Burundi: Nkurunziza si conferma presidente, è terzo mandato nella tensione

25 Luglio 2015
Giulio Chinappi
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Pierre Nkurunziza Burundi

Boicottaggi ed incidenti di ogni tipo, con almeno ottanta morti, hanno caratterizzato lo svolgimento delle elezioni presidenziali burundesi dello scorso 21 luglio, che hanno avuto luogo per la quinta volta nella storia del Paese africano, la quarta in forma diretta (nel 2005 vi furono elezioni indirette per mezzo del voto parlamentare). Nonostante la forte opposizione, il presidente Pierre Nkurunziza non ha avuto problemi ad ottenere il terzo mandato consecutivo, giudicato da molti anticostituzionale e contrario agli Accordi di Arusha del 2000, volti a limitare i poteri del capo dello stato per riportare la pace nel Paese. Il capo dello stato, dal canto suo, ha giustificato la sua scelta proprio con l’elezione indiretta del 2005, e secondo la sua interpretazione della costituzione ci sarebbe comunque la possibilità di chiedere un secondo mandato per elezione diretta.

Il verdetto delle urne, comunicato ufficialmente nella giornata di ieri dalla Commission électorale nationale indépendante (Céni) presieduta da Pierre-Claver Ndayicariye, è stato molto chiaro, con il 69.41% dei 2.8 milioni di voti registrati favorevoli a Nkurunziza ed al suo CNDD-FDD (Conseil National Pour la Défense de la Démocratie–Forces pour la Défense de la Démocratie), affermandosi nettamente nelle zone rurali. Il principale rivale del presidente uscente, Agathon Rwasa del FNL (Forces Nationales de Libération) ha conquistato il 18.99% dei suffragi, vincendo in due delle diciotto province del Paese. L’affluenza alle urne complessiva è stata del 73.44%, ma va nuovamente fatto notare come Nkurunziza abbia conquistato la vittoria soprattutto grazie ai voti delle zone rurali, mentre nella capitale Bujumbura solamente il 29.75% degli aventi diritto ha espresso il proprio voto, con la maggioranza della popolazione che ha invece aderito al boicottaggio lanciato dalle opposizioni.

Le prime reazioni sono arrivate da Frédéric Bamvuginyumvira, leader del FRODEBU (Front pour la Démocratie du Burundi), che ha affermato di non riconoscere il verdetto delle elezioni e la legittimità del nuovo mandato di Nkurunziza. Rwasa, invece, ha invitato tutti alla formazione di un governo di unità nazionale per evitare che il Paese precipiti nuovamente nel conflitto, come già avvenuto fino alla firma degli Accordi di Arusha nel 2000, stipulati con la mediazione di Nelson Mandela.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nei precedenti articoli, infatti, il nuovo mandato ottenuto da Nkurunziza rischia di risvegliare i vecchi conflitti etnici che erano stati sedati proprio dai suddetti Accordi, simbolicamente firmati nella stessa città di quelli che, nel 1993, avevano posto fine al conflitto ruandese. Ma ad essere minacciata non è solamente la pace e la stabilità del Paese, bensì quella dell’intera regione (la regione dei Grand Laghi), formata da stati dove la pace tra i diversi gruppi etnici è spesso attaccata ad un filo, e che inoltre potrebbero essere messi in difficoltà se continueranno ad affluire migliaia di burundesi in cerca di rifugio (stimati in 160.000 fino ad oggi). Il primo ad esprimere la propria preoccupazione è stato il presidente del vicino Ruanda, Paul Kagame, che già prima della consultazione elettorale aveva invitato il proprio omologo burundese a ritirarsi dalla corsa ed a rimandare la data delle presidenziali.

Di fronte a questa situazione, la comunità internazionale ha iniziato a reagire: segnali di dissenso sono stati espressi sia da Washington che da Bruxelles, con molti dei partner internazionali del Paese che hanno minacciato di lanciare un boicottaggio e di tagliare gli aiuti al Burundi. Se si considera che la metà del budget dello stato del Burundi proviene dall’estero, è facile capire come questo Paese sia economicamente dipendente dall’estero, anche se di questo budget molto spesso non beneficia la popolazione, sempre più povera, ma solamente la “cricca” di Nkurunziza, in un Paese dove la corruzione è dilagante, anche se il taglio degli aiuti rischia comunque di privare gli abitanti di uno dei Paesi più poveri al mondo di quel poco che arriva alle loro tasche.

GIULIO CHINAPPI
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