Se c’è una cosa nella quale Game of Thrones è imbattibile è far discutere. Nessun’altra serie tv del vasto panorama televisivo attuale ha la capacità di smuovere il fandom come quella creata da David Benioff e D.B. Weiss e tratta dai romanzi di George R. R. Martin. Ed è incredibile che alla sua settima stagione GOT continui a crescere e a catalizzare un’attenzione tale da rompere record su record – 16 milioni di spettatori per il finale di stagione, contro gli 8 milioni dello scorso anno –, in barba a leak e hacker. Tutti vogliono prendere parte al dibattito di questo fenomeno di massa, di una grande epica che ha riscritto le regole della narrativa contemporanea del piccolo schermo, dando il suo personale contributo all’avvio della cosiddetta nuova Golden Age che stiamo vivendo.
Questa lunga premessa serve a spiegare come anche l’ultima stagione, appena conclusa, non solo non è stata esente dal dibattito ma anzi lo ha alimentato come mai prima d’ora.
Mentre Arya Stark (Maisie Williams) prosegue integerrima il proprio cammino di vendetta, Daenerys Targaryen (Emilia Clarke) approda finalmente a Roccia del Drago, pronta a conquistare Westeros. Dal canto suo, Cersei Lannister (Lena Headey) si prepara ad entrare in guerra contro i suoi numerosi nemici, al fianco del fedele fratello/amante Jaime (Nikolaj Coster-Waldau), mentre Jon Snow (Kit Harington), nuovo Re del Nord, prepara il suo popolo alla grande guerra, quella contro gli Estranei e l’esercito di non-morti. Queste le storyline principali di una stagione decisamente molto lineare e più semplificata rispetto al passato (molti dei personaggi sono morti e quelli rimasti stanno convergendo uno verso l’altro) che corre come il vento, a fronte di soli sette episodi stagionali. “Non c’è tempo” dichiara Jon Snow in un dialogo con Ser Davos (Liam Cunningham), quasi fossero i creatori a parlare. E in mancanza di un tempo adeguato, il ritmo ha subito un’accelerazione spaventosa e il pubblico, e non solo, ha iniziato a disquisire sulla velocità di navi, corvi, draghi, Dothraki e chi più ne ha ne metta, per riuscire a trovare un senso ai viaggi troppo repentini dei protagonisti. In passato si discuteva di scene di sesso scabrose, incesti, morti violenti e scioccanti. Ora si discute se i corvi hanno poteri di teletrasporto e se le distanze del continente si siano improvvisamente accorciate. Già questo fa capire come lo show sia profondamente cambiato, ma in realtà i segni del tempo Game of Thrones iniziava a mostrarli fin dalla quinta stagione, per poi trovare conferma nella sesta, proprio quando gli autori sono stati costretti, in mancanza del materiale originale di R. R. Martin, a prendere le redini in mano e continuare il racconto in autonomia.
Anche nella settima stagione, le grandi pecche sono tutte o quasi a livello di scrittura, con dialoghi spesso banali e scontati, e personaggi non sempre all’altezza delle aspettative (un esempio, Tyrion Lannister), che perdono in approfondimento e sfumature, a favore della classica dicotomia buoni contro cattivi. A tutto ciò, si aggiungono le forzature sopracitate, tra ellissi temporali e timeline a dir poco inverosimili che hanno destabilizzato definitivamente lo spettatore, con il rischio di compromettere la sospensione dell’incredulità e la costruzione della storia e l’evoluzione di essa, svelando la finzionalità del racconto.
Se ci fermassimo qui, il bilancio sarebbe piuttosto negativo. Game of Thrones non è più la serie di un tempo, quella che ha alzato l’asticella della qualità grazie a dialoghi impeccabili, colpi di scena da mozzare il fiato, una cura dei dettagli e una mole tale di personaggi da esseri tutti sacrificabili e a rischio dipartita. GOT ha cambiato forma e contenuto, con intrighi politici messi da parte per draghi ed Estranei, con twist narrativi scontati ma emozionanti, favorendo un racconto più canonico, meno rischioso e molto meno accurato. Ciò che però non è cambiata è la reazione dello spettatore, sempre attento, vivo e appassionato, nel bene e nel male.
Perché nonostante le incongruenze e le numerose scelte sbrigative, pretestuose e infelici, la settima stagione riesce a coinvolgere e stregare grazie a scene d’azione epiche, di grande impatto visivo, incontri memorabili e conferme su teorie attese da tempo. In alcuni episodi – su tutti il quarto, il migliore della stagione –, il pathos e la tensione raggiungono vette così alte e impensabili che lo spettatore si scopre totalmente avvinto dagli eventi e incapace di parteggiare per un personaggio piuttosto che un altro. A quel punto, il pubblico si lamenterà, storcerà anche il naso ma alla fine rimarrà sempre lì, incollato allo schermo, rapito perché curioso di scoprire le sorti dei protagonisti, divenuti ormai icone, come Cersei, Jaime, Jon, Tyrion, anche se quella sorte è già segnata da un destino ineluttabile, iscritta nella serie stessa e, dunque, prevedibile e annunciata.
Si tratta di una capacità rara se non unica, per uno show avvincente che alla fine delude ed esalta, esagera ma conquista, nel suo essere dicotomico sino al midollo, dalla lotta ancestrale del bene contro il male (vivi vs. morti) all’unione del ghiaccio e del fuoco, che trova compimento nell’ultimo episodio: “The dragon and the wolf”.
Ed è proprio questa forse la più grande magia compiuta dagli autori di Game of Thrones, ai quali alla fine si perdona tutto o quasi. Ne è un esempio il finale di stagione, che, senza addentrarci troppo, segna una lieve inversione di rotta, prendendosi tutto il tempo necessario per raccontare uno degli incontri più importanti di sempre (l’episodio dura ben 81 minuti), ma lascia pochissimo spazio a un’altra storyline cruciale per gli sviluppi futuri, trattata in maniera ancora frettolosa. Ritorna allora quel retrogusto dolce-amaro, che in fondo ha contraddistinto tutta la stagione, ma anche la contraddizione che solo Game of Thrones è capace di generare: da una parte si grida allo scandalo, dall’altra l’attesa all’ultima, ottava stagione appare insostenibile. Paradossale, non trovate?