“L’Alternanza scuola-lavoro è una modalità didattica innovativa, che attraverso l’esperienza pratica aiuta a consolidare le conoscenze acquisite a scuola e testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, ad arricchirne la formazione e a orientarne il percorso di studio e, in futuro di lavoro, grazie a progetti in linea con il loro piano di studi.
L’Alternanza scuola-lavoro, obbligatoria per tutte le studentesse e gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori, licei compresi, è una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 (La Buona Scuola) in linea con il principio della scuola aperta.
Un cambiamento culturale per la costruzione di una via italiana al sistema duale, che riprende buone prassi europee, coniugandole con le specificità del tessuto produttivo ed il contesto socio-culturale italiano”.
Questa è la breve descrizione proposta sul sito del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca circa l’alternanza scuola-lavoro, una delle peggiori “innovazioni” mai viste tra le tante riforme che negli ultimi anni hanno tentato di distruggere la scuola italiana. Inserita all’interno della cosiddetta “Buona Scuola” voluta da Matteo Renzi, che già nel suo complesso si presenta come l’apice del processo di demolizione dell’istruzione pubblica italiana, l’alternanza scuola lavoro ne rappresenta forse l’aspetto peggiore.
Trasformata in mera azienda capitalistica produttrice di saperi per studenti visti oramai come consumatori, e basata su un sistema di crediti e debiti, l’istruzione pubblica italiana si inserisce così nel più ampio processo di mercantilizzazione di ogni aspetto della società, anche dell’istituzione stessa, che dovrebbe rappresentare un argine a questo fenomeno, promuovendo invece il pensiero dissonante e l’analisi critica dei fenomeni sociali che ci circondano.
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Contraddicendo quelli che erano gli obiettivi dell’istituzione scolastica sin dall’antica civiltà greca, la nostra scuola fatica sempre più nella formazione di cittadini consapevoli dotati di coscienza, spirito critico e memoria storica, tendendo invece a sfornare giovani possessori di forza-lavoro pronti ad essere gettati all’interno del mercato del lavoro flessibile, laddove flessibile significa precario. Il tutto va poi ad aggiungersi ad una serie di altri provvedimenti che negli ultimi anni hanno visto, tra l’altro, la progressiva diminuzione delle ore di alcune materie, andando ad impoverire l’offerta formativa della scuola italiana dalle primarie alle università.
Ed è proprio nel contesto di mercantilizzazione dell’istruzione che entra in gioco l’alternanza scuola-lavoro, mezzo assolutamente efficace per abituare i ragazzi, sin da giovanissimi, al lavoro coatto precarizzato e non pagato, facendolo passare come un qualcosa di normale, mentre un qualsiasi osservatore esterno noterebbe facilmente come si tratti di una forma legalizzata di sfruttamento del lavoro minorile. Il fenomeno, dunque, danneggia sia lo studente, che deve sottrarre tempo agli studi per dedicarlo ad attività non remunerative e quasi sempre non coerenti rispetto al proprio percorso di formazione, sia i lavoratori, che vedono migliaia di giovani lavorare gratuitamente e dunque sottrarre loro potenziali posti di lavoro. Si crea, in pratica, un antagonismo padre-figlio sul mercato del lavoro, laddove a rimetterci sono entrambi.
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Questo, naturalmente, non significa che gli studenti debbano essere confinati al lavoro teorico e privati di quello pratico: già Karl Marx, infatti, parlava del fondamentale connubio tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tuttavia quest’ultimo dovrebbe essere svolto all’interno delle istituzioni scolastiche e reso coerente con il percorso formativo e di studi di ciascuno, ma soprattutto dovrebbe svolgersi in piena sicurezza, cosa che invece non sempre accade all’interno di alcune aziende, come dimostrano i non pochi incidenti che si sono registrati nel corso dell’anno scolastico.
In conclusione, l’alternanza scuola-lavoro ha un’utilità pratica pari a zero, se non quella di forgiare una giovanissima classe lavoratrice che interiorizzi lo sfruttamento sin da subito, per poi presentarsi sul mercato del lavoro senza nessuna velleità di modificare lo status quo. Per questo, un “governo del cambiamento” che si rispetti dovrebbe procedere immediatamente all’abolizione di questo obbrobrio.