di Luca Durante
Che Jón Kalman Stefánsson fosse un fuoriclasse dei nostri tempi lo si era già capito con la trilogia che aveva fatto la sua comparsa in Italia a partire dal 2011. Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo: tre libri di uno spessore notevole per scrittura e trama, che affrontavano con delicatezza le questioni esistenziali umane, la vita, la morte, le arti. “Paradiso e inferno”, in particolare, permise a Stefánsson di arrivare finalista, nel 2012, sia al premio Gregor Von Rezzori che al Bottari Lattes, non proprio traguardi per scrittori qualunque.
I pesci non hanno gambe, pubblicato a maggio da Iperborea nell’ottima traduzione di Silvia Cosimini – che ha curato anche le altre opere dell’autore- è ulteriore conferma del grande talento di questo autore che ci ha regalato una vicenda corale da gustare lentamente.
La storia è quella di Ari, editore di successo che molla di punto in bianco moglie e figli in Danimarca per tornare alle sue origini, a Keflavík, in Islanda. Un ritorno che è quasi una spinta alla sopravvivenza, deciso a seguito dell’annuncio dell’imminente morte del padre. In realtà quel padre al trapasso ci è arrivato diverse volte, ma mai Ari aveva messo in discussione la propria vita matrimoniale – ed esistenziale- fino al punto da lasciare tutto e partire: la molla questa volta è diversa e fa da spunto per uno slancio che gli permette di abbandonare la tristezza di una vita alle spalle e di provare a cercare nuovo ossigeno, uno spicchio di calda, ricavata felicità.
La vita di Ari doveva essere un viaggio alle pendici dei monti, una scalata alle stelle e alla maturità, e invece eccolo qui, a quasi cinquant’anni, conosce le religioni, la musica, i libri, come si calcola la superficie di una sfera, è ferrato in storia e sul calcio, ma in realtà non sa un bel niente, non ha radici da nessuna parte, è disorientato, perso, afflitto dalla nostalgia per i figli ormai grandi, e per la donna con cui ha vissuto più di vent’anni, ma nonostante il rimpianto non ha trovato la forza di tornare a casa, è come se qualcosa di inspiegabile lo abbia trattenuto, alimentando allo stesso tempo la sua profonda nostalgia. Lo ha trattenuto – finché non ha ricevuto un’email inaspettata da suo padre Jakob. Inaspettata per il contenuto, ma anche perché i loro contatti, mai molto assidui, erano stati penosamente scarsi negli ultimi due anni. L’email conteneva due frasi: <<Ehilà, caro mio, ci siamo, sto per tirare le cuoia, è un maledetto cancro. Ma preparati a ricevere un pacco. :-)>>
Ma Ari non è il solo a muoversi in queste pagine; è semplicemente un protagonista tra i protagonisti in un romanzo che in realtà racconta una famiglia, circa tre generazioni, uomini e donne che si scontrano e si incontrano intrecciando i fili di una saga familiare impossibile da riassumere in poche righe. Lo scritto è infatti costruito in maniera articolata. Diversi sono i luoghi proposti, i personaggi che lo animano e le epoche che lo attraversano: solo uno scrittore con grandi capacità narrative poteva permettersi una tale complessità di struttura.
Stefánsson si prende il suo tempo – il romanzo conta più di 400 pagine – ma lo ritaglia nella giusta maniera, permettendoci di conoscere a poco a poco i suoi personaggi, i loro stati d’animo e le trasformazioni che affrontano per l’inesorabile passare del tempo che muta i rapporti d’amore, i caratteri e i desideri. Questi pezzi di vita si muovono sullo sfondo di una terra fredda, un’Islanda carica di buio e circondata dal mare, dove la Natura in maniera sottile si attacca addosso al quotidiano e invade i moti dell’animo.
La scrittura poetica, che regala riflessioni profonde sulla vita, la morte e sull’amore in primis, fa il resto in quanto a magia:
Questa è la forza che tiene i pianeti al loro posto, che fa dilatare l’universo e forma i buchi neri. La volontà dell’uomo può ben poco quando questa forza si mette in moto, si manifesta. Ci priva dell’intelletto, della razionalità, ci priva dell’integrità, del riserbo, della dignità, ma alla fine, se siamo fortunati, ci offre una gioia vertiginosa, un’estasi indescrivibile, perfino la felicità. Al suo cospetto ogni momento sembra diventare poesia, una musica sfrontata. È la risposta di Dio alla morte, quando il Signore non riuscì a salvare l’uomo dalla notte eterna e gli donò invece questa luce particolare, questo fuoco che da allora gli scalda le mani e lo incenerisce, che trasforma i tuguri in una scala per il paradiso, i palazzi in rovine desolate, l’allegria in solitudine. La chiamano amore, è l’unica parola che ci è venuta in mente.
I pesci non hanno gambe è solo il primo lavoro di una serie, di una saga familiare di cui è in corso di pubblicazione il secondo volume. Per chi ama le storie e le vicende personali è sicuramente un ottimo inizio, in attesa che arrivi il seguito.