In Europa c’è sempre uno spettro che si aggira e quello attualmente circolante sulla piazza si chiama Germania. Il volto della cancelliera Angela Merkel, ancor più quello del suo potente ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, sono diventati l’icona dell’austerità che opprime i popoli del vecchio continente. Aleggiano persino categorie che si ritenevano seppellite dalla storia. Il fantasma della questione tedesca torna a inquietare, con l’unica differenza che a spaventare l’Europa oggi non sono più, come in passato, l’unità nazionale della Germania e le sue aspirazioni territoriali, bensì una politica di potenza camuffata da strategie economiche e finanziarie, solo in apparenza neutrali – prime fra tutte, austerità e rigore.
Solo per fare un esempio, lo scorso anno la Germania ha esportato merci e servizi per un valore di 1100 miliardi di euro a fronte di 900 miliardi di beni importati. La differenza ammonta a 200 miliardi di euro che l’economia tedesca ha registrato nella voce attivo della bilancia commerciale, ben il sette per cento del prodotto interno lordo in termini percentuali. In altre parole, i tedeschi hanno prodotto più di quanto hanno consumato o reinvestito nel proprio paese. Questo sette per cento è stato utilizzato da altri paesi acquirenti, che in cambio si sono dovuti indebitare. Dal 2000 al 2012 la Germania ha realizzato un avanzo commerciale pari a 1500 miliardi. Una montagna di denaro che spesso è ritornata sotto forma di crediti e di titoli di stato altamente redditizi nei paesi europei debitori.
Anche analisti finanziari ed economisti di fama internazionale – da Paul Krugman a George Soros – considerano l’attuale impianto dell’euro un dispositivo che ha consentito alla Germania, grazie agli squilibri e ai differenti livelli di competitività tra i paesi Ue, di realizzare giganteschi guadagni nelle esportazioni, con un conseguente trasferimento di ricchezza dai paesi periferici dell’Ue in casa propria. Fino a quando però? Anche dalle parti del Fmi, per citare un esempio, tira aria di scetticismo. Nessuno ritiene più plausibile che la Grecia sia in grado di ripagare con gli interessi il nuovo pacchetto di crediti che avrà come effetto paradossale quello di innalzare ulteriormente il livello di indebitamento del paese – per tacere della spirale depressiva che altri tagli alla spesa avranno nel paese. Un rinvio, nulla di più, a giudizio di molti, dell’inevitabile uscita della Grecia dalla moneta unica. Così non può durare a lungo, lo dicono in molti – gli Usa, il Fmi, la stessa Commissione europea.
Non è un mistero che nelle stesse file del governo Merkel ci siano dei settori – Schäuble in testa – che vedrebbero di buon occhio l’uscita di Atene dall’euro. Eppure, da un mese a questa parte, circola un’altra versione. La Germania, che dovrebbe essere il paese più avvantaggiato dagli assetti attuali dell’euro, comincia a immaginare uno scenario alternativo per il futuro. Un futuro che si chiama non Grexit, ma Gexit, un termine di nuovo conio che ha fatto il suo ingresso nell’opinione pubblica tedesca: ossia German-Exit. Ad aprire le danze è stato l’ex direttore per l’Europa del Fmi, Ashoka Mody, che ha indicato nell’uscita dei tedeschi dalla moneta unica la sola via per salvare l’euro a costi contenuti. «Non ci perderebbe nessuno», perché con Berlino fuori, l’equilibrio fra le altre economie sarebbe salvo, mentre se uscisse la Grecia, a distanza di qualche mese, potrebbero seguire la Spagna e l’Italia.
Dell’ipotesi cominciano a discutere anche i mercati finanziari. Esiste persino una sorta di listino (Break-Up-Index) nel quale sono quotati i paesi con maggiori probabilità di uscita dall’euro entro un arco di tempo di un anno. Le quotazioni della Germania sono salite improvvisamente. A luglio Berlino è passato da due a 2,4 e si trova a un passo da Cipro. «Dopo il recente, di nuovo insoddisfacente, piano di aiuti alla Grecia – ammette un analista della società Sentix – gli investitori ritengono sempre più probabile che i paesi cruciali della zona euro si separino dal blocco monetario». Fantasie malate? In realtà, l’idea dell’uscita della Germania dall’euro è tutt’altro che nuova. George Soros lanciò la provocazione già tre anni fa come strategia per ridare fiato ai paesi in crisi. Senza Berlino l’euro si deprezzerebbe e questo comporterebbe una boccata d’ossigeno per le esportazioni di paesi come Italia e Spagna. La Germania, con la sua economia forte e una disciplina dei compiti a casa, è distante dalla media europea, almeno quanto la Grecia.
