa guidata da un militare di straordinario curriculum professionale. Un paradosso, se volessimo cavalcare l’onda emotiva tipicamente europea sui militari, visti come il regno della reazione e dell’oscurantismo.
Abd al-Fattah al-Sisi è stato eletto presidente della Repubblica Egiziana nel maggio 2014, ma la sua ascesa al potere – con percentuali di voto ‘bulgaro’ – non deve essere etichettata come dittatoriale, semmai è segno della sofferenza della società egiziana, dopo gli abbagli della ‘primavera araba’ guidata nel 2011 dai Fratelli Musulmani, declinata in breve in dittatura settaria, quale prima tappa per l’islamizzazione delle istituzioni e dell’ordinamento giuridico da un lato, per l’imposizione della sharia su una popolazione che – al di là dell’infatuazione momentanea verso il ‘nuovo’ corso – ha nel proprio dna poliedricità culturale, retaggio della multi millenaria cultura. Infatuazione che viene dalle falle sociali della politica egiziana, assente sul fronte della costruzione dello Stato attraverso un patto sociale che legasse popolo e istituzioni.
Negli anni ‘90 dello scorso secolo, il cimitero del Cairo aveva gli stessi abitanti (vivi) della città: la penuria di abitazioni aveva trasformato la città dei morti in città dei vivi morenti. Una massa di persone in condizioni miserrime, cui la Fratellanza Musulmana diede assistenza sociale, sostegno economico, pane, cercando di conquistarne i cuori, dopo essersene aggiudicata le menti (e le membra).
Quando nel 2012 Mohammed Morsi vinse le presidenziali dopo la cacciata di Mubarak, per effetto parziale delle trionfali elezioni parlamentari dell’anno precedente, al primo turno i voti del candidato dei Fratelli Musulmani totalizzarono il 24,78% dei consensi, contro il 23,66% del candidato indipendente Ahmad Shafiq. Shafiq e Morsi si contesero la presidenza al ballottaggio, in cui prevalse il capo della ‘Fratellanza con il 51,73%, contro i 48,27%.
Con 13.230.131 di voti – e una percentuale di votanti ampiamente minoritaria – Morsi avviò la fase istituzionale della ‘rivoluzione’ islamica egiziana. Citiamo i numeri perché è importante ricordare che la vittoria della ‘Fratellanza’ fu in realtà una sconfitta delle opposizioni laiche, moderate e liberali, che frammentarono le forze al primo turno e mancarono di appoggiare l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, etichettato come appartenente all’Ancien Régime.
L’azione condotta sul territorio dagli sgherri della Ikwan fu rapida, perché l’obiettivo era da conseguire con celerità. Fu anzitutto ridato sostegno all’ala militare della ‘Fratellanza’ operante a Gaza – Hamas – che poté tornare a rifornirsi di armi ed equipaggiamenti, nonostante un blocco formale, di fatto trasformato in consenso silente all’uso del fitto reticolo di tunnel sotterranei che superavano il valico di Rafah. In piena violazione dei trattati di pace con Israele, l’Egitto tornò a praticare una lotta sotterranea contro Tel Aviv, ma senza assumersi la responsabilità politica di denunziare gli accordi di pace, né di rompere le relazioni diplomatiche. Una forma di taqiyya elevata a pratica di governo (sul concetto di taqiyya, cfr Enciclopedia Treccani qui; o Wikipedia in inglese qui).
Sul fronte interno, le minoranze religiose e i movimenti laici divennero obiettivo quotidiano di violenze, persecuzioni, atti di sabotaggio, imposizioni di tasse mafiose locali – di chiara ispirazione islamista – in applicazione dei principi della Jizya, la tassa pro-capite di “compensazione” cui sono soggetti i non-musulmani per ottenere protezione in un quadro giuridico di minori diritti e di diseguaglianza (sulla nozione di Jizya, cfr Wikipedia qui). Il risultato fu anche tangibile: distruzione di luoghi di culto non islamici, uccisioni di religiosi e di fedeli cristiani copti, assassini politici di personalità laiche e liberali, semplice terrore estremista diffuso a profusione.
