Le caratteristiche umane ci contraddistinguono, diversificandoci. Le dinamiche emozionali ci accomunano: questa cosa ci permette addirittura di tracciare dei precisi profili che riguardano il nostro approccio ai sentimenti, ma anche ai giudizi altrui. Mentre per tradizione siamo soliti parlare del dualismo “mente – cuore”, più verosimilmente oggi siamo in grado di distinguere tra mente razionale e mente emozionale. Sono le emozioni a guidare le nostre azioni, emozioni che pur hanno una loro ragione, un’intrinseca logica.
La mente emozionale può decifrare una realtà emotiva senza il filtro dell’analiticità e della lungaggine della ragione. In pratica ci possiamo fare intuitivamente un’opinione su chi ci sta di fronte, e di conseguenza decidere se possiamo fidarci o meno. La reazione, indotta dall’elevato valore adattivo delle emozioni, è repentina.
La mente razionale ha bisogno di molto più tempo per registrare le impressioni e formulare questi giudizi. Eppure vivere le emozioni senza classificarle è alquanto utopico: l’educazione impartita dalla famiglia, ad esempio, ci condiziona nella misura in cui noi diamo un nome a quelle emozioni, discernendo le “buone” da quelle “cattive”.
Una percezione dunque che si trasforma in un’etichetta, il che può dare adito ad un conflitto interiore. Questo nasce quando percepiamo un’emozione come negativa e, per farle fronte, mettiamo in atto delle strategie per evitarla. Avvertiamo insomma lo slancio emotivo, ma decidiamo di inibirlo per non incorrere nel rischio di generare nell’altro una visione vulnerabile di noi. Caso emblematico è rappresentato dall’impulso di tenerezza, non di rado represso in quanto spesso associato all’idea di una personalità debole.
Più però reprimiamo le emozioni che bolliamo come negative, più accumuliamo energia emotiva, sovraccaricandoci ed esponendoci alla reiterata eventualità di scoppi improvvisi, incontrollati o, peggio, sproporzionati. Sarebbe utile diventare consapevoli delle emozioni che proviamo, non rifuggirle ma imparare ogni volta qualcosa in più su cosa le provoca, su come possiamo agire su di esse per non venirne travolti.
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Il “conosci te stesso” di Socrate, nel suo sottotesto, fa anche riferimento alla piena contezza delle proprie emozioni, sin dal momento in cui si presentano. È questa la vera chiave di volta dell’intelligenza emotiva.
L’antica parola greca che indicava questa qualità era σωφροσύνη ‘sophrosyne’, tradotta dal grecista Page DuBois come “cura e intelligenza nel condurre la propria vita“.
I Romani e i primi cristiani la identificavano invece con la temperanza, la capacità di equilibrare le emozioni, e non di sopprimerle, nella consapevolezza che ogni sentimento ha il suo valore e il suo significato.
La definizione definitiva la troviamo in “Emotional intelligence” (1990) dove Peter Salovey e John D. Mayer scrivono: “l’intelligenza emotiva è la capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni“.
Infine, fu nel 1995 che Daniel Goleman rese popolare il concetto di intelligenza emotiva definendola: “la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare“.
Consapevolezza, padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle relazioni interpersonali: potremmo riassumere così il manifesto dell’intelligenza emotiva, la cui importanza va di pari passo alla necessità di un’alfabetizzazione emozionale.
Cominciare un percorso di educazione all’emozione sin dall’età infantile significa costruire progressivamente competenze emotive e sociali a un tempo, quelle che ci consentono di bilanciare la razionalità con la compassione. Solo in questo modo potremo imparare ad usare le emozioni come un patrimonio di ricchezza straordinaria, a vantaggio nostro e della collettività, in una formazione continua all’agire per scelta e non al a reagire, in una costante e soffusa dipendenza dall’altro.
Riconoscendo il nostro vissuto emozionale ci poniamo nelle condizioni di non agire mossi esclusivamente dalle emozioni e di trovare un canale adatto e funzionale per esprimerle, di aprirci insomma alla vera libertà, quella che, per dirla con Adorno, “non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta“.
[photo credit: Tomasz Alen Koper, 2013]