Fraintendersi, capirsi. Niente di più facile, niente di più difficile

18 Marzo 2014
Laura Elisa Rosato
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Nelle nostre relazioni sociali e’ piu’ facile fraintendersi che capirsi . Perche questo? Quali sono i meccanismi che ci portano al fraintendimento?


Illustrazione Alessandro Colazzo / parole Vito Ignomeriello

Illustrazione Alessandro Colazzo / parole Vito Ignomeriello

L’ampiezza di un discorso su qualcosa non equivale affatto all’ampiezza della comprensione delle cose. Proprio il contrario, un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione1

capture-20140318-181255Il pensiero contemporaneo ha dimenticato quasi totalmente ciò che anzitutto fa di un linguaggio un linguaggio: l’esistenza delle parole. Finchè si rimane all’interno di un sistema coerente di termini il sistema funziona ma è quando si verifica una rottura tra soggettività e oggettività la frattura appare insanabile.

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Una vera parola include il parlante, così come il mezzo parlato, ciò di cui si parla e a chi si parla. Una parola non è un’entità isolata. Una parola è parola solo se è detta da qualcuno (il parlante); se ha un suono, un sostegno sensoriale (il parlato); un significato, un senso (ciò di cui si parla); e un ricevente, un uditore al quale e per il quale noi parliamo e che in un certo senso fa uscire le nostre stesse parole con la sua presenza, la sua influenza, le sue aspettative, l’arco della sua percettività, i suoi interessi e via dicendo. L’uditore condiziona le nostre parole quanto l’argomento – qualcosa che nessun orientale scorderà mai, dato che il linguaggio è comunicazione (e in definitiva comunione) fra persone tanto quanto comunicazione di (o perlomeno informazione a proposito di) una certa situazione2

Nel fitto intreccio di rapporti tra parole e parlanti, le parole “sembrano vetro allo stato magmatico, la crosta frantumata e sinuosa dai bagliori catarifrangenti, come occhi di gatto disseminati a decine. Un organismo che si dimena, sciogliendosi e affondando in sé stesso.3

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Ma l’attività espressiva non può consistere soltanto nell’ istituzione di una relazione esterna tra il soggetto e il mondo: il linguaggio è pensato come una produttività interna all’essere-al-mondo. Il mezzo di realizzare una reciprocità con l’altro che appartiene all’ordine di un’operazione vitale piuttosto che a quello di un atto intellettuale e che attraversa l’esistenza dall’infanzia all’età adulta, rivelando ancora una volta la radice percettiva dell’essere-al-mondo. È nel gesto inaugurale di dar nome al mondo che si manifesta l’espressione eccedente dell’esistenza umana sull’essere naturale.4

Quell’eccedenza che esce da sé volendo in sé rientrare, quel “ pensiero parlante che emerge dal corpo del soggetto si manifesta infine come un desiderio d’espressione che eccede i limiti del cogito e che affonda le sue radici nel corpo del mondo quale “grembo dei possibili” 5.

«Per me non ci sarebbero altri, né altre menti, se non avessi un corpo e se esse non avessero un corpo col quale potessero scivolare nel mio campo, moltiplicarlo dall’interno, e apparirmi in preda allo stesso mondo, in presa, come me, sullo stesso mondo»6

La comprensione dunque quando inizia? “ Ciò da cui il comprendere muove è che qualcosa ci parla, ci interpella. È il fare esperienza del tu come un “tu”.  Nel rapporto con gli altri (…) ciò che importa è esperire il tu davvero come tu, cioè saper ascoltare il suo appello e lasciare che ci parli. Questo esige apertura. ” 7

Questo “prendere sul serio” il pensiero “fra io e tu” non comporta semplicemente accostarsi all’altro come pensato, quanto “come disponibile fisicamente”, ossia rivolgendosi alla sua concretezza. […]Non accostarsi a un altro pensatore, di cui non si vuol conoscere che il pensiero, ma, anche se l’altro è un pensatore, accostarsi al suo non-pensiero corporeo, meglio alla sua persona, a cui appartiene pur sempre l’attività del pensiero. Una “cura” per l’altro, non solo come inter-locutore, quanto come l’altro che ci vive di fronte nella sua interezza. […] L’esser legati gli uni agli altri significa sempre, insieme, sapersi ascoltare reciprocamente. ”8

Questa lacerazione della riflessione può forse finire? Occorrerebbe un silenzio che avvolga di nuovo la parola, dopo che ci si è accorti che la parola avvolgeva il preteso silenzio della coincidenza psicologica.

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Che cosa sarà questo silenzio? […] questo silenzio non sarà il contrario del linguaggio9 . “Tacere non significa (…) esser muto. Al contrario, il muto tende a “parlare”. Un muto non dimostra come tale di poter tacere, perché gli manca perfino la possibilità di dimostrarlo. Anche chi è taciturno per natura non dimostra più del muto di tacere e di poter tacere. Chi non dice mai nulla non ha la possibilità di tacere al momento opportuno. Solo il vero discorso rende possibile il silenzio autentico. Per poter tacere l’Esserci deve aver qualcosa da dire, deve cioè poter contare su un’apertura di se stesso ampia e autentica. […] Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto.10

Si tratta in realtà di comprendere di quale tacere ci sia necessità e di quale silenzio. Paradossale lo stesso tentativo di parlare dell’arte di tacere. E’ altresì evidente invece che nel corso del tempo gli uomini si sono misurati con questo paradosso, forse talmente portante per l’essere umano da costituire la colonna vertebrale del suo esserci.