Solo con questa premessa si può spiegare la reazione popolare del maggio-giugno 2013, quando una massa di gente aderì alla protesta del movimento Tamàrrud, nato a fine aprile, che si rivelò in grado di coagulare in modo trasversale forze politiche, sociali e religiose. ‘Disobbedienza’ – questa la traduzione di Tamàrrud – raccolse nel Paese le istanze della maggioranza della popolazione, stremata dalla violenza islamista della ‘Fratellanza Musulmana’, dalla crisi economica prodotta soprattutto dal crollo del turismo (dopo gli attacchi jihadisti ai turisti dei mesi precedenti), ma soprattutto reattiva contro la deriva totalitaria shaaritica promossa dagli estremisti islamici.
L’effetto di questa ribellione fu la più straordinaria petizione popolare della Storia contemporanea, che raccolte oltre 33 milioni di firme di cittadini di ogni censo, religione, professione e propensione politica, rivolta alle Forze Armate perché bloccassero la violenza e la deriva jihadista in Egitto.
Il resto è ormai storia.
Di fronte a questa massa di gente ordinaria e normale, desiderosa solo di routine e normalità, i miliziani della ‘Fratellanza’ reagirono con l’unico modo conosciuto: violenze settarie, in special modo anti-cristiane; aggressioni e omicidi di matrice politica, che bersagliarono esponenti minori delle forze liberali e progressiste, in una spirale che sembrava sottratta al formale controllo del presidente Morsi, ma legata al governo per via surrettizia.
A quel punto, la situazione non poteva che precipitare. Alla fine di giugno, le opposte manifestazioni in Piazza Tahrir al Cairo furono la rappresentazione plastica di una guerra civile montante, in cui si sarebbero affrontete le milizie e i supporter della ’Fratellanza’ da una parte e gli egiziani che si riconoscevano nella lotta per la libertà condotta dai giovani di Tamàrrud, dall’altra.
Il 1° Luglio le Forze Armate imposero un ultimatum a Mohammed Morsi, che si illuse di poter ristabilire l’ordine con provvedimenti succedanei, privi della sostanza richiesta dalla popolazione. Di fronte al tergiversare di Morsi, le Forze Armate lo deposero il 3 Luglio, insediando come presidente provvisorio dell’Egitto ʿAdlī Manṣūr, presidente in carica della Suprema Corte Costituzionale. Un colpo di Stato, lamentarono i ‘Fratelli Musulmani’ e i loro alleati (palesi e occulti) in giro per il mondo. Una rivoluzione, risposero gli egiziani e perfino la stampa indipendente. Il 4 Luglio – per pura combinazione di date – i giornali egiziani titolarono quasi all’unisono: “Non è un colpo di Stato, è una rivoluzione”.
Bisogna dunque partire da queste premesse per capire la reazione contro il terrorismo di Stato della Fratellanza Musulmana, una reazione bellica, più che di polizia. La minaccia infatti era militare, non ‘delinquenziale’. Sovversiva di un ordine costituito, forse claudicante, seppur di transizione (alla luce dei più recenti fatti).
Del resto, la storia dei ‘Fratelli Musulmani’ è marcata fin dall’inizio dalla sovversione dello Stato su basi teoriche islamiste. Fondata nel 1928 da Hassan al-Banna e basata sulle teorie del filosofo hanbalita siriano Ibn Taymiyya, vissuto a cavallo tra XIII e XIV Secolo, e fautore della rivoluzione – nel senso di ‘ritorno’ – al ‘vero islam’ letterale, la ‘Fratellanza Musulmana’ lotta da allora per l’imposizione al mondo intero dei principi della sharia, del Corano e della Sunna. L’Umma musulmana – ossia la comunità dei credenti in Allah e nella verità rivelata all’ultimo dei profeti, Mohammed – si sovrappone in fieri, come obiettivo di lungo termine, all’intera popolazione mondiale. Chi non ‘aderisse’ attraverso la conversione all’islam meriterebbe di morire attraverso la punizione prevista per gli infedeli o dovrebbe accettare di sottomettersi in condizioni di inferiorità giuridica, sociale, economica, culturale e personale.
Contrastare un programma così ‘ambizioso’ – degno dei peggiori totalitarismi – è dunque un impegno che ha trasformato Abd al-Fattah al-Sisi da militare di gran vaglia in personalità di spicco della cronaca contemporanea, ma già assurto al rilievo storico proprio dei ‘rivoluzionari’.
Il salto decisivo – pur tra contraddizioni e nel pieno di una transizione che sarà dolorosa e intrisa di sangue – è avvenuto nei primi mesi del 2015.
Nel noto discorso tenuto all’Università Islamica di al-Azhar – centro sunnita e faro di giurisprudenza islamica per tutti i giureconsulti musulmani del mondo – al-Sisi pose una questione di fondo: 1,6 miliardi di musulmani possono desiderare la morte degli altri 7 miliardi di abitanti della Terra? Un dubbio che conteneva già – in senso retorico – una soluzione. L’islam deve autoriformarsi, darsi un ‘Nuovo Testamento’, perché lo scenario sarebbe quello dell’autodistruzione, visto che il mondo avverte l’Umma islamica come minaccia alla propria sopravvivenza. La ‘rivoluzione’ egiziana ebbe in in quel momento una spinta decisiva, dall’alto, ma pur sempre accolta dal popolo con la speranza di migliori condizioni di vita concreta, quotidiana.
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https://www.youtube.com/watch?v=lEG5Qdg__i4
Eppure, per apparente paradosso, questa rivoluzione ha subìto un’accelerazione a causa del martirio di 21 lavoratori egiziani copti, barbaramente decapitati in Libia nel febbraio di quest’anno da miliziani jihadisti di Ansar al-Sharia (Partigiani della Legge Islamica) aderenti all’ISIS (autoproclamatosi Islamic State of Iraq and al-Sham, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante).
Lo sdegno di fronte alla barbarie compiuta in nome di Allah colpì le coscienze degli egiziani, a prescindere dal credo religioso. E la decisione di al-Sisi di colpire le milizie jihadiste con i corpi speciali dell’esercito fu salutata con favore quasi unanime.
Un fatto conseguente ha colpito l’immaginario collettivo e la coscienza nazionale: la decisione di finanziare con fondi statali la costruzione di una cattedrale cristiana a Minya, dedicata ai 21 martiri copti in prevalenza originari da quella città.
Questa decisione ha avuto un’importanza simbolica, perché testimonianza dell’importanza attribuita alla corposa minoranza cristiana egiziana nel processo di nation re-building del Paese. Ma un’altra decisione – la concessione di una pensione vitalizia alle famiglie delle vittime, come segno tangibile della solidarietà dello Stato ai ‘caduti’ egiziani – rappresentò il primo passo per la separazione della religione dallo Stato, indispensabile presupposto per la laicizzazione delle istituzioni.
A queste decisioni sono seguite altre di fondamentale importanza, tese a depotenziare ogni meccanismo di trasmissione ideale della violenza e della sopraffazione religiosa sui valori comuni di tutti gli egiziani. Il divieto imposto alle insegnanti universitarie di indossare il niqab (il velo integrale che lascia aperta solo una fessura per gli occhi). Oppure, la parità dei diritti dei cittadini, a prescindere dal genere, dalla condizione sociale e (soprattutto) dalla religione professata, un provvedimento rivoluzionario in sé in un Paese a maggioranza musulmana, ancor di più nella patria in cui è sorto il ‘partito jihadista’ che ha dato dignità politica alla ‘guerra santa’.
Un’applicazione concreta nel solco tracciato da al-Sisi in gennaio ad al-Azhar, quando – senza giri di parole – il presidente egiziano disse con chiarezza e senza esitazioni: “dobbiamo cancellare dall’islam la jihad, la guerra santa da muovere agli infedeli”.
Pur con le difficoltà di ogni transizione, quella oggi in corso è una vera rivoluzione per l’Egitto. E non solo.
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