A ben vedere, però, non manca chi auspica un abbandono della moneta unica proprio in nome degli interessi tedeschi, per paradossale che sembri. Una posizione che, a quanto pare, non sarebbe più monopolio esclusivo della AfD (Alternativa per la Germania), il partito antieuro che nel giro di un paio di anni ha conquistato il dieci per cento dell’elettorato tedesco, insidiando da destra anche la Cdu di Angela Merkel. Oggi anche gli economisti prendono in considerazione uno scenario futuro alternativo alla moneta unica.
Anche se, grazie all’euro, Berlino dal 2000 in poi ha accumulato negli scambi con l’estero montagne di surplus, questa posizione patrimoniale potrebbe rivelarsi più effimera di quanto non appaia. Con la crisi finanziaria, infatti, il valore degli investimenti diretti della Germania all’estero è crollato di 370 miliardi di euro – quasi un quarto del corrispettivo di merci e servizi che Berlino ha esportato dal 2000 a oggi. Per effetto del deprezzamento, è come se questi beni fossero stati regalati. Questo è, almeno, quanto sostiene l’economista Katja Rietzler, che ha lanciato l’allarme per un gioco a perdere, dal punto di vista dei tedeschi. Perché utilizzare una quota tra il sei e il sette per cento delle risorse e della forza lavoro nazionale per produrre a gratis beni per gli altri, attirandosi per giunta anche l’indignazione del resto del mondo? Se la Germania non destinasse una parte del prodotto interno lordo alle esportazioni, il paese disporrebbe ogni anno di merci e servizi per le proprie esigenze per un valore di 200 miliardi di euro. Che sarebbe, né più né meno, la ricetta invocata anche dalla Linke, la sinistra tedesca, favorevole a drenare risorse in sostegno della domanda interna e del welfare. Non bisogna dimenticare che la Germania, a dispetto delle apparenze, è il paese nel quale i salari reali sono crollati circa del tre per cento in seguito all’attuazione nel 2004 della riforma del mercato del lavoro Agenda 2010 – voluta, ironia della sorte, dal socialdemocratico Gerard Schroeder. Un fattore che ha consentito di abbattere il costo di produzione per unità e senza il quale non si spiega la competitività delle merci tedesche all’estero. Nello stesso tempo, la società tedesca ha visto uno spostamento di ricchezza verso l’alto, dai redditi dipendenti ai profitti.
Tutti motivi che spingono a considerare le politiche mercantiliste di Angela Merkel in chiave molto critica. Gli avanzi commerciali con l’estero, finora, non si sono tradotti in investimenti interni, né in sostegni ai redditi. Solo a fatica, e con molte limitazioni, il governo di grande coalizione ha introdotto il salario minimo orario a 8,50 euro. Ci sono città dove trovare un posto in asilo nido è un’impresa. Altrove, per esempio, nei Länder all’est alcuni comuni – come Niederzimmern in Thuringia – si sono visti costretti a vendersi le buche delle strade a 50 euro l’una in cambio di una placca di piombo con il nome dell’acquirente. Un tempo la Germania era invidiata in tutta Europa per la qualità delle sue autostrade e delle reti di comunicazioni – scriveva pochi giorni fa il quotidiano Die Welt. «Oggi la realtà è cambiata. Oggi la rete stradale della nazione più innamorata delle automobili è vicina al collasso: code e cantieri sono un’immagine ricorrente». Nello scorso anno ci sono stati 595 mila chilometri di code. «I ponti si sbriciolano e le ferrovie arrugginiscono. Porti e canali si insabbiano. Le reti di energia e di comunicazione non tengono più il passo con il progresso tecnologico». Ogni anno servirebbero dai dodici ai quindici miliardi di euro solo per mantenere le infrastrutture stradali e ferroviarie nello stato attuale. «Di fatto, ogni anno ci sono non più di otto-dieci miliardi», lamenta il presidente del Forum sulla mobilità Klaus-Peter Müller.
Eppure ogni anno fiumi di capitali tedeschi scorrono verso l’estero. Solo l’anno scorso 240 miliardi di euro sono volati oltre confine sotto forma di investimenti diretti e titoli azionari. Sotto le cifre record che l’economia tedesca mette a segno ogni anno negli scambi con l’estero si nasconde l’altra faccia della medaglia. Una parte della ricchezza che il paese produce non viene investito in Germania ma prende il volo. Fino a quando?