1 Gennaio 1970
Fabrizio Cianci
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Charles BukowskiIl qualunquismo modaiolo di chi si approccia ad un qualsiasi oggetto che fa tendenza, partendo dalle argomentazioni, per relationem,più facili con le quali indirizzare un discorso. Potremmo definirla “il morbo di Wikipedia”. Cosa? La tendenza a de -scrivere, rimanere su uno stato abbastanza grosso e grossolano di superficialità (con tutto il rispetto possibile per gli autori di Wikipedia, che tanti studenti delle medie aiutano e tanti ancora continueranno ad aiutare per i secoli dei secoli), tale da guardare una foto e un titolo per farsi un’opinione delle cose che ci stanno intorno.

Siamo d’accordo nel veicolare tutto questo ad un uso parzialmente scorretto del fenomeno-internet. Però, di sicuro, c’è di nuovo che non è solo colpa di noi utenti medi e della nostra sete di bicchieri, sempre più spesso mezzi vuoti. Perché lasciare dei puntini di sospensione sulla frase “l’assassino di Yara è…” come se fosse un quiz a premi, è quantomeno riprovevole.

Costruita la cerbottana, abbondantemente insalivata con la premessa di cui sopra, è arrivato, dunque, il momento di lanciarla sta frecciatina, accuratamente avvelenata, sulla stupida ostinazione con cui si deve per forza parlare di Henry Charles Bukowski, scrittore, ma soprattutto poeta americano, riguardo alle due passioni universalmente riconosciute per le donne, ma soprattutto per l’alcool.

Che le storie di Henry Chinaski, l’alter-ego casanova dello scrittore, siano sulla bocca di tutti è un fatto dato per assodato, vista la pressante richiesta dell’editore di ricavarne, in quest’articolo, qualcosa che vada oltre.

Con la consapevolezza e l’umiltà di chi sa di non sapere nulla in merito al nulla cosmico di cui si tratta, per giustificare il distacco di Henry Charles Bukowski dal suo Chinaski, costruito ad arte per lasciare la propria traccia su questo pianeta, sembra doveroso partire dalla constatazione che Henry Charles Bukowski prima di diventare la penna di Donne e Storie di ordinaria follia era innanzitutto un frequentatore della biblioteca pubblica di Los Angeles.

Come qualsiasi portatore sano di brufoli, il nostro eroe era solito frequentare un luogo a noi sempre più sconosciuto, ove, evidentemente in coerenza con la storiella che vogliamo oggi raccontare, incontra due mostri sacri della storia della letteratura.

Sono la qualità della prosa e lo smisurato ego siculo-americano, rispettivamente, di prima e seconda generazione, a contraddistinguere Elio Vittorini e John Fante nelle loro narrazioni. Altrettanto protagonismo c’è nelle righe del Buk, il quale, è, a più riprese, meravigliato e profondamente ispirato ai loro scritti, tanto da affermare che “John Fante è il mio Dio”, in una programmata e costante escalation che sembra realizzare tutti i presupposti amorosi posti in essere dall’Arturo Bandini di fantiana memoria.

Il risultato che ne esce, dovuto, per la verità, anche al profondo senso di frustrazione di chi è stato più volte ricoverato per acne facciale e ai numerosi colpi di cinghia del rasoio del padre (rigorosamente tedesco di razza, ma non pastore), è quello di un uomo con una soglia di sensibilità particolarmente alta, che lo porta, tra l’altro, a sfogarsi scrivendo, oltre al celebre taccuino, poesie.

Questo è il secondo, non per importanza, punto sul quale è necessario insistere per farsi un’idea, seppur minima, del protagonista delle vicende narrate. Bukowski è il creatore di alcuni versi da far paura, come quelli in cui elenca chi per lui ha stile (da Giovanna d’Arco a Gesù Cristo), ma in generale, giusto per non cadere nel pozzo oscuro e profondo dell’elencazione, sono questi i primi passi mossi nel palcoscenico della letteratura, ai più completamente sconosciuti, purtroppo.

Il che è motivo di profondo disappunto per chi lo conosce davvero, come l’amico-proprietario della casa editrice Black Sparrow John Martin, il quale, più o meno recentemente, ha confermato come del personaggio narrato dalle leggende mass-mediologhe sia vero solo l’indirizzo di casa.

Sono proprio le dinamiche di una semplice e modesta casa editrice a portare Hank a fare il gran salto dal corto al lungometraggio narrativo, così arrivando alla scrittura del primo romanzo Post office ad un solo mese dalla richiesta espressa da John Martin, nella evidente direzione di guadagnare qualche dollaro.

E’ insomma la promessa di un vitalizio di 100 dollari al mese ad ammaestrare lo scatenato Henry, il quale abbandona il suo lavoro alle poste per dedicarsi, anima e corpo, al mestiere dello scrittore di professione che tutti conosciamo e di cui va tanto di moda parlare.

Occorre però non fermarsi a tutto ciò, e registrare di come fossero frequentati da ragazzi pieni di sana curiosità i suoi reading di poesie. Di come, per l’emozione e la vergogna provata, Henry fosse solito vomitare prima di ogni singola recita e scusarsi, prima di tutto con se stesso e poi con gli altri, perché vendeva la sua anima per soldi. Di come bloccasse di colpo le interviste, lunghe esplicitazioni volontarie del suo enorme (?) ego per vedere se, a bussare alla porta di casa sua, fosse la Sua Linda Lee. Di come avesse un rapporto particolare con la Signora Morte, tanto da farsene la sua spalla in Pulp.

Perché, in fondo, è questo che consiglio a chi vuole avvicinarsi alle letture di Henry Charles Bukowski: leggere senza alcun tipo di aspettativa, come con tutti gli autori (tranne Alessandro Baricco, per favore) confrontandosi con un semplice punto di vista su cosa sia veramente l’Amore. Ubriacarsi di lettura per imparare a vivere “ […] in un posto dove le masse trasformano i cretini in eroi di successo..”: vedere Micky Mouse per credere.

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