I rom rappresentano lo 0,25% della popolazione italiana. Lo chiarisce l’ultimo Rapporto Annuale dell’Associazione 21 luglio. Contrariamente all’immagine comune che si ha di questa minoranza, solo il 3% è nomade e la metà ha cittadinanza italiana. A Roma ne vivono – distribuiti nei campi – circa 4mila. Tuttavia l’Italia ha avuto con questa sua realtà interna un rapporto controverso che ha spesso generato stereotipi e pregiudizi, oltre alla violazione di diritti umani fondamentali. La Commissione Europea nel 2014 ha sottolineato le carenze dell’Italia «in particolare riguardo il coinvolgimento della società civile, il coordinamento tra realtà nazionale e locale, i meccanismi di monitoraggio e valutazione e l’allocazione di finanziamenti adeguati».
Innescando un cambio di rotta, a Roma, Arci Solidarietà – insieme a Marta Bonafoni , consigliera della Regione Lazio, e Felipe Goycoolea del coworking Millepiani – sta lavorando con donne provenienti dal campo di Candoni. Si prova ad aprire un dialogo, infrangere gli stereotipi e cercare di venirsi incontro. Si parte anche dalla cucina.
INCONTRARSI A TAVOLA
Il 25 giugno fa caldo ma i molti profumi che provengono dalla cucina mettono appetito: sarme (involtini di verza, riso e macinato), carne arrosto, verdure ripiene di riso e carne macinata, insalata russa, macedonia, dolci. Le cuoche tra i fornelli sono dieci donne rom. Lavorando unite, cucinano piatti tipici della loro tradizione culinaria. La ventina di ospiti siedono intorno ad una lunga tavola imbandita nel campo rom di via Candoni a Roma, zona Magliana. Tra loro Mariangela De Blasi, di Arci Solidarietà, che lavora con queste donne. «Abbiamo organizzato questo pranzo. Hanno invitato persone italiane. Per avvicinarci tutti insieme. Per vedere come siamo noi. E come siete voi. Incontrarci. Per vedere che non siamo tutti uguali» racconta Giuliana, una delle cuoche. Lavoro di squadra, gomito a gomito, ognuna responsabile dei propri compiti e dei propri errori. «Sono dovuta tornare a comprare la carne perché avevo preso solo quella di maiale… e non tutti mangiano il maiale. Ho sbagliato» spiega una delle donne. Sorride per l’errore, un po’ intimidita. Cucinare insieme ha significato molto per loro. Si sono sentite forti, unite e necessarie. Responsabili del buon esito. Non si trattava di un semplice pranzo. Lo si legge dietro i loro sguardi, le parole, i sorrisi. La cucina è diventata un ponte verso l’altro. Lanciato oltre la marginalità del campo. Oltre la frontiera. Cucinare per loro è diventata la scusa per incontrarsi, per scoprirsi a vicenda ed abbattere delle barriere che sono state innalzate negli anni sino a diventare molto alte. Il pranzo è stato un successo e le dieci cuoche sono state invitate ad occuparsi del catering per un evento – promosso da Monica Pasquino dell’Associazione Scosse – tenutosi il 19 settembre alla scuola Cattaneo di Roma. Zona Testaccio.
LE RADICI DEL PRESENTE
L’esperienza del 25 giugno rientra nella scia di progetti e iniziative portate avanti da Arci Solidarietà. Lavorare con le donne rom – precocemente madri e mogli all’interno della loro comunità – può essere fondamentale. De Blasi spiega infatti che «questi ruoli che rivestono le legano fortemente al concetto di cittadinanza: l’educazione dei figli, le questioni sanitarie, la cura della casa, la cura dei legami comunitari, fanno di loro potenziali e reali leve per il cambiamento».
Il sostrato del 25 giugno, quindi, è ricco di lavoro comune. «Noi insieme abbiamo fatto un percorso. Abbiamo fatto dei corsi» racconta Maria. Seduti intorno al tavolo riflettiamo sulle radici e su ciò che siamo ora. Sui loro volti si legge la storia difficile, non troppo lontana, che li ha portati a spostarsi. Fuggire prima dalle deportazioni nei campi di sterminio. Poi dal regime comunista di Ceausescu e dalle violenze della rivoluzione romena del 1989. «Da quando siamo qui la nostra vita è più bella di quando eravamo in Romania. La nostra vita era impossibile in Romania. Con Ceausescu era difficile, ti dava un kg di riso e zucchero al mese» racconta Elena. L’Italia ha offerto loro una condizione migliore rispetto a quella lasciata ma non ha dato la possibilità di integrarsi. La relegazione nei campi ha tracciato un confine oltre il quale inizia la paura e la diffidenza. A volte motivata da furti, altre volte del tutto infondata. «Sono andata a fare la spesa. Una signora mi ha visto col carrello perché non ho la macchina. Ha iniziato a dirmi di andare via, che facevo casini. Sono venute di corsa altre persone urlando e io sono dovuta scappare via con la mia nipotina. Spaventata. Mi aveva visto con la gonna lunga, ma noi non siamo tutti uguali. Come voi non siete tutti uguali. Mi hanno lanciato una bottiglia dietro. C’erano dei carabinieri e mi hanno detto di andare via perché quelle persone erano cattive ma loro non potevano farci niente. Io ora ho paura anche di fare la spesa» incalza Elena. È il teatro di una gara a chi ha più paura. Elena però vorrebbe parlare. Perché con le parole ci si conosce e forse la paura se ne va.
IL FUTURO DI CHI VUOLE UN DIALOGO
Occhi brillanti. Il figlio di qualche mese attaccato al seno. «Nel futuro ci sono i desideri» dice. Quelli di queste dieci donne rom sedute intorno al “tavolo” presso Arci Solidarietà hanno un filo comune. Poter lavorare. Ma non per se stesse. Lavorare solo per la propria famiglia, per i propri figli. Come quei padri di famiglia italiani che, da oltre oceano, mandavano rimesse per garantire un’istruzione ai figli e assicurare loro un futuro migliore. Un lavoro migliore. Florentina manda i suoi figli a scuola perché il suo presente è tutto rivolto al futuro dei suoi bambini. «Vorrei trovare lavoro perché non voglio più chiedere l’elemosina e voglio che i miei figli continuino a studiare e non facciano mai quello che faccio io» mi racconta. Quando parlano del domani qualcuna di loro si commuove. Il futuro lo vogliono afferrare. Sono donne attive. Si danno da fare, seguono corsi. Emerge un lato nascosto del mondo rom. Lontano dallo storytelling canonico che riguarda i campi. Reclamano la possibilità di integrarsi, di non essere guardate con sospetto. Portano sulle spalle il peso del pensare comune che le stigmatizza. La violenza delle “ruspe” che distrugge d’un soffio i piccoli passi fatti per provare a integrarsi. Ad instaurare un dialogo. «Non siamo tutti uguali. Non tutti rubano. Come non siete voi tutti uguali». Lo sento dire più volte, da angoli diversi del tavolo. «Ero al supermercato. Ma era arrivata una nuova alla cassa e chiede ad un’altra vecchia cassiera se poteva accettare i soldi da me. E la vecchia cassiera ha detto “certo, li conosciamo, sono brave persone, li conosco da anni qui”» racconta Elena. «Sarebbe stato diverso se mi fossi travestita, senza gonna lunga» scherza e sorride. Tra le più giovani, poi, c’è Giuliana che è nata a Cagliari da genitori bosniaci e ama cucinare. La sua specialità sono i dolci. Sogna di diventare una pasticcera e di prendere la patente. Riesco a strapparle la promessa di una crostata.