Senza questa radicale apertura reciproca non sussiste alcun legame umano. Tanto il silenzio quanto la parola appartengono alla “struttura fondamentale”dell’uomo.

Sfuggendo al “tacito assunto” secondo il quale tutti sanno ascoltare ed al pregiudizio secondo il quale non c’è nulla — o pochissimo — che possa essere migliorato e fatto sviluppare nelle nostre capacità di ascolto. Smettendo di far frastuono, smettendo di porre avanti i nostri stessi rumori di fondo, le nostre aspettative, le nostre preoccupazioni, i nostri obiettivi e le nostre attività. Ascoltando.

Alla radice di questo atteggiamento non semplicemente qualità espressive o linguistiche,  piuttosto una dimensione più integrale ed originaria che coinvolge l’intera persona.

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Un’ospitalità e una accoglienza da ricercare per ciò che esse permettono, incoraggiano e sostengono. In gioco il senso e la significatività della ricerca per ciascuno, il coinvolgimento, la motivazione e l’interesse: appunto, aprire a una comprensione della realtà riconoscibile e riconosciuta, praticabile, condivisibile.

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La dimensione dell’ascolto è prioritaria e fondante rispetto a quella del dire e dell’esprimere: quest’ultima infatti non avrebbe alcun senso senza la prima. Da una parte un ritorno alle origini (etimo arcaico di logoj da legein, che, oltre ai significati relativi al dire, denota anche accogliere, raccogliere, tenere in serbo, posare, lasciare-stare-innanzi, ecc.), dall’altra, una “svolta” nei confronti di una tradizione che ha teso a fuggire dall’ascolto e dal silenzio, tutto centrando solo sulla parola proferita o scritta.

Una accezione evolutiva dell’ascolto, frontiera possibile per una ulteriore piena maturazione del linguaggio, una via di uscita alla “insufficienza comunicativa” nella quale siamo immersi.

Gli sterminati ed enigmatici orizzonti dell’ascolto che consentono un più vero dialogo e non soltanto quegli smontaggi dialettizzanti che ripropongono ciò che abbattono.11

Comunicare è entrare nell’altro, ma sorvegliandoci . Entrarvi senza invaderlo…Invadere l’altro è annullarlo, impedirgli di contraccambiare il dono; è il rifiuto di accettare la sua parola discreta; è violare il suo domicilio interiore, senza permettergli di entrare nel nostro, è la superbia di chi crede di essere tutto capacità fecondatrice e si rifiuta di disporsi a ricevere. È una disponibilità che rende l’altro indisponibile, lo annulla come altro, il nostro simile. … È il delirio dell’egoismo assassino, il gioco omicida di chi monologa e si serve dell’altro come ascoltatore passivo, cacciato fuori dalla comunicazione»12.

Occorre portare l’altro con te, sempre e dovunque, rinchiuso dentro di te, e lì convivere con lui. E non soltanto con uno, ma con molti. Accogliere l’altro nello spazio interno e farlo prosperare, dargli un posto dove può germogliare e svilupparsi “13

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Il dialogo non è predeterminabile e non è controllabile: «Diciamo solitamente “condurre un dialogo”, ma quanto più un dialogo è autentico, tanto meno il suo modo di svolgersi dipende dalla volontà dell’uno o dell’altro degli interlocutori. Il dialogo autentico non riesce mai come noi volevamo che fosse. Anzi, ingenerale e più giusto dire che in un dialogo si è “presi”, se non addirittura che il dialogo ci “cattura” e avviluppa. Il modo come una parola segue all’altra, il modo in cui il dialogo prende le sue direzioni, il modo in cui procede e giunge a conclusione, tutto questo ha certo una direzione, ma in essa gli interlocutori non tanto guidano, quanto piuttosto sono guidati. Ciò che “risulta” da un dialogo non si può sapere prima.

  1. Martin Heidegger, Essere e tempo, trad.it, Longanesi

  2. Lo spirito della parola,  Panikkar Raimon, 2007, Brossura,  Bollati Boringhieri  , 

  3. Tiziano Scarpa, http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2009/07/22/news/le-parole-parlanti-1.14687

  4. Merleau-Ponty, M., Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Milano, Il Saggiatore

  5. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Milano, Bompiani

  6. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, trad. it. di M.Sanlorenzo, Roma, Editori Riuniti

  7. Gadamer – Verità e metodo, Bompiani, 1983

  8. Ibidem

  9. Merleau-Ponty, op.cit.

  10. Heidegger : Essere e Tempo, op. cit.

  11. Gemma Corradi Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano, Jaca Book, 1985

  12. Michele Federico Sciacca, Come si vince a Waterloo, Palermo, L’Epos, 1999

  13. Etty Hillesum , Diario, Milano, Adelphi

  14. Silence, Listening, Teaching, and the Space of What Is Not , Ronna Scott Mosher

  15. Louis Lavelle, La parole e L’Ecriture, Parigi, L’Artisan du Livre, 1947

  16. Gadamer, op.cit.